di Mario Vigna, segretario generale Anqui
Secondo autorevoli commentatori delle relazioni sindacali la formulazione unitaria da parte di FIM, FIOM e UILM della piattaforma rivendicativa per la scadenza intermedia del contratto collettivo nazionale di lavoro dell’industria metalmeccanica ha rappresentato il formale superamento del protocollo interconfederale del 23 luglio 1993, che ha dettato, nell’ultimo decennio le regole della contrattazione collettiva nel nostro Paese.
Del resto, una conclusione di questa natura era, se non scontata, ampiamente attesa dopo che negli ultimi anni erano progressivamente venuti meno i presupposti politici e gli obiettivi strategici che erano stati alla base di quegli accordi. La crisi di quegli accordi, che hanno consentito un decennio di relazioni sindacali fruttuose e non eccessivamente conflittuali, pur nel contesto di un imponente percorso di risanamento e di riduzione del bilancio pubblico, è stata causata, sostanzialmente, da due eventi: la fine della pratica della concertazione tra Governo e parti sociali e il nuovo scenario economico che si è presentato in Italia e nel mondo con il nuovo secolo.
La fine della concertazione, di per sé, ha innescato nelle relazioni sindacali un cortocircuito politico ed ha prodotto anche alcune conseguenze pratiche. Non si può, infatti, non ricordare che la pratica della concertazione e le regole della contrattazione sindacale definite nel ’93 erano state concordate con l’esplicito obiettivo di attivare e di gestire, per la prima volta nel nostro Paese, una vera e propria politica dei redditi, all’interno della quale anche le dinamiche retributive dovevano essere coerenti alla costruzione delle condizioni necessarie affinché l’Italia potesse rientrare nei parametri che le avrebbero permesso di adottare la moneta unica europea.
Centrato l’obiettivo dell’adozione dell’euro, la pratica della concertazione si è ritrovata senza “anima”ed ha cominciato a trasformarsi in un adempimento poco più che burocratico. Questa incapacità di fornire un orizzonte strategico di obiettivi condivisi, che pure potevano utilmente essere individuati all’interno dei grandi temi della competitività e della occupazione, ha messo in crisi questo strumento di governo delle dinamiche economiche e sociali, prima e più ancora della decisione del nuovo Governo, insediatosi nel 2001, di sostituire la concertazione con la pratica del dialogo sociale.
Ma è ben difficile tenere a lungo in vita una politica dei redditi senza che essa sia finalizzata ad obiettivi condivisi, soprattutto quando questa politica è servita a contenere strettamente le dinamiche retributive all’interno dell’inflazione reale ed ha beneficiato solo in piccola parte degli incrementi di produttività realizzati. E’ ancora più difficile sviluppare politiche contrattuali compatibili con i vincoli dell’economia e della situazione delle imprese in un contesto di crescenti tensioni sociali a cui non fanno riscontro concrete iniziative di Governo.
Inoltre, negli ultimi due anni la mancata concertazione tra Governo e parti sociali non ha provveduto alla determinazione condivisa dei tassi di inflazione programmata per il triennio successivo, che rappresenta un elemento importantissimo all’interno delle regole stabilite e delle procedure stabilite dall’accordo del 1993 per i rinnovi dei contratti nazionali di categoria. Questa situazione ha fatto sì che alla crisi politica degli accordi del 1993 si aggiungesse un ulteriore elemento di difficoltà, che ha rimesso in discussione gli equilibri e le regole che hanno reso possibile l’esplicarsi di una normale e corretta attività di contrattazione prima ancora che si fosse provveduto a riscriverne di nuove. Proprio nel momento in cui il sistema produttivo e, più in generale, l’intero Paese ha estrema necessità di massima coesione, si concretizza con molta evidenza il rischio di un ritorno ad un modello di contrattazione senza regole condivise ed esclusivamente conflittuale.
