di Mimmo Carrieri – Università di Teramo
Da tempo le parti sociali provano a riformare la contrattazione. Negli ultimi mesi la trattativa ha registrato un’accelerazione, ma senza arrivare ad un approdo ancora definitivo. Il 10 ottobre la Confindustria , insieme a Cisl e Uil ma con il dissenso della Cgil, hanno elaborato un testo che appare però inconcluso e aperto a perfezionamenti (oltre che agli apporti della stessa Cgil, che intende continuare nel confronto). Che valutazione dare di questo percorso negoziale ormai lungo?
Le ottiche sono di vario tipo. Molti sono insoddisfatti e mettono l’accento sulla necessità di un accordo per sbloccare la situazione: che è ovviamente un’esigenza condivisibile. Il punto però – a mio avviso – è che non tutti gli accordi assicurano un salto positivo. Raggiungere un accordo non è di per sé manifestazione di modernità, come una parte della stampa lascia intendere. Sarebbe più proficuo discutere di un ‘buon accordo’, capace di mettere in moto una efficace regolazione bilaterale del mondo della produzione, incoraggiante per le imprese e vantaggiosa per i dipendenti.
Non va mai dimenticato che le regole attualmente vigenti – il Protocollo del 1993 -, e spesso incautamente considerate obsolete, in realtà costituiscono già un buon pacchetto di riferimento, che ha complessivamente ben funzionato. Possono essere migliorate solo se si prospetta un evidente saldo attivo nei risultati attesi. Quel quadro – le regole del gioco in materia di relazioni industriali – costituisce il solco inevitabile sul quale innestare modifiche significative. Nello stesso tempo fornisce i materiali pratici intorno a ciò che non ha funzionato e andrebbe migliorato rispetto all’attuale assetto.
In effetti i punti critici, già da tempo assodati, riguardano: meccanismi di protezione del salario più prossimi all’inflazione reale; il superamento dell’ inadeguata estensione della contrattazione decentrata (salvo che nel pubblico impiego); un maggiore peso complessivo di questo livello negoziale, anche eventualmente in ambito territoriale; maggiore velocità e certezza sui tempi negoziali e sull’applicazione dei contratti. Ma soprattutto è stato più volte rilevato che il deficit principale su cui mettere mano è consistito nella scarsa capacità di promuovere innovazione, e miglioramenti netti della produttività e della competitività del sistema delle imprese, favorendo così maggiore sviluppo e incrementi dei benefici per tutti gli attori sociali.
E’ questa quindi la chiave con cui misurare l’evoluzione di questa trattativa. La sua idoneità a favorire un punto di equilibrio dinamico tra maggiore competitività dell’economia (consentendo una crescita più forte) e adeguata equità sociale (tradotta anche in maggiori redditi per il lavoro dipendente). In questa ottica, insieme a passi avanti, restano da chiarire ancora alcuni passaggi.
Un aspetto importante da valorizzare positivamente è contenuto tanto nel documento delle tre Confederazioni, che in quello con cui la Confindustria si è presentata alla trattativa. In quei testi vengono indicati alcuni orientamenti, di principio e pratici, da sottolineare. Da un lato la riaffermazione del valore centrale della contrattazione collettiva e della regolazione bilaterale, cioè condivisa, delle relazioni industriali. Da un altro lato l’importanza attribuita ad una struttura articolata della contrattazione basata su due livelli distinti, uno nazionale e uno decentrato.
E’ certo rilevante che le parti concordino su questi punti focali che non sono affatto scontati, soprattutto nella comparazione internazionale: è difficile trovare il riconoscimento formale – specie da parte delle organizzazioni datoriali – della compresenza di due livelli contrattuali di pari rilevanza. Nella sostanza viene escluso un decentramento non controllato dell’attività contrattuale, e l’assetto contrattuale che viene prefigurato rientra piuttosto nell’opzione del decentramento organizzato, nel quale viene riconosciuto uno spazio potenzialmente maggiore alla contrattazione micro, ma dentro un quadro di regole generali e certe fissate dal centro.
