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Home - Approfondimenti - Analisi - Workfare, governance e riforma degli ammortizzatori sociali

Workfare, governance e riforma degli ammortizzatori sociali

17 Ottobre 2007
in Analisi

di Manuel Marocco – ricercatore ISFOL*

A seguito della stipula del “Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili”1  del 23 luglio 2007, l’Esecutivo, con tutta probabilità, otterrà una nuova delega per la riforma degli ammortizzatori sociali 2. In effetti nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 12 ottobre, proprio finalizzato ad attuare detto Protocollo 3  e che ora dovrà passare “al vaglio” del Parlamento, è conferito un mandato di durata annuale al Governo per riformare “la materia degli ammortizzatori sociali e per il riordino degli istituti a sostegno del reddito” (art. 8) . 4
Tra i “principi e criteri direttivi” fissati al Legislatore delegato risaltano ai nostri fini, da una parte la previsione della “connessione con politiche attive per il lavoro” e dall’altra l’esigenza di “potenziare i servizi per l’impiego”. La ratio non è solo quella di favorire la “stabilizzazione dei rapporti di lavoro, l’occupazione, soprattutto femminile, nonché l’inserimento lavorativo di soggetti appartenenti alle fasce deboli del mercato”, ma anche quella di “collegare e coordinare l’erogazione delle prestazioni di disoccupazione a percorsi di formazione ed inserimento lavorativo”. Insomma secondo quanto, più esplicitamente e in maniera draconiana, prevede lo stesso Protocollo del 23 luglio, l’obiettivo è “rendere effettiva la perdita della tutela in caso d’immotivata non partecipazione ai programmi di reinserimento al lavoro o di non accettazione di congrue opportunità lavorative”.

Sullo sfondo si coglie l’approccio alle politiche di sostegno al reddito detto welfare to work, da cui la contrazione workfare, approccio nato nei paesi anglosassoni ove esiste una tradizione di sistemi passivi di protezione del reddito molto consolidata. A sostegno di questa impostazione, oltre ad esigenze di contenimento della spesa pubblica, assume un ruolo primario l’insieme di critiche mosse all’elargizione di sussidi alla disoccupazione, fra le quali il presunto effetto disincentivante alla ricerca di un nuovo lavoro e alla riqualificazione professionale (cd. unemployment trap). Pertanto, una delle tendenze più recenti di riforma di tali sistemi di protezione adottati a livello internazionale hanno riguardato, da una parte, “l’inasprimento della cosiddetta condizionalità, ossia delle condizioni che devono essere soddisfatte dal beneficiario per percepire (e/o continuare a percepire) la prestazione” e, dall’altra, “la manipolazione delle formule di prestazione e della condizionalità in modo da incentivare la partecipazione lavorativa (cd. make work pay), anche in collegamento con le politiche attive e le altre politiche sociali” 5. Viene cioè previsto uno scambio sinallagmatico tra prestazione previdenziale erogata e quella lavorativa, sotto forma di onere a carico del soggetto titolare di un trattamento, dal cui inadempimento discende la perdita del trattamento stesso.
Emerge così un tratto comune con gli interventi tampone e settoriali comunque approvati nel corso degli ultimi anni, “in attesa della riforma degli ammortizzatori sociali”. Anche questi difatti si caratterizzano per l’introduzione di clausole dirette, almeno formalmente, ad irrigidire l’apparato sanzionatorio che regola l’accesso alla misure di politica passiva. In altre parole, si potrebbe sostenere che quella che dovrebbe essere una caratteristica essenziale e imprescindibile del nuovo sistema, e vale a dire l’integrazione delle politiche passive con quelle attive, è già ampiamente riconosciuta nell’ambito del nostro ordinamento.
Resta da vedere quanto poi alla astrattezza della prescrizione normativa corrisponda la sua concreta attuazione.



