di Mario Ricciardi – Docente di relazioni industriali all’Università di Bologna
Il dibattito sulla riforma del sistema di relazioni industriali italiano va avanti, ma continua a fare pochi passi avanti. Mentre si moltiplicano gli interventi e le prese di posizione unilaterali, non si vede ancora un “tavolo” al quale si cominci a fare sul serio.
Il dato che sembra emergere, peraltro, è quello di una certa diffusa quanto impotente “nostalgia”, se non della concertazione come si era venuta concretamente definendo sul finire del secolo scorso, almeno dell’aprirsi di un confronto multilaterale che impegni le parti sociali a discutere seriamente del futuro del Paese. Di fronte ad una situazione di crescenti difficoltà economiche risalta il fatto che, di convegno in convegno, di dichiarazione in dichiarazione, parti sociali, Governo, partiti, passino più tempo a rinfacciarsi le rispettive responsabilità e ad enunciare mozziconi di strategie, che ad identificare le condizioni concrete per indicare qualche soluzione efficace. Lo stato di frammentazione conflittuale in cui si trova l’Italia emerge in maniera evidente non meno da queste vicende che dalle convulsioni del sistema politico, nel quale è già cominciata una caotica fase preelettorale.
Anche per quanto riguarda la riforma della contrattazione, che rappresenta, come è noto, un punto assai controverso ma ormai centrale della riforma del sistema, i mesi trascorrono senza che si intravedano soluzioni concrete. Intanto, alcune vertenze contrattuali trovano una qualche soluzione (come nel settore pubblico, dove, peraltro, l’accordo di Palazzo Chigi non ha ancora partorito gli atti d’indirizzo necessari per dare davvero il via alle trattative nei comparti), mentre altre, come quella dei metalmeccanici, appaiono molto ingarbugliate.
Per cercare il “dove siamo” nella mappa di questa situazione ancora confusa occorre dunque ancora rifarsi alle dichiarazioni dei protagonisti. Queste ultime settimane hanno registrato almeno due occasioni importanti da questo punto di vista, l’assemblea di Federmeccanica e il Congresso confederale della Cisl.
Nel primo di questi appuntamenti è stato di rilevante interesse l’intervento del vicepresidente di Confindustria (con delega per le relazioni industriali), Bombassei. E’ da tempo che gli osservatori si chiedono quali siano effettivamente le intenzioni della Confindustria di fronte al futuro negoziato sull’assetto contrattuale. La maggiore organizzazione imprenditoriale non ha dato finora segnali univoci sulla strategia da seguire. Se rappresenta una sorta di “manifesto” delle intenzioni future, l’intervento di Bombassei merita molta attenzione.
L’intervento del vicepresidente rivela, innanzitutto, l’interesse di Confindustria per la ripresa di un confronto globale tra le parti sociali per ridare competitività al sistema economico, confermando così l’attenzione della “nuova” Confindustria per percorsi di tipo concertativo, quei percorsi che la precedente gestione dell’organizzazione imprenditoriale aveva fortemente contribuito ad interrompere. Passando dalle enunciazioni generali e un po’ scontate ai ragionamenti di merito, vi sono diverse considerazioni che colpiscono, in quanto sicuramente destinate a pesare sul futuro del sistema di relazioni sindacali del nostro Paese. Il confronto sulle relazioni sindacali che Confindustria propone è, nelle parole del suo vicepresidente, un confronto nel quale gli imprenditori pretenderanno che le confederazioni sindacali assumano un protagonismo molto forte, e un po’ (come dire?) “normalizzatore” nei confronti delle categorie, soprattutto di quelle più conflittuali e riottose (non a caso l’intervento è stato pronunciato nell’appuntamento degli industriali meccanici). Bombassei sembra inoltre pensare a un confronto “costituzionale” sulle relazioni sindacali, non nel senso, abbastanza comune, di una modifica della costituzione materiale delle relazioni industriali, ma nel senso di modifiche che vanno ad incidere su diritti costituzionalmente garantiti, come lo sciopero e l’autonomia delle organizzazioni sindacali.
