di Giorgio Santini – segretario confederale Cisl
Si torna con insistenza a parlare anche in Italia di salario minimo, con l’obiettivo esplicito di ridurre la povertà tra i lavoratori, proteggendo le categorie maggiormente a rischio di emarginazione e sfruttamento. Nel nostro Paese sono circa 7,5 milioni i cittadini che vivono al di sotto della soglia di povertà e al loro interno risultano in crescita i cosiddetti working poors, i lavoratori poveri. Quindi l’obiettivo di iniziative e politiche finalizzate al contrasto della povertà tra i cittadini e i lavoratori risulta non solo condivisibile ma, come da tempo sostiene la Cisl, necessario ed urgente.
Vanno, tuttavia, fatte alcune puntualizzazioni attorno ad una sorta di “diaspora terminologica” costituita da numerose definizioni (salario minimo, reddito minimo di inserimento, reddito di ultima istanza, salario sociale) che sottendono differenti approcci e strumenti rispetto alle politiche di contrasto della povertà e ai collegamenti con le politiche del lavoro e la contrattazione collettiva.
Il punto che distingue i diversi approcci sta nel riferimento alla natura degli strumenti impiegati, il reddito minimo di inserimento o di ultima istanza risponde alle esigenze di natura “sociale” e riguarda l’insieme delle persone in condizione di povertà. Il salario minimo riguarda invece direttamente i lavoratori verso i quali, considerata la criticità o la marginalità della loro condizione, si ritiene necessario fissare per via legislativa un livello di retribuzione minimo.
Da sempre la Cisl ha contrastato, e continuerà a farlo, l’idea e la pratica di protezioni sociali non collegate al lavoro o all’attiva ricerca di esso (gli ammortizzatori sociali) e consideriamo assolutamente prioritario contrastare la povertà con l’inclusione sociale attraverso l’aumento dell’occupazione, fino al raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, che fissano al 70% il tasso di occupazione. E’ giusto allora ragionare su come incentivare l’accesso al lavoro e come dare maggior sostegno al salario dei lavoratori. Per fare ciò tuttavia non è necessario arrivare al salario minimo legale.
La Cisl conferma questa sua impostazione anche se, il panorama europeo vede 20 dei 27 Paesi dell’Unione adottare misure assimilabili alla categoria del salario legale minimo, pur in un quadro articolato, con una diversificazione degli indicatori di riferimento, in alcuni casi convenzionali, in altri di natura più scientifica, oppure con il salario minimo omogeneo su base nazionale ovvero differenziato regionalmente. In concreto esso assume, nei diversi Paesi, diverse dimensioni quantitative. Secondo il Consiglio europeo deve corrispondere al 60% della retribuzione nazionale media, mentre per l’Ocse ai 2/3 dei guadagni medi. Recentemente il salario minimo è stato introdotto anche in Germania, con una serie di provvedimenti legislativi riguardanti diversi settori, dapprima il settore edile, da qualche mese anche nel settore postale.
Nel nostro Paese non esiste il salario minimo stabilito in via legale. Il compito di assicurare all’insieme dei lavoratori condizioni retributive dignitose (secondo quanto prevede l’art. 36 della Costituzione) è stato sempre svolto in maniera complessivamente soddisfacente dalla contrattazione collettiva, che risulta in Italia essere molto estesa e in grado di capire le diverse aree merceologiche.
E’ bene continuare così, anche se la progressiva individualizzazione del lavoro, la crescita del lavoro parasubordinato, i processi di dematerializzazione delle imprese, pongono al sindacato confederale nuovi problemi e nuove sfide, rendendo necessaria una riflessione approfondita e non aprioristica.
