di Pietro De Biasi, direttore risorse umane e relazioni industriali Ilva
Alcuni eventi particolarmente simbolici, recentemente accaduti, riportano in primo piano nel dibattito politico-sociale del paese il tema del sistema delle relazioni industriali e dei modi del reciproco riconoscimento tra parti sociali e potere politico.
L’inefficienza delle relazioni industriali, progressivamente accentuatasi in un periodo in cui l’intera governance sociale ed economica del paese si è andata progressivamente indebolendo, ha avuto in brevissimo tempo contemporaneamente un esempio plateale nel caso Alitalia, vera cartina tornasole del più ampio caso Italia, ed un’autorevole conferma nelle parole pronunciate dal presidente uscente di Confindustria, Montezemolo, nel recentissimo convegno di Torino.
In più l’esito del confronto elettorale non segna solo il ritorno al governo di istanze distanti dal mondo sindacale e dal modello concertativo fino ad oggi prevalente, ma sembra mettere in discussione addirittura la capacità rappresentativa del sindacato stesso ed il suo insediamento sociale, di fronte allo sfondamento leghista nei capisaldi delle tradizionali elites operaie del Nord Italia.
Il sistema delle relazioni industriali si trova in un momento molto difficile, e la sua crisi è ormai conclamata. Confindustria, nelle parole del suo presidente e nelle corrosive dichiarazioni sull’ultimo Ccnl metalmeccanico da parte del più importante manager italiano, Sergio Marchionne, registra il fallimento della riforma del modello di contrattazione per la tradizionale via concertativa. Quattro anni trascorsi ad attendere non l’esito del negoziato ma il suo semplice inizio non autorizzano ad alcuna conclusione meno drastica di questa. E’ chiaro però che gravi sono i rischi che a questo fallimento faccia seguito una sorta di deflagrazione anarchica del sistema di relazioni industriali in Italia; tale pericolo sembra essere presente anche alla nuova maggioranza politica che, ad esempio, ha reagito molto cautamente alla presa di posizione confindustriale.
In questo scenario occorre chiedersi cosa debbano e possano fare i principali attori in questione. Il sindacato confederale, e soprattutto il suo pezzo più rappresentativo, la Cgil, è chiamato urgentemente e senza autoindulgenze ad un profondo ripensamento del proprio ruolo. La concertazione, nella declinazione verticistica e neocorporativa, gli ha attribuito un ruolo di contraente politico, il cui peso e spettro d’azione non ha eguali nella maggior parte dei paesi più avanzati. Ciò ha provocato però il non lusinghiero risultato di renderlo, da un lato, corresponsabile delle discutibili politiche economico-sociali degli ultimi anni, dall’altro, lento e miope nel cogliere le modificazioni sociali e le nuove domande emergenti dal mondo del lavoro. Alla elementare ma forte richiesta di miglioramento delle condizioni economiche di lavoro si è risposto sostanzialmente nella più tradizionale delle maniere: la polemica indifferenziata nei confronti della controparte datoriale e la sostanziale chiusura verso le richieste di intervento sulle forme della contrattazione.
Rispetto infatti all’esigenza di una maggiore efficienza del sistema negoziale, il sindacato ha reagito con esasperante lentezza, sembrando di fatto un mero difensore dell’esistente. Posto di fronte alle richieste di maggiore flessibilità salariale per la via di un più accentuato legame della retribuzione con i risultati produttivi delle aziende, non è stato in grado fino ad oggi di assumere una coerente posizione politica e negoziale, lasciando il pallino in mano alla controparte, apparendo di nuovo una forza conservatrice, e dunque almeno corresponsabile degli attuali problemi (una proposta, quand’anche discutibile, è meglio di nessuna proposta). D’altro canto gli strati più deboli del mondo del lavoro hanno toccato con mano l’incapacità del sindacato, nonostante la sua preminenza politica, di incidere realmente sulle cause e sulle più eclatanti manifestazioni di tale disagio: la precarietà vera, quella che si manifesta nel lavoro nero e nell’aggiramento ed elusione della legge Biagi, annidati paradossalmente nell’arcipelago allargato della pubblica amministrazione, oltreché nella frammentazione dell’universo del terziario, avanzato e non.
L’abbandono dei porti sicuri delle tradizionali politiche sindacali e dei consolidati riferimenti sociali, pensionati, pubblico impiego etc., diventa sempre più necessario per giocare un ruolo propositivo e riformista di fronte ai gravi problemi sociali che il mondo del lavoro ed il paese hanno di fronte. In questo senso come non vedere nel protocollo sul welfare del luglio scorso un gigantesco e strategico errore: sono stati letteralmente sperperati miliardi di euro in una controriforma delle pensioni ed in una normativa sui lavori usuranti senza uguali nel mondo civile, sottraendo preziosissime risorse ad un reale intervento in favore delle fasce più deboli del mondo del lavoro, scegliendo invece di privilegiare vere e proprie clientele già ben protette, come i “pensionandi” a sistema retributivo; tutto ciò in cambio di fatto alla rinuncia a qualsiasi intervento di un qualche effetto sul fronte della precarietà/flessibilità, cedendo sul punto alle pretese, anch’esse in questo caso di carattere ideologico, di Confindustria. Il compromesso alla base del protocollo sul welfare esemplifica insomma la deriva corporativa della concertazione: si soddisfano sistematicamente gli interessi più forti e organizzati, e perciò meno bisognosi di tutela, a scapito dell’interesse generale.
