di Andrea Ciampani – Docente di Storia del movimento sindacale presso l’Università Lumsa di Roma
La sempre più manifesta volontà di alcuni attori politici e sociali a modificare l’attuale quadro della contrattazione e delle relazioni industriali spesso finisce per provocare una rinnovata attenzione alla questione della rappresentanza sindacale.
Avviene, però, che proprio l’accento posto intorno ai suoi profili funzionale e politico, che immediatamente richiamano l’attenzione del dibattito, esiga un necessario approfondimento culturale, cui il movimento sindacale, il mondo imprenditoriale e il sistema dei partiti si rendono infine maggiormente sensibili. Gli attori sociali e politici, infatti, non possono giudicare i vantaggi o le deficienze delle proposte che si stanno elaborando senza valutare la corrispondenza di fondo alle rispettive “missioni”, alla natura e ai fini della propria presenza. Essi sono sospinti, dalle stesse esigenze di realismo e di operatività, a cogliere il cuore di una questione che, è bene averlo sempre presente, investe la sfida comune dello sviluppo civile in un contesto democratico, segnato da una articolazione sociale poliarchica.
Per comprendere il “valore” del confronto storico tra opposti modelli di rappresentanza e la discussione sull’efficacia funzionale di assetti neocorporativi nelle relazioni industriali (temi sui quali il confronto si è aperto), l’attenzione dei sindacati dei lavoratori, del management imprenditoriale e del decisore politico sembra doversi soffermare su alcune questioni che collegano il tema della rappresentanza sindacale alla più radicale responsabilità nei confronti di una società libera e democratica: tra questi, in primo luogo, il rapporto tra il carattere della rappresentanza sindacale e l’intervento legislativo.
Si tratta di questioni delicate e complesse, emerse in un processo storico di lungo periodo e contraddistinto dal simultaneo realizzarsi della rivoluzione industriale e della rivoluzione politica durante gli ultimi due secoli. Esse, peraltro, si sono sviluppate nel divenire storico con tempi e contesti socio-politici differenti, che hanno influito sulle scelte compiute dai diversi attori in esso coinvolti. Tuttavia, alla luce dell’esperienza compiuta, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, anche in Italia, appare opportuno soffermarsi a richiamare alcuni aspetti di fondo di tali problematiche.
La questione della rappresentanza sindacale e di un eventuale intervento legislativo, in particolare, comporta l’assunzione di una visione complessiva della società e della res pubblica.
Un libero movimento sindacale (alla cui struttura organizzativa internazionale aderiscono oggi, dopo molte divisioni, Cgil, Cisl e Uil) implica una concezione della società che ha al centro la persona umana che si sviluppa liberamente nelle formazioni sociali. La volontà dell’individuo rimane integra nell’esercizio della sua rappresentanza dell’interesse alla tutela del lavoro. L’affermarsi, faticoso e per nulla scontato, della moltiplicazione organizzativa della forza dell’uomo che lavora attraverso una libera scelta associativa e la rappresentanza di mandato che ne consegue necessita di tempi lunghi per esprimersi compiutamente. Tuttavia, anche recentemente, l’esperienza associativa della rappresentanza sindacale appare l’unica in grado di costituirsi in forma permanente come credibile interlocutore per l’impresa e per il sistema di governance sociale.
Così, a buon diritto il movimento sindacale libero ha ottenuto dalla Banca Mondiale, nel 1995, un significativo riconoscimento del determinante ruolo svolto in campo economico (bilanciando la necessità delle imprese a restare competitive con le aspirazioni dei lavoratori per maggiori salari e migliori condizioni di vita) e del decisivo contribuito allo sviluppo civile e sociale dei Paesi in cui ha potuto essere presente.