Su questo zoccolo – non piccolo – di convergenze si è innestata una trattativa che non ha ancora trovato punti di caduta del tutto persuasivi. Un nodo critico – sul quale la Cgil ha marcato una posizione distinta – riguarda il criterio di calcolo dei salari in rapporto all’inflazione, dal momento che le parti hanno convenuto di ancorarsi ad un indice previsivo ( definito però un ‘oggetto misterioso’ da Boeri e Garibaldi) che prende a riferimento l’andamento dell’inflazione reale, invece di quella programmata fin qui adottata (in quanto prevista nel paradigma di politica dei redditi del 1993). L’esigenza da cui muovono le parti è duplice: una misura più legata all’inflazione reale, ed insieme un recupero dei salari che non ripercorra la strada dell’indicizzazione automatica. Ma se è così, siamo davvero sicuri che sia conveniente abbandonare il meccanismo dell’inflazione programmata, invece di rimodularlo? Quel meccanismo – proposto da Tarantelli e messo in opera da Ciampi – nasceva proprio dall’esigenza di superare le rigidità degli automatismi e di evitare aspettative inflazionistiche. In una fase di inflazione crescente e di stagflazione strisciante, e non prevista, non sarebbe più prudente ancorarsi all’inflazione programmata, evitandone gli eccessi verso il basso, che sono serviti finora a deprimere i salari, e che appaiono oggi controproducenti se si vuole aiutare la ripresa economica? Inoltre siamo sicuri che il governo, che finora non ha partecipato direttamente alla trattativa, e che ha basato sull’inflazione programmata (troppo bassa) le sue finanziarie dei prossimi anni, accetti senza discutere un indice diverso adottato dalle sole parti?
Le maggiori perplessità, che suscitano le soluzioni fin qui configurate si riferiscono però alla difficoltà di mettere in moto il circolo virtuoso tra contrattazione decentrata, cambiamento tecnico-organizzativo, spinta verso l’innovazione e la competitività. Il vero punto debole dell’impianto del Protocollo del 1993 riguarda proprio questo aspetto: non ha funzionato in quel disegno il collegamento tra i comportamenti cooperativi delle parti e l’andamento aziendale, e in modo particolare tra la contrattazione e gli indici di misurazione del risultato conseguito. Non ha funzionato nel senso che non sono stati incentivati significativamente comportamenti orientati a innovare maggiormente, premiandoli in modo adeguato (tanto per le imprese, che per i lavoratori).
L’obiettivo dovrebbe essere quello di fare produttività, per superare – come ha sostenuto Tronti (2008), il ‘gioco a somma negativa’ che affligge l’economia italiana.
Ma il testo dello scorso 10 ottobre riprende quasi testualmente le espressioni già contenute in materia nel Protocollo del 1993, senza miglioramenti importanti, mentre invece argomenta qualcosa di più sull’opportunità di favorire la contrattazione territoriale ancorandola ad indici di misurazione del risultato. Nella sostanza non è possibile notare – allo stato, ma il testo può essere perfezionato – una risposta forte al problema posto con chiarezza già da un paio d’anni da molti studiosi, specie economisti del lavoro, di definire un nuovo patto per la produttività e competitività (Acocella, Leoni, Tronti et al., 2006). Finora l’attenzione, e le proposte di intervento, sono state più orientate a definire misure che favoriscano un maggiore peso economico della contrattazione decentrata, che non volte ad aumentare il collegamento tra contrattazione e innovazione nell’insieme del sistema produttivo: nesso attualmente presente in diverse medie aziende, e ne spiega la maggiore internazionalizzazione e competitività, ma carente o assente nella maggioranza delle imprese soprattutto minori (si calcola che le imprese orientate in senso innovativo siano il 20-25% dell’intero apparato produttivo).