Ed infatti anche Confindustria stessa deve riflettere sul proprio ruolo. Essa è stata infatti una componente essenziale del sistema concertativo, ed il quadriennio Montezemolo si è, fino all’epilogo, contraddistinto per una generosa ed ampia fiducia nella capacità del modello di autoriformarsi. La delusione per i magri risultati ottenuti non dovrebbe però determinare il riproporsi sottotraccia di un confronto interno tra un’anima pro-concertazione ed un rinvigorito fronte di falchi “neo-damatiani”, quanto spingere verso nuove soluzioni nella rappresentanza imprenditoriale nell’ambito del sistema delle relazioni industriali. L’abbandono della logica neocorporativa, insita più o meno consapevolmente nella pratica concertativa, può rendere maggiormente libera Confindustria, e le sue componenti, di impegnarsi in un ridisegno “dal basso” del sistema della contrattazione e delle relazioni industriali, non in una logica anarchica (ognuno fa quel che vuole o può), ma seguendo le reali trasformazioni del sistema industriale e le diffuse nuove esigenze che vi si manifestano. Non tutto si deve necessariamente ricomporre al vertice, ma ci possono essere diversi momenti di sintesi che né debbono essere per forza risolti in una monolitica linea marcatamente “politicista”, né debbono necessariamente innescare meccanismi centrifughi non più gestibili.
In questo senso la presa d’atto della mancata riforma degli assetti contrattuali nel precedente scenario politico-sociale, invece di indurre ad una ripresentazione, magari estremizzata, della stessa piattaforma, contando su una diversa sponda politica, dovrebbe forse suggerire una diversa modalità di approccio al tema della negoziazione. Ed infatti, un maggior spazio alla contrattazione aziendale, un più solido ed effettivo legame di parti del salario alla produttività aziendale può essere raggiunto anche, e forse meglio, attraverso l’incentivazione e la diffusione di buone prassi, che, per loro parte, non escludano il sindacato (alla Della Valle) ma lo coinvolgano e lo sfidino sul terreno concreto della comprensione ed attivazione dei meccanismi di creazione di valore, cosiccome di partecipazione e coesione sociale nelle aziende, nei comparti e nei territori. Una Confindustria più europea, meno verticale e carismatica insomma, e più orientata al coordinamento delle sue articolazioni, pur rimanendo nei confronti di quest’ultime riferimento autorevole ed imprescindibile per la complessiva sintesi (qui sì necessaria) nell’analisi economico-sociale e nell’indirizzo del mondo imprenditoriale italiano.
La nuova stagione politica può aiutare in maniera decisiva il riorientamento degli attori sociali. L’esperienza dell’ultimo decennio dovrebbe consigliare la nuova maggioranza di centro-destra di evitare scontri simbolici con le organizzazioni sindacali e cercare, per così dire, di sottrarre carica ideologica alla necessaria uscita dal meccanismo concertativo. Deve segnare con nettezza la propria autonomia dalle parti sociali, segnando nei fatti una discontinuità con le logiche precedenti senza sposare ideologicamente le posizioni di una delle parti. Oggi più che mai una vera politica di riforma deve essere contrassegnata dall’indipendenza e dalla distanza dalle pur legittime istanze rappresentate dalle parti sociali. Il terreno comincia ad essere più favorevole che in passato: le stucchevoli controversie ideologiche sulla legge Biagi sembrano esaurirsi sfibrate dalla loro stessa inconcludenza; essa va rafforzata nella parte ancora mancante, quella degli ammortizzatori sociali, va migliorata, alla luce dell’esperienza di questi anni, nella parte di contrasto alla precarietà, va semplificata pulendo ed affinando gli strumenti di flessibilità introdotti.
Gli interventi di detassazione degli straordinari sono utili ma certamente non esauriscono di per sé il problema dei livelli salariali, che non può essere ridotto ad un puro problema di quantità di lavoro: in Italia non si lavora meno che in Germania o in Francia, anzi; il divario di produttività del lavoro con i maggiori paesi europei ha cause purtroppo ben più ampie che vanno affrontate con una visione complessiva del sistema industriale, che si richiede e deve essere propria della politica e del Governo del paese. Dovrebbe far riflettere il fatto che, ad esempio, di fronte all’innegabile progressiva riduzione della quota spettante al lavoro rispetto al reddito d’impresa, fenomeno non solo italiano, la Grosse Koalition in Germania vari un disegno di legge per la completa detassazione di forme di partecipazione agli utili a favore dei dipendenti; quest’iniziativa è complessa e si può senz’altro prestare a critiche, ma è comunque ben più sofisticata del citato intervento sugli straordinari.
Una vera riforma del pubblico impiego, a cominciare dalla gestione del rapporto di lavoro, comincia ad avere una base di consenso non meramente retorico che può permettere forse interventi finalmente incisivi. E’ proprio il pubblico impiego il settore dove la frattura tra insiders, iperprotetti ed inamovibili, ed outsiders, precari e sottopagati, è più odiosa; ed è da qui, prima di rimettere in discussione il tabù dell’art.18, che si potrebbe partire per iniziare ad affrontare uno dei principali squilibri del mondo lavoro in Italia: l’eccessiva protezione di alcune fasce di lavoratori di contro all’abnorme precarietà di altre.
In sintesi la nuova maggioranza politica dovrà aprire un dialogo con tutto il sindacato confederale, inclusa la Cgil, per evitare un nuovo arroccamento, senza per questo rinunciare alla necessaria discontinuità con le prassi e le politiche passate. E’ questa l’unica via per offrire una sponda alle forze riformatrici pure presenti all’interno del sindacato. E’ un cammino molto stretto che, come detto, chiede un sincero rinnovamento a tutte le parti sociali ed un’autentica capacità riformista alla nuova maggioranza politica del paese nella consapevolezza che non c’è più tempo per attendere i ritardatari.


