Può essere anticipato in proposito che, in disparte dall’esigenza di razionalizzare le disposizioni già vigenti, appare indispensabile intervenire anche sull’attuale assetto organizzativo ed istituzionale difficilmente compatibile con una razionale gestione di un riformato sistema di ammortizzatori sociali. Insomma, occorre intervenire per rafforzare la governance del sistema che, anche per effetto di processi ispirati alla sussidiareità verticale ed orizzontale, appare “polverizzato” fra le competenze di svariati attori.
Come anticipato, l’ordinamento vigente appare intessuto di clausole che condizionano la fruizione dei sussidi alla partecipazione ad attività formative, od alla disponibilità al lavoro, pur avendo trovato poi scarsa applicazione concreta nella pratica.
Osservando la disciplina positiva della “condizionalità” – ossia delle condizioni che devono essere soddisfatte dal beneficiario per percepire (e/o continuare a percepire) la prestazione – recentemente la legge finanziaria 2004 (l. n. 350/2003), con un intervento di portata generale ha uniformato i requisiti per il godimento del trattamento di mobilità, di disoccupazione ordinaria o speciale, della CIGS, nonché di ogni “altra indennità o sussidio, la cui corresponsione è collegata allo stato di disoccupazione o inoccupazione”. Soffermandoci solo su tale ultima disposizione, era ivi prevista la decadenza da tutti i  trattamenti quando il lavoratore:
– “rifiuti di essere avviato ad un progetto individuale di reinserimento nel mercato del lavoro, ovvero
– rifiuti di essere avviato ad un corso di formazione professionale autorizzato dalla regione o non lo frequenti regolarmente”, ovvero
– “non accetti l’offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore del 20 per cento rispetto a quello delle mansioni di provenienza”.
Allo stesso modo, per la CIGS – essendo il rapporto di lavoro sospeso – si disponeva comunque detta decadenza in caso di rifiuto ad “essere avviato ad un corso di formazione professionale o non lo frequenti regolarmente” e comunque, si ribadiva, l’irrogazione della stessa sanzione “qualora non accetti di essere impiegato in opere o servizi di pubblica utilità”.


Le stesse regole risultano poi ribadite in un decreto legge del 2004, poi convertito in legge (d.l. n. 249/2004, conv. dalla l n. 291/2004), sulla quale è intervenuto anche il Ministero del lavoro, con la circolare n. 5/2006. È qui enucleato il vincolo di proattività imposto ai beneficiari dei trattamenti e sussidi già presi in considerazione dalla finanziaria del 2004, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, altresì chiarendo procedure, soggetti istituzionali ed attori economici coinvolti, a diverso titolo, nell’irrogazione del provvedimento di decadenza.     
Di fatto, gli ultimi interventi segnalati hanno ripreso, estendendola a tutti i lavoratori percettori di trattamenti previdenziali e/o assistenziali, la previgente disciplina in tema di cancellazione del lavoratore dalla lista di mobilità di cui alla l. 223/1991, ricalcando gli oneri di accettazione, correttezza e comunicazione ivi previsti. Tuttavia sono rilevabili due novità. In primo luogo è possibile riscontare un certo inasprimento della condizionalità, in particolare sotto forma di una maggiore severità in tema di disponibilità al lavoro. Si è difatti intervenuti su tutte le componenti, di regola, prese in considerazione nella valutazione della accettabilità di un impiego e vale a dire: quella “geografica, relativa alla mobilità richiesta, quella materiale, relativa alla retribuzione prevista dal lavoro e quella funzionale, relativa la tipo di attività e alla mansione svolta” 6. Infatti, oltre alla azione sui primi due elementi (quello geografico e quello materiale) rispetto ai quali si apprezza un certo aggravio , una ulteriore differenza rilevabile da un confronto con la disciplina del 1991, è quella che concerne la definizione di lavoro ed offerta formativa “accettabile”, il cui rifiuto comporta il venir meno della posizione giuridica attiva dell’interessato.



Mentre la disciplina più risalente conteneva il più certo riferimento alla “equivalenza professionale”, sotto questo aspetto, sia la finanziaria per il 2004, che il successivo d.l. 249/2004 sopra richiamati, dispongono solo un limite “materiale” alla disponibilità al lavoro (sotto forma di soglia reddituale minima, il 20% della retribuzione di provenienza). Ha rimediato alla assenza di un limite “funzionale” a detta disponibilità, la citata circolare n. 2/2006; questa, difatti, ha esteso anche alle fattispecie ivi previste una nozione già nota all’ordinamento, in quanto introdotta da precedenti provvedimenti legislativi. Ci si riferisce al vincolo di “congruità”, il quale – a parere del Ministero del lavoro –  anche se non espressamente richiamato dalla Legge, “può ritenersi applicabile”; sicché “l’obbligo di accettare un’offerta di lavoro si applica nei casi in cui la medesima sia congrua con le competenze e le qualifiche possedute dal lavoratore”.
In secondo luogo, pare rilevante segnalare che la decadenza discende anche dal rifiuto ad essere avviato ad un “progetto individuale di reinserimento nel mercato del lavoro”. Sembra così tratteggiato, seppur genericamente, l’inserimento del soggetto in un piano di politiche di attivazione dedicato, finalizzato a migliorarne l’occupabilità e il cui rifiuto incide negativamente sul rapporto previdenziale.   
Da questo breve, e semplificato, excursus sembra possa affermarsi l’insorgenza di una disciplina comune in materia di decadenza, seppure “nascosta” nelle pieghe di normative che disordinatamente si affastellano tra loro.
A completare l’apparato normativo vigente in tema di condizionalità deve essere sottolineato che il cd. “Pacchetto competitività” (l. n. 80/2005), proprio anticipando una delle linee guida della riforma degli ammortizzatori sociali, sembra stabilire il collegamento tra indennità di disoccupazione e situazione di disoccupazione. Difatti è ivi espressamente disposto che: “L’indennità di disoccupazione non spetta nelle ipotesi di perdita e sospensione dello stato di disoccupazione disciplinate dalla normativa in materia di incontro tra domanda ed offerta di lavoro” . 7