Oggi non è possibile pensare a una “comune scommessa” sullo sviluppo economico, sociale e politico, senza la libertà del lavoratore nell’opzione associativa ai fini della rappresentanza sindacale, che, certo, chiede di esercitarsi nel faticoso percorso di partecipazione democratica all’interno del sindacato ed esige di sviluppare attraverso accordi conseguiti con la libera attività contrattuale. Anche in Italia, ormai, tutti percepiscono la necessità di non soffocare la rappresentanza sindacale, come avverrebbe attraverso un intervento legislativo, in nome di una cultura organicistica o collettivistica che piegherebbe la “insopprimibile radice personalistica degli organismi sindacali”.
Nessun sindacato che sia ancora vivo e radicato tra i lavoratori potrebbe accettare di essere espropriato della legittimazione che gli viene dalla libera adesione dei lavoratori e dall’esercizio della rappresentanza di mandato che da essa deriva: l’accettazione di un tale intervento suonerebbe come condanna di se stesso, l’ammissione che le aspirazioni di tutela del lavoratore non sono più origine e fine della propria esistenza, prima ancora del riconoscimento dell’inefficacia della propria azione collettiva.
Nessun imprenditore nei Paesi avanzati, impegnato a ridurre i rischi della propria intrapresa, avrebbe giovamento a piegarsi a ulteriori vincoli di legge che imponessero relazioni industriali che non corrispondessero al dinamismo economico e alla dialettica della rappresentanza degli interessi, così come realmente e dinamicamente vengono a disegnarsi nell’evoluzione del confronto tra radicate parti sociali, con la prospettiva di aprire ulteriori varchi a radicalismi sociali e conflittualità non mediati.
Nessun partito o governo democratico, tanto più nell’ambito delle attuali trasformazioni del sistema politico, potrebbe coltivare un serio interesse nel mortificare le dinamiche associative di una effettiva rappresentanza sociale, nella quale si riverbera una domanda politica che necessita sempre più ascoltare e raccogliere, pena l’abbandonare in mano a derive populiste la “voce” dei lavoratori che aspirano a una maggiore cittadinanza sociale.
Per tutti quanti il pluralismo frutto della libertà non può essere un ostacolo, ma il tratto più genuino della fatica delle mediazioni e dell’esercizio democratici di un assetto poliarchico. Qualsiasi proposta, dunque, sul piano giuslavoristico possa venire avanzata, essa può essere soltanto “in difesa della rappresentanza sindacale”, così come ha voluto sottolineare Mario Grandi, intitolando un suo recente saggio (in corso di pubblicazione presso il “Giornale del diritto del lavoro e di relazioni industriali”), secondo una compiuta e matura impostazione di cultura giuridica del diritto del lavoro, consapevole che l’ordinamento democratico non può e non vuole controllare la rappresentanza fondata sul mandato associativo dei lavoratori che si organizzano nel sindacato.
La libertà della persona che lavora e l’esercizio della libertà collettiva costituiscono il piano in cui esercita la sua forza il movimento sindacale dei lavoratori, in cui si fondano la sua autonomia sociale e le attività di regolazione sociale prodotte in maniera negoziale. Molte sono le conseguenze dell’accettazione e della valorizzazione di tale dimensione sociale della vita individuale e collettiva: soprattutto, appare evidente che il banco di prova di un sistema democratico sarà proprio quello di riconoscere i differenti piani (economico, sociale e politico) nei quali si articola la capacità di trasformazione della realtà civile e di misurarsi con l’implementazione di forme di governance adeguate alla valenza politica, nel senso più ampio del suo significato, di questo riconoscimento.
Come già ricordava Giovanni Marongiu, accogliere la “funzione regolativa del pluralismo sociale” significa realizzare “un sistema poliarchico generato dall’insieme dei principi costituzionali e dalle forme di organizzazione dei soggetti che non ha bisogno dunque di trovare sfere di svolgimento esterne all’ordinamento economico. […] Occorre mantenere una visione delle forme di regolazione economica, politica e sociale che sia in grado di cogliere il loro reciproco intrecciarsi.”