di Aris Accornero – Professore emerito di Sociologia industriale all’Università di Roma – La Sapienza
Un recente sondaggio fra gli imprenditori sulla cosiddetta “riforma Biagi”, presentato dall’Ulivo nel seminario del 2 marzo “Lavoro-Impresa: quale flessibilità, quali regole?”, aggiunge valutazioni qualitative al bilancio quantitativo già emerso il mese scorso dall’ampia ricerca svolta dall’Isae presso le imprese. Qualche spunto viene anche dalla circostanza che in alcuni contratti di lavoro le parti sociali abbiano interpretato ed emendato qualche aspetto della riforma.
A questo punto è bene chiedersi da quali presupposti muoveva l’iniziativa del centro-destra, che nel 2003 portò alla legge delega n. 30, poi seguita dal decreto legislativo n. 276, e nel 2004 dalla successiva fiumana di regolamenti e circolari, non di rado peggiorativi.
La risposta è semplice. La riforma muoveva da presupposti già presenti nel Libro Bianco del 2001, e cioè che il mercato del lavoro italiano era il peggiore al mondo; che andava bene soltanto per gli “insider”, super protetti e super tutelati; e che era fatto soltanto di rigidità tipo l’art. 18 (ma l’Ocse ha ammesso di avere gonfiato i costi del licenziamento calcolando il fine-rapporto come una buonuscita). Si riteneva pertanto che l’Italia fosse priva di un vero mercato del lavoro, capace di assicurare mobilità, flessibilità, adattabilità e occupabilità, cioè i pilastri dell’Unione Europea, mentre in effetti c’era lavoro per tutti, come mostravano sia l’elevata quota di mano d’opera difficilmente reperibile (dati Excelsior), sia il crescente fabbisogno e impiego di immigrati.
Dati questi presupposti, l’obiettivo diventava obbligato: bisognava fluidificare, liberalizzare, privatizzare, sventagliare, tipizzare fino ad avere la necessaria dotazione di strumenti, cioè i soggetti di intermediazione e le modalità d’impiego: è così che queste hanno superato la quarantina, mentre tutti i Paesi industriali, perfino gli Stati Uniti, se la cavano con 6 o 7. In questa “ansia tipizzatrice” (come la chiama E. Ales) si è andati oltre il mercato del lavoro e l’obiettivo è diventato proprio il nostro diritto del lavoro, giudicato garantista, bizantino e provinciale.
Di fronte ai dispositivi di legge adottati – astrusi, pretenziosi, zeppi di adempimenti e talvolta contraddittori (si veda il lavoro intermittente) – è significativa la reazione degli imprenditori interpellati, che non ripudiano le finalità della riforma ma sono oltremodo critici su come vengono maltrattate dalle norme. Altro che razionalizzazione e semplificazione: spicca semmai l’approccio burocratico e la normazione pletorica. (E sorvoliamo sul provincialismo dei termini “all’inglese”…)
L’assioma della riforma discende dai suoi presupposti mercatisti e ne riflette la fallacia: tanti più soggetti d’intermediazione e modalità d’impiego ci sono, tanti più posti si creeranno. Basta prevederne e offrirne per ogni tipo di domanda e di offerta. Questo assioma esime i sostenitori dall’accompagnare gli interventi sul mercato del lavoro con opportune politiche di sviluppo. Che infatti sono mancate. Mentre il centro-sinistra, nel bene e nel male, aveva affiancato al “pacchetto Treu” alcune misure per lo sviluppo, il centro-destra si è mosso come se per accrescere l’occupazione bastasse rifare il mercato del lavoro dalle fondamenta.