Tuttavia il riferimento alla “normativa in materia di incontro tra domanda ed offerta di lavoro”, chiama in causa, dal punto di vista gestionale, soggetti ulteriori rispetto all’INPS – deputato alla cura dell’apparato sanzionatorio fin qui rassegnato – al contempo esponendo il sistema al rischio di differenziazioni territoriali dei livelli di protezione. Si tratta, infatti, di disciplina in parte dettata a livello regionale, che coinvolge l’attività dei servizi locali per il lavoro.  


Ci si riferisce alla cd. riforma del collocamento ordinario (dd.lgs. nn. 181/2000 e 297/2002), la quale ha, in primo luogo, previsto che per l’acquisizione dello status non rileva più solo il mero fatto di essere privo di lavoro, ma è indispensabile dichiararsi immediatamente disponibile ad un lavoro “congruo” e concordare, con chi eroga il servizio all’impiego, le modalità per la “ricerca di una attività lavorativa”. Cosicché, il rifiuto ingiustificato delle misure preventive proposte comporta il venire meno della condizione di “disoccupato”.
Tuttavia la disciplina è frutto di un complesso intreccio fra fonti normative di livello nazionale e regionale. Mentre il legislatore nazionale ha fissato degli standard minimi circa l’offerta di lavoro in ordine alla tipologia contrattuale ed alla durata del rapporto 8, risulta affidato invece alla normativa regionale sia la disciplina della “congruità”, sia la fissazione della distanza massima tra luogo di lavoro e domicilio del lavoratore. Le Regioni nel disciplinare la congruità dell’offerta di lavoro 9 hanno definito, in genere, parametri di professionalità, nonché di reddito percepibile, in concorrenza tra loro, così come del resto osservato in tema di decadenza dagli ammortizzatori sociali.
Aldilà degli specifici contenuti regionali, di fatto, non ricorre un’unica definizione di congruità, almeno ai fini della definizione della platea dei beneficiari delle politiche attive da erogarsi a livello locale. Il rischio evidente è che, essendo stato stabilito – ci si riferisce al ricordato “Pacchetto competività” – un collegamento di tali politiche con quelle passive, ne derivi una differenziazione territoriale di una delle componenti fondamentali per la definizione di lavoro accettabile; il cui rifiuto comporta perciò, non solo l’esclusione temporanea dalla platea dei soggetti cui gli enti locali rivolgono prioritariamente misure per il miglioramento della occupabilità, ma anche la decadenza dal diritto a beneficiare del trattamento o sussidio eventualmente goduto.



Dalla normativa sul collocamento deriva anche un altro istituto, solo accennato nella più recente disciplina degli ammortizzatori sociali, ma espressamente richiamato nel Protocollo del 23 luglio all’inizio ricordato 10 e ora nel relativo disegno di legge di attuazione 11.
Come detto, una delle condizioni previste ai fini del riconoscimento dello “stato di disoccupazione” è quella concernente la “ricerca attiva di lavoro secondo le modalità definite con i servizi competenti”. La maggioranza delle Regioni hanno stabilito che le modalità di ricerca attiva di lavoro debbano essere formalizzate in un “Patto di servizio” tra utente e “servizio competente”, il cui contenuto tipico è costituito dalla enucleazione consensuale delle azioni e misure intese al inserimento/reinserimento, ritagliate sulle necessità occupazionali del soggetto che richiede l’intervento del “servizio competente”. Raggiunto l’accordo sul percorso di inserimento/reinserimento, da questo nucleo discendono gli obblighi per le parti ed in particolare per l’utente, una volta sottoscritto il patto. Il disoccupato/inoccupato, infatti, rimane così vincolato “in merito alle modalità di ricerca attiva concordate”. Ne discende che la verifica del mancato rispetto delle azioni ivi previste comporta il venir meno della condizione della ricerca attiva di lavoro, e pertanto la perdita dello status di disoccupato.
Pertanto, una volta stabilito con il più volte richiamato “Pacchetto competitività” il collegamento tra azione dei Centri provinciali per l’impiego ed erogazione dell’indennità ordinaria di disoccupazionel trattamento di disoccupazione ordinaria, ne dovrebbe già conseguire che, in caso di mancato rispetto del “Patto”, l’utente perderà lo stato di disoccupazione con “riflessi” non solo sul piano dell’accesso alle misure di politica attiva, ma anche sul diritto a godere della medesima prestazione.
In conclusione, da quanto sin qui detto, pare evidente l’esistenza di clausole di workfare nella disciplina vigente, la cui applicazione è tuttavia complicata dalla presenza di una pluralità di soggetti non solo chiamati a regolarne, secondo le rispettive competenze, gli aspetti essenziali (Stato e Regioni), ma anche a governarle (uffici territoriali INPS e Centri per l’impiego). Di tale “complicazione istituzionale” è del resto consapevole il Protocollo del 23 luglio ove si afferma che: “(…) È necessario un efficace coordinamento tra Ministero del Lavoro e Regioni, d’intesa con le parti sociali, con particolare riguardo ai profili di sistema (definizione di standard nazionali, sistema informativo, formazione degli operatori, ecc.) valorizzando le sinergie con gli enti previdenziali”. In effetti nel disegno di legge di attuazione del Protocollo all’inizio ricordato è precisato che la delega in materia di ammortizzatori sociali – ma soprattutto quella in tema di servizi all’impiego – dovrà essere esercitata sì nei limiti della potestà legislativa riconosciuta alle Regioni, ma comunque “garantendo l’uniformità della tutela dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.