Non si saprebbe come interpretare diversamente gli accenni a “rivedere tutti gli aspetti” riguardanti, appunto, lo sciopero, le clausole di tregua sindacale, la capacità dei rappresentanti nazionali di far rispettare nel territorio i contenuti dei contratti collettivi e l’introduzione di procedure di conciliazione ed arbitrato sulle controversie collettive. Anche per quanto riguarda il sistema contrattuale le proposte del vicepresidente di Confindustria sono piuttosto radicali. L’idea che sembra emergere è infatti quella che di un contratto nazionale che, mentre per certi aspetti si alleggerisce, rilasciando competenze al livello aziendale, per altri bypassa addirittura la contrattazione aziendale, affidando direttamente alle imprese ulteriori margini di flessibilità unilaterale in materia di orario, senza ulteriori passaggi dalla contrattazione decentrata. Se a quanto enunciato da Bombassei si aggiungono i propositi sul nuovo equilibrio dei livelli contrattuali che piace a Confindustria secondo le anticipazioni di stampa (si veda il Corriere della Sera del 12 luglio), si può certamente dire che, nell’insieme, si tratta di un progetto che non punta certamente a marginali ritocchi dell’esistente, ma ad un radicale spostamento dell’asse delle relazioni industriali a favore delle imprese e a un complessivo ridisegno di regole e soggetti, tale da far impallidire , potenzialmente, le controversie sull’articolo 18. Lo stesso vicepresidente di Confindustria afferma che si tratta di aprire un negoziato “aspro e nuovo”. Se sia nuovo è difficile dire. Che potrebbe essere molto aspro è invece fin troppo facile prevederlo, se queste saranno le posizioni della maggiore organizzazione imprenditoriale ad un eventuale tavolo di trattative.
L’altro avvenimento importante delle ultime settimane è stato il congresso della Cisl, nel quale il segretario generale, Pezzotta, ha pronunciato una relazione molto importante, vasta e “globale”, soffermandosi peraltro, com’era ovvio, anche sui due punti cruciali della concertazione e della riforma della contrattazione. La concertazione cui sembra pensare la Cisl, nonostante l’intenzione dichiarata di non sovraccaricarla eccessivamente, puntando su poche priorità fondamentali, assomiglia in realtà, se si guarda ai temi proposti nella relazione, ad una idea di concertazione molto vasta, si direbbe a 360 gradi, come è del resto nelle tradizioni sindacali. I temi evocati vanno infatti dalle politiche industriali, al Mezzogiorno, dalla tutela dei redditi alla riforma della p.a., e altro ancora. Quanto alla riforma della contrattazione, la relazione non sembra contenere novità sostanziali rispetto a quanto già si sapeva. Da tempo infatti la Cisl, coerentemente con la sua storia, sostiene la necessità di spostare il baricentro della contrattazione più verso l’azienda e verso un modello di relazioni industriali tipo partecipativo. Al di là delle differenze di metodo e di merito, che pure esistono fra le tre maggiori centrali sindacali e sono in alcuni casi profonde, non sembra tuttavia che l’ipotesi Cisl, almeno così come viene enunciata al congresso, sia davvero inconciliabile, nel merito, con le posizioni degli altri sindacati. L’insistenza di Pezzotta sull’urgenza di un accordo, e, prima ancora, l’enunciazione della posizione Cisl sulle caratteristiche che dovrebbe avere il rapporto Governo-sindacati in epoca di bipolarismo, fanno pensare piuttosto che egli voglia sottrarre il confronto all’influenza della fase (di congressi sindacali e, soprattutto, preelettorale) che si aprirà nel prossimo autunno. E qui potrebbero risiedere, effettivamente, alcuni dei principali ostacoli rispetto al raggiungimento di una posizione comune tra le confederazioni. La distanza tra le posizioni della parti sociali sul merito di molti problemi (almeno per come è possibile leggerla oggi), ma anche il convergere sull’esigenza di un confronto a tutto campo, sembrano rendere inevitabile e per certi aspetti decisivo l’intervento del terzo attore, il Governo. L’esperienza dei precedenti momenti di confronto stringente e “alto” tra Governo e parti sociali non serve a molto, probabilmente, viste le forti differenze di fase. Tuttavia, la storia delle relazioni industriali italiane insegna che perché si realizzino buoni accordi (come fu, pur con molte differenze, nel 1983 e nel 1993) occorre che vi sia un’esigenza forte ed urgente, una comune percezione – almeno di massima – dei problemi e delle soluzioni, e la presenza di un terzo attore che, quale che sia la fonte della sua legittimazione (sia nel 1983 che nel 1993 si trattava di Governi deboli, ma rafforzati dall’emergenza in cui erano costretti ad agire), riscuota la fiducia delle parti coniugando sapienza tecnica e capacità decisionale.
I tempi sono molto cambiati da allora, ma le condizioni di base perché si giunga ad un accordo, e sia solido, non sembrano essere granché diverse.