Eppure un avvertimento sulla fallacia di tali presupposti era già venuto dalla liberalizzazione dei contratti a termine, che negli ultimi mesi del centro-sinistra causò una grave frattura sindacale. Il provvedimento poi attuato dal centro-destra, vanificò sia i timori della Cgil, che temeva un “boom” e resisteva quindi sulle quote contrattuali, sia le speranze della Confindustria, che si attendeva una robusta crescita dei contratti a termine: in effetti, questi calarono. (Deludendo anche l’amico Biagi che confidava, ma non fino a questo punto, nel potere deterrente delle motivazioni scritte al posto delle quote fissate.) Quella resta pertanto una lezione per chiunque ritenga che il mercato del lavoro è permeabile e reattivo a qualsivoglia intervento regolativo o de-regolativo…
Com’è noto, il “pacchetto Treu” ha fatto crescere i posti di lavoro con un mix fra flessibilità normata e politiche di sviluppo. A un oculato riconoscimento di modalità universali quali il part-time, il contratto a termine, e soprattutto l’interinale (molto avversato da sinistra), si è associata una promozione diretta di buona occupazione con il credito d’imposta e il prestito d’onore. Toccato il picco nel 2001, la dinamica dei posti comincia a rallentare e dà qualche segno di inversione nel Sud, mentre la produzione di reddito ristagna e poi si ferma. Tuttavia l’occupazione continua a salire anche nel 2003, il che viene apprezzato anche dall’Unione Europea.
Ma come fa l’occupazione a crescere se non c’è sviluppo, anzi se c’è crisi industriale? Le spiegazioni sono fra loro intrecciate, e stanno: nello spostamento dell’occupazione verso settori di servizio caratterizzati da minore produttività, minori salari e minori investimenti; nelle difficoltà della vecchia serie Istat, sostituita nel 2003, a “catturare” l’occupazione temporanea, a tempo parziale e femminile, che spesso si associa a minore produttività, salario e investimento; e nell’emersione di lavoro sommerso di immigrati già occupati dovuta alla loro regolarizzazione. (Fino a prova contraria, quindi, gli unici meriti occupazionali del centro-destra non stanno nella “Biagi” ma nella “Bossi-Fini”, di cui peraltro ci si vanta poco essendo i suoi effetti andati ben oltre le intenzioni…).
Rispetto a chi temeva che la riforma creasse “tanta precarietà”, resto dell’idea che essa dia invece “pochi posti”. Infatti in Italia soffriamo più l’immagine che la realtà della precarizzazione. Se la misuriamo sulla quota di impieghi a tempo determinato, essa è inferiore alla media europea. Superiore alla media europea è invece la sensazione di una precarietà del lavoro più diffusa.
Ciò si deve a due circostanze. La prima è il fenomeno “co.co.co”, i veri atipici – specie rispetto all’Europa -, fra i quali quelli suscettibili di essere dipendenti camuffati sono assai meno d’un quinto dei quasi tre milioni iscritti all’Inps. (Per inciso: furono proprio i co.co.co. a essere esaltati come lavoratori “autonomi di 2a generazione”, mentre gli interinali erano esecrati come lavoratori “dal corpo in affitto”: nei fatti, la flessibilità dei primi viene ceduta a basso prezzo mentre quella dei secondi costa almeno cara…) La seconda circostanza è che la congerie di forme flessibili introdotte dalla “Biagi” è ancora priva di coperture sociali, e lo stesso sistema degli “ammortizzatori” è fermo a com’era prima della riforma. E questo dà una forte sensazione di precarietà, tanto più che nel frattempo si promette uno Statuto “dei lavori”, quasi si trattasse di dare una tutela a ogni tipo d’impiego anziché una rete universalistica di sicurezze. Vedi caso: la possibilità che la stessa persona abbia coperture diverse nei vari passaggi della vita lavorativa è insita nei presupposti della riforma.
E’ significativo che sia le preferenze sia le scelte degli imprenditori confermino la ridondanza di modalità e di soggetti introdotti dalla riforma, proprio mentre la Commissione Europea e l’Ocse segnalano il rischio che essa possa “frammentare” il mercato del lavoro. Questo connotato non è un incidente di percorso bensì il vizio originario della “Biagi”. Staremo a vedere se produrrà “tanto fumo e poco arrosto”, o peggio.