NOTE
1  Sul punto il contenuto dello stesso Protocollo era stato anticipato dal documento del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, intitolato “La tutela dei soggetti deboli sul mercato del lavoro. Ammortizzatori sociali – Giovani – Donne”.
2  In effetti nelle precedenti Legislature erano stati approvati testi normativi contenenti ampie deleghe legislative proprio dirette a tale scopo. Ci si riferisce all’art. 45 della l. n. 144/99 e al Disegno di legge n. 848bis/2001, i quali originavano rispettivamente nel cd. Patto di Natale del 1998 e nel cd. Patto per l’Italia del 2002.
3  Disegno di legge recante “Norme per l’attuazione del protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili del 23 luglio 2007 ed ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale”.
4  Va segnalato che, oltre alla segnalata delega, nel Ddl è contenuta – così come previsto dallo stesso Protocollo – una disciplina di immediata efficacia diretta a migliorare gli interventi “base” in caso di disoccupazione. Vale a dire l’indennità ordinaria di disoccupazione e quella a requisiti ridotti, rispetto ai quali è disposto un miglioramento di durata ed importo, nonché un rafforzamento della relativa copertura previdenziale.  
5  Ferrera M. (2004), La gestione del rischio economico di disoccupazione in Europa: osservazioni comparate e implicazioni per l’Italia, in Porcari S. (a cura di), “Sistemi di welfare e gestione del rischio economico di disoccupazione”, ISFOL, Franco Angeli, Milano.
6  Così Tiraboschi M. (2003), Le prestazioni di disoccupazione in Europa– Spunti di riflessione per il caso italiano, Rapporto per il CNEL, giugno 2003, in www.csmb.unimo.it 
 7 Tale disposizione era originariamente valida solo per l’anno 2006, ma la Finanziaria per l’anno 2007 (l. n. 296/2007) sembra averla, nel complesso, inserita a titolo definitivo nell’ordinamento. Si aggiunga che una norma di identico tenore è posta anche dal Ddl di attuazione del Protocollo del 23 luglio nel ri-disciplinare, in attesa della riforma del sistema, il trattamento di disoccupazione ordinaria.
8 Contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e per una durata indeterminata ovvero per una durata minima (8 o 4 mesi a secondo se giovani o anziani.
9  Ciò è avvenuto tramite delibere di giunta regionali approvate tra il 2004 e il 2006. Sia consentito rinviare sula tema a Marocco M. (2005), I regolamenti regionali in materia di incontro tra domanda  ed offerta di lavoro, Rivista Giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 4, 641 ss.
10  È ivi dichiarato: “La partecipazione attiva ai programmi di inserimento lavorativo (…) può essere sostenuta da schemi che prevedano un “patto di servizio” da stipulare tra i centri per l’impiego e le persone in cerca di lavoro”.
11  All’art. 9, contenente una delega al governo in materia di mercato del lavoro, tra i principi cui l’Esecutivo dovrà attenersi nel riordinare la disciplina in materia di servizi all’impiego è prevista la “promozione del patto di servizio come strumento di gestione adottato dai servizi per l’impiego per interventi di politica attiva del lavoro”.

* Le seguenti considerazioni sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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