Un altro aspetto discutibile riguarda la definizione di criteri precisi per la rappresentanza sindacale, la cui inadeguatezza è lamentata da tutti da tempo. Un segnale di novità positivo era contenuto nel documento di maggio delle tre Confederazioni, che facevano la proposta di regolare in chiave universale la misurazione della rappresentatività ai fini negoziali: e non erano mancati osservatori che ritenevano troppo deboli e vaghe queste ipotesi di lavoro, che però erano divenute un capitolo importante dell’agenda sindacale. Nel documento del 10 ottobre il riferimento a questo tema diventa più ellittico, e si parla di “interesse a definire nuove regole”. Nello stesso tempo viene citata – forse per dimenticanza – solo la certificazione dei dati relativi agli iscritti ai sindacati (presso l’Inps) e non viene fatto un esplicito rinvio alla altrettanto importante questione della certificazione dei dati elettorali (delle rappresentanze sindacali di base).
Da queste osservazioni schematiche si può dedurre che il percorso per un nuovo assetto della contrattazione ha bisogno di essere integrato e migliorato. Si è messo l’accento sulle resistenze all’accordo che vengono da posizioni conservatrici. E non c’è dubbio che sia presente un cultura neo-conflittuale, ostile a qualunque ricerca di una mediazione efficace tra gli interessi delle parti. Quello che però qui si è cercato di dire è che quanto emerge finora – quindi con le cautele del caso, perché potrebbero delinearsi novità positive – è criticabile al contrario per un evidente difetto di innovazione: che determina scarsa adeguatezza nell’aggredire efficacemente i nodi di fondo con cui il nostro sistema sociale ed economico si confronta da tempo senza trovare chiavi convincenti.
Quello che ancora non si vede con nitidezza – e che invece sarebbe necessario – è un patto per l’innovazione che solleciti tutti i soggetti sociali, nei luoghi di lavoro e nei territori, a cooperare per introdurre cambiamenti tecnici e organizzativi che diano spinta (e benefici) alle imprese e al lavoro. La materia da plasmare è ben più importante di un buon pacchetto di accorgimenti tecnici (che pure sono necessari). Essa riguarda più ambiziosamente l’aggiornamento del capitalismo democratico del novecento ai nuovi scenari post-fordisti: aggiornamento che significa una combinazione diversa dal passato – ma comunque una dahrendorfiana quadratura del cerchio – tra sviluppo economico e diritti dei lavoratori. Serve un ‘nuovo scambio politico’ – come è stato definito -, orientato verso l’innovazione e in grado di superare l’attuale scambio bloccato. Senza questa miscela sembra problematico assicurare al nostro paese una prospettiva di rilancio economico che controbilanci i preoccupanti segnali di stagnazione (evidenti nella comparazione internazionale).
Infine un’ultima considerazione. L’accordo sulle regole del 1993 fu conseguito grazie ad un ruolo attivo del governo. In quel momento il governo tecnico di Ciampi operò per favorire la cooperazione tra le parti e spinse per mettere in campo , accanto al perseguimento di interessi parziali, la promozione di rilevanti beni pubblici (controllo dell’inflazione, riduzione del deficit, rilancio del sistema economico, occupazione). Ma oggi servirebbe un ruolo analogo del governo, un esercizio di scambio e non solo di autorità. In quanto appare difficile concludere una intesa così delicata, senza strutturare una politica dei redditi ad ampio raggio e con più strumenti (e non solo della dinamica dei salari), favorendo maggiori convenienze per le parti (mediante la leva del fisco e quella degli incentivi selettivi per le imprese innovative) e disegnando scenari di beni comuni per i quali vale la pena rimboccarsi le maniche e cooperare. Ci vorrebbe un respiro più ampio e più lungo: ma ci sono le condizioni?
Riferimenti
Acocella N., Leoni R. e Tronti L.(2006), Per un nuovo patto sociale sulla produttività e la crescita, appello on-line
Tronti L. (2008), Impresa, comunità e flessibilità del lavoro: per un nuovo scambio politico, paper