di Franco Caramazza, ex segretario (1974-84) dei Giovani imprenditori di Confindustria
Un ricordo di Piero Pozzoli a dieci anni dalla sua scomparsa è opportuno non solo per un doveroso omaggio al suo impegno autenticamente liberale (di cultura laica e libertaria, fu iscritto al partito repubblicano e al partito radicale) ma anche perché gli anni – tra il ’74 e il ’77 – in cui guidò i giovani imprenditori di Confindustria lo videro protagonista di una profonda trasformazione della Confindustria che segnò, per tutti gli anni ’70 e ’80 e poi fino all’accordo per la concertazione della presidenza Abete, il modo di porsi dell’organizzazione degli imprenditori rispetto ai problemi dello sviluppo e della modernizzazione del sistema industriale italiano. Fu un processo di trasformazione nato da una esigenza di rinnovamento del ruolo di Confindustria nella società italiana (siamo alla fine degli anni ’60) avvertita prima da isolate élites imprenditoriali e da alcune delle grandi famiglie del capitalismo italiano e poi dalla nuova imprenditoria rappresentata dai giovani e dai piccoli imprenditori.
Tre le leve sui cui agì questa trasformazione: la definizione di un vero e proprio manifesto dell’imprenditoria contenuto in due testi “fondanti”, il Preambolo dello Statuto Pirelli e il rapporto Una politica per l’industria nato negli ambienti torinesi e presto diventato il punto di riferimento culturale della nuova imprenditoria; il ricambio generazionale di gran parte del gruppo dirigente dell’organizzazione; la definizione di nuove regole statutarie.
Lo statuto varato nel ’70 dalla commissione presieduta da Leopoldo Pirelli introdusse alcune specifiche ma importanti innovazioni organizzative che avrebbero avuto riflessi di rilievo sullo stesso modo d’essere di Confindustria e sui contenuti della sua linea politica: rotazione delle cariche di vertice, incompatibilità tra cariche nazionali e cariche nelle territoriali o nelle categorie, impegno diretto degli imprenditori nella guida delle associazioni, gestione collegiale aperta alle piccole e medie imprese senza deleghe alla tecnostruttura o all’oligarchia di poche grandi imprese, attenzione a ciò che succede “fuori dei cancelli della fabbrica” con l’istituzione di Centri studi e di Comitati rapporti esterni che segnavano la fine del collateralismo con questo o quel partito, trasparenza dei bilanci che poneva fine a quella pratica di rapporto con la politica nota come “fondi riservati a disposizione del Presidente”.
Tracciati i princìpi e definite le nuove regole, si trattava di applicarli in tutte le 200 associazioni territoriali e di categoria. L’impegno di Pozzoli e dei giovani imprenditori fu assolutamente decisivo e consentì di dare gambe per camminare ad una riforma politica e statutaria che altrimenti sarebbe rimasta sulla carta a testimonianza, postuma, della lucida analisi di qualche grande imprenditore illuminato.
Pozzoli e i giovani imprenditori (la “coscienza critica” della Confindustria) vigilarono su questa trasformazione e in molte realtà associative si impegnarono “in prima linea” (e in qualche caso pagando anche sul piano personale con l’ostracismo della locale business community).
Pozzoli nel vertice di Confindustria fu tra coloro che si batterono per questo cambiamento e vi aggiunse una sua cifra personale rappresentata dal suo metodo di lavoro e di dibattito, il metodo liberale del confronto, quello che si apprende sulle pagine di Mill. Un metodo che impose prima ai giovani imprenditori e poi all’intera Confindustria.
Confronto in pubblico sulle posizioni interne, formazione chiara di maggioranze e minoranze sulle singole scelte di politica economica o di relazioni industriali attraverso l’abbandono della pratica del “voto per acclamazione”, nessun timore all’apertura al contributo di intellettuali anche se “non organici” a Confindustria, campagne elettorali per i rinnovi delle cariche basate sulla contrapposizione esplicita di candidature e programmi, destarono prima scandalo e diventarono poi, anno dopo anno, abituali.
Appena fu possibile – è evidente – gliela fecero pagare, condannandolo ad una condizione minoritaria. Lo scossone però che aveva dato alle tranquille certezze di troppi imprenditori produsse i suoi effetti, cioè quel passaggio necessario per Confindustria da lobby chiusa e oligarchica a moderna rappresentanza di interessi improntata a trasparenza e democrazia interna, e quindi in grado di inserirsi positivamente nella vita democratica del Paese. Fu un passaggio importante che diede ruolo e prestigio agli imprenditori (e, grazie a ciò, efficace tutela di interessi). Ma, negli anni che seguirono, nessuna Confindustria, tranne qualche voce isolata, fu disposta a rendergliene merito, fintanto che rimase in vita.
Oggi, tutto questo cambiamento, se è privato del suo progetto ideale di riferimento che ne è alla base, quello scritto nel preambolo dello statuto Pirelli e nel rapporto Una politica per l’industria, rischia di trasformarsi nella sua parodia. Nulla più di una pura (e costosa) ritualità, celebrata in qualche convegno-spettacolo.
C’era alla base dello Statuto Pirelli una idea nuova e diversa del capitalismo italiano (Pozzoli parlava di «una nuova imprenditoria innovatrice e liberatrice»), c’era l’idea di un patto fra produttori basato sulla dignità sociale che derivava a ciascuno dei ruoli sociali dal rispetto delle regole del mercato e del lavoro in fabbrica.
C’era l’orgoglio per il profitto come misura dell’efficienza e la lotta alla rendita. C’era l’idea che la società industriale servisse ad avvicinare le distanze fra i ceti sociali e a rendere tutti più liberi.
Oggi dobbiamo rivedere questi convincimenti? Se i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, se interi ceti sociali o strati generazionali non riescono ad avere le certezze necessarie per costruire il loro futuro, se le classi e i ceti sono sempre più chiusi in se stessi e se conta il diritto di nascita invece del merito e dell’impegno dell’individuo non si contribuisce a creare una società liberale e la cultura industriale tradisce se stessa.
Lo Statuto Pirelli dava corpo ad una idea forte del capitalismo imprenditoriale e della democrazia industriale contrapponendola al capitalismo figlio della rendita politica ed economica.
Presupponeva il protagonismo di quei capitalisti, che eppure esistono in aree significative del sistema imprenditoriale italiano, che regolano le loro cose sulla base del principio “azienda ricca, famiglia povera” e fondano le loro fortune sull’inventiva dei prodotti piuttosto che sulle scatole cinesi e sulle stock options.
Tracciava una linea netta di confine tra impresa e politica, rifiutando ogni collateralismo con questa o quella forza partitica e rivendicando la sua autonomia di corpo sociale ma, al tempo stesso, riconoscendo il primato della politica.
Questo patrimonio ideale è ancora attuale? Confindustria ha un’idea salda di che cosa debba essere il capitalismo imprenditoriale in questo paese, di quali siano i suoi punti di forza da valorizzare e le sue debolezze e contraddizioni da correggere, di quale, insomma, possa essere il suo contributo al processo di modernizzazione e di crescita sociale ed economica? Confindustria si propone di guardare non solo alle condizioni di contesto, ai fattori di competitività del sistema, ma anche al suo interno, alla capacità d’innovazione (di prodotti e di rapporti sociali) della nostra impresa? Riuscirà il dibattito sulla successione a Montezemolo (che si aprirà, come d’uso, in autunno) ad orientarsi su questi temi, piuttosto che su contrapposizioni personalistiche?