di Aris Accornero
L’esito del negoziato fra sindacati, imprenditori e governo sulla riforma del sistema contrattuale era scontato, ma fa lo stesso sensazione. E apre scenari inquietanti per le relazioni sindacali come per la coesione sociale.
Era scontato innanzitutto e soprattutto perché la Cgil non voleva assolutamente modificare gli equilibri fra contratto nazionale e accordi aziendali. La vitale questione dell’ade¬gua¬¬mento dei salari al carovita è venuta di rinforzo – e quale rinforzo! – ma la soluzione di compromesso accettata dagli altri sindacati poteva essere accettata anche dalla Cgil. Quel che la Cgil non poteva accettare era il rischio economi-co e sociale insito in uno spostamento dal baricentro negoziale tradizionale.
L’ombrello protettivo del contratto nazionale pareva e pare insostituibile alla Cgil per almeno una buona ragione: in un paese manifatturiero ove la struttura delle imprese e la distribuzione degli occu-pati sono più disperse che in ogni altra nazione europea, è ben difficile che tutta la crescita del monte salari dovuta alla negoziazione nazionale si possa travasare e riversare sulla negoziazione aziendale. Lo scambio fra salario nazionale e salario aziendale, fra i rispettivi livelli e le rispettive dinamiche, po-trebbe sottrarre qualcosa ai lavoratori delle imprese minori. Premierebbe la maggiore produttività e penalizzerebbe una produttività minore. Anche se il vantaggio concesso per legge agli incentivi di produttività riguarda una piccola quota del salario, il rischio c’è. Dovendo dare di più a livello di a-zienda, è quasi certo che gli imprenditori vorranno rosicchiare qualcosa sul minimo contrattuale.
La sola garanzia sta nella clausola di salvaguardia inventata dai metalmeccanici per il loro contratto di categoria, che “rimborsa a forfait”, nella stessa misura, tutti i lavoratori che non hanno modo di condi-videre con l’impren¬ditore i maggiori risultati dell’azienda, sia perché questa è troppo piccola sia per-ché l’imprenditore non vuole trattare. E’ probabile che si tratti di un ricupero parziale, e questo è vero anche se il quantum si può negoziare. Ma non mi pare che i metalmeccanici si siano ricreduti e che ri-fiutino questo espediente, né si può prevedere che vi rinuncino soltanto perché esso viene bocciato a livello confederale.
Un altro rischio enfatizzato dalla Cgil è che lo spostamento del baricentro non alimenti bensì ostacoli l’allargamento della contrattazione aziendale, e dunque possa addirittura restringere l’area della coper-tura contrattuale e della tutela sindacale. E poi c’è anche l’insana idea (purtroppo introdotta in Italia dal compianto collega Marco Biagi) che si fanno accordi per autorizzare accordi in deroga…
Ma in sostanza, per la Cgil, la riforma del sistema contrattuale su cui convengono le altre confedera-zioni sindacali e varie organizzazioni imprenditoriali si baserebbe su presupposti, o comporterebbe ri-schi, del tutto inaccettabili. Messa così, la trattativa non avrebbe neppure dovuto iniziare, e in ogni ca-so la Cgil avrebbe dovuto abbandonarla. D’altronde è sufficiente rammentare le preoccupazioni, i dis-sensi e le critiche che nel 2007 espresse la Cgil circa il Protocollo fra le parti sociali proposto dal se-condo governo Prodi, e frutto di un arduo compromesso (che impostava la riforma universalistica del-l’indennità di disoccupazione e della Cassa integrazione lasciata cadere dall’attuale governo).
In quella occasione, la Cgil aveva perfino messo in dubbio l’approvazione del documento, che succes-sivamente il Direttivo votò a maggioranza, ma con le riserve apposte all’atto della firma. (Poi il refe-rendum mostrò che oltre quattro quinti dei lavoratori erano per il sì.) Se si tiene conto di quel prece-dente, la posizione assunta oggi dalla Cgil stupisce un po’ meno. La si può spiegare soltanto se si con-sidera il quadro politico attuale, che la Cgil interpreta come uno spaventoso arretramento sociale del lavoro, venuto con il neo-liberismo e da rimontare nonostante la crisi mondiale.
Questo forse la Cgil non lo può dire, ma l’idea è che il mondo del lavoro sia finito ai margini della po-litica e non sia ben rappresentato neppure dal Partito democratico, cui pure aderisce buona parte della dirigenza Cgil, così come quella Cisl e quella Uil. Negli anni Settanta, Gino Giugni parlava di “sup-plenza sindacale”, e a me pareva già un pochino politica. Oggi, noi che stiamo fuori abbiamo l’impres¬sione che la Cgil, e da più tempo la Fiom, si stia comportando come se fosse l’ultimo pezzo di sinistra operaia rimasto in piedi in questo paese. Di solito questo lo pensano piccole minoranze. Ma loro, la Cgil, sono il sindacato più grosso. Mi chiedo quindi: possibile che il problema siano soltanto loro?