Due in particolare sono le questioni che si pongono. Come garantire un livello retributivo adeguato nel lavoro individuale, come ad esempio, il lavoro a progetto, dove non esistono pratiche di contrattazione collettiva? Ed ancora più in generale, come prevedere il rispetto dei contratti collettivi nell’area purtroppo estesa del lavoro irregolare e sommerso o nelle tante realtà di “lavoro grigio”, nel mondo cioè degli appalti e dei subappalti, delle finte cooperative, delle figure professionali fittizie? I sostenitori del salario minimo per legge dichiarano di pensare proprio a queste situazioni.
Nel caso del lavoro a progetto più che il salario minimo per legge andrebbe rafforzato il riferimento, già oggi previsto nella legislazione, alla contrattazione collettiva, segnatamente ai livelli retributivi dei contratti collettivi. Non esiste a nostro avviso contraddizione tra la natura individuale del rapporto di lavoro e la possibilità di regolarlo attraverso una contrattazione collettiva che ne fissi le regole generali. Un malinteso senso di “liberismo estremo” pone questi due termini in alternativa; nella realtà non lo sono, e quindi se c’è da intervenire sul lavoro a progetto, la scelta giusta è incentivare e promuovere, attraverso la legge, la contrattazione tra le parti. Tra l’altro la contrattazione è sicuramente meno rigida rispetto alle norme legislative e si può meglio adattare ad una tipologia di lavoro che per sua stessa natura è molto flessibile e mutevole.
Più complesso è il caso delle politiche retributive nell’economia sommersa. E’ tutto da dimostrare che un salario minimo legale sarebbe più facilmente rispettato. In queste aree di lavoro vengono, purtroppo, ignorate già moltissime altre disposizioni sia di legge (fiscali, contributive, previdenziali, di sicurezza) che contrattuali. Pertanto il problema non si risolve con una legge in più.
Vanno viceversa favoriti, attraverso azioni di contrasto dell’illegalità e, in parallelo, d’incentivazione alla regolarizzazione, tutti quei percorsi d’emersione dal lavoro nero e di bonifica del mercato del lavoro che da tempo vedono il sindacato confederale impegnato e che hanno bisogno di continuità e determinazione da parte delle istituzioni. Va a questo proposito ricordato che nelle esperienze realizzate in Italia negli anni scorsi proprio l’adattabilità del contratto collettivo ha rappresentato una strada per favorire la regolarizzazione del lavoro nero, attraverso i contratti di emersione.
Da ultimo, si sostiene che il salario minimo legale potrebbe essere utile nei settori particolarmente deboli sul versante contrattuale, nei quali il rinnovo del contratto di lavoro subisce slittamenti anche di anni. Sicuramente in questi casi è necessario siano assunte, anche dalle istituzioni, iniziative per favorire la stipula di contratti, ma non necessariamente queste debbono essere il salario minimo legale.
Un esempio positivo viene dalla recente esperienza del contratto degli addetti alle pulizie, bloccato da anni, che ha trovato una soluzione attraverso una norma legislativa che ha vincolato al rispetto del contratto di settore in presenza, negli appalti, di passaggi dei dipendenti da un’azienda altra.
In conclusione l’esperienza italiana ci permette di sostenere con argomentazioni robuste e credibili che gli obiettivi – condivisibili – di contrasto alla povertà e alla marginalità si possono raggiungere innanzitutto rafforzando ed estendendo la contrattazione collettiva, con una riforma della sua struttura e dei suoi assetti che specializzi il contratto nazionale per la salvaguardia del potere d’acquisto e generalizzi la contrattazione aziendale o territoriale per redistribuire la produttività.
L’apporto che può dare la legislazione consiste nella capacità di incentivare, rendendola fiscalmente più conveniente, la contrattazione stessa, ovvero di sostenerne l’applicazione, ad esempio vincolando qualsiasi forma di beneficio a favore delle imprese al pieno e tempestivo rispetto dei contratti collettivi.
Pertanto la via maestra rimane la contrattazione collettiva, che può e deve trovare sostegno e incentivazione da una legislazione sociale che risponda alle esigenze del mondo del lavoro e del sistema economico.


