E’ soprattutto questo il motivo che suggerisce di non rinviare ulteriormente la formale verifica degli accordi del 23 luglio 1993. Ad avviso dell’ANQUI sarebbe preferibile affrontare la necessaria riforma della contrattazione collettiva all’interno di un rilancio dello strumento della concertazione sociale come, peraltro, autorevolmente auspicato dallo stesso Presidente della Repubblica. Come abbiamo già accennato, le necessità che urgono al nostro Paese, l’emergenza competitività e i gravi rischi occupazionali che esso deve affrontare, non sono certamente meno gravi di quelle che convinsero nel 1993 i protagonisti politici e sociali ad individuare una strategia comune per affrontarle e a dotarsi di strumenti coerenti per risolverle.
Sarebbe però abbandonarsi ad un esercizio di eccessivo ottimismo non prendere atto che il quadro di riferimento politico generale non offre una credibile piattaforma di prospettiva a cui ancorare un accordo di concertazione dello stesso valore politico di quello precedente. Prendere atto di questo dato di fatto, tuttavia, non può avere l’automatica conseguenza di annullare tutte le regole sulla contrattazione collettiva, quasi che esse avessero valore solo in rapporto al contesto politico in cui erano state definite. L’Italia ha già sperimentato una lunga stagione di contrattazione svolta senza regole, ed il bilancio che, storicamente, ne è stato tracciato è caratterizzato più da ombre che da luci, non solo per le imprese ma anche per i lavoratori. Il ritorno ad un modello contrattuale di questo tipo sarebbe, oltre che anacronistico, anche dannoso.
Infatti, i nostri settori produttivi hanno bisogno di risposte tempestive e condivise alla sfida della globalizzazione che ne condiziona lo sviluppo, alla competizione sui mercati che diventa ogni giorno più aggressiva, agli interventi ed agli investimenti in ricerca, innovazione, tecnologia, qualità e professionalità, oltre che, naturalmente sul piano dei costi. E’ stata manifestata, a più riprese, da parte delle organizzazioni sindacali e dagli imprenditori, l’opinione che le regole stabilite nel 1993 per la contrattazione collettiva non sarebbero più idonee ad affrontare i problemi che le aziende si trovano ad affrontare e a soddisfare i bisogni che i lavoratori esprimono. Ad un giudizio superficiale apparirebbe, pertanto, abbastanza scontato prevedere l’apertura di un confronto serrato sulla materia e la rapida individuazione di nuove regole e procedure.
Ma la realtà che abbiamo di fronte non è questa. Infatti, Confindustria ed organizzazioni sindacali confederali partono da valutazioni di merito diverse e, in alcuni casi contrapposte, per arrivare al comune intendimento di cambiare le regole e la struttura della contrattazione utilizzate nell’ultimo decennio. Non solo. Anche tra le stesse organizzazioni sindacali sono presenti impostazioni ed aspirazioni diverse che, molto difficilmente, anche a dispetto dello sforzo unitario fatto dalle organizzazioni di categoria dei metalmeccanici, potranno essere ricondotte ad una sintesi unitaria che non sia una confusa sommatoria delle singole posizioni.
Se, dunque, la partita della riforma della contrattazione si giocherà solo tra i soggetti che fino ad ora ne hanno avuta l’esclusiva, quello che ci si può aspettare è, nel migliore dei casi, un restyling tecnico della attuale normativa senza nessun intervento sui veri motivi che ne hanno determinato la crisi che è scaturita, soprattutto, da un sopraggiunto deficit di rappresentatività dei titolari della contrattazione e dalla inadeguatezza a fornire, qualitativamente e quantitativamente, riposte adeguate ai reali bisogni ed alle nuove aspettative dell’insieme dei lavoratori. Una vera riforma della contrattazione collettiva, che abbia l’ambizione di costruire una strumento negoziale che possa essere considerato utile ed efficace dalle imprese e dai lavoratori non può limitarsi ad affrontare le questioni dei livelli di contrattazione e della loro tempistica, ma deve,dunque, risolvere i problemi della rappresentatività e dei nuovi contenuti rivendicativi che sono stati scritti nell’agenda sociale del nostro Paese, in qualche caso, anche, in forma clamorosa.
E’ un dato di fatto incontrovertibile che i soggetti a cui è riservata la titolarità della contrattazione collettiva esprimano una rappresentatività associativa, almeno nel settore privato, non superiore ad un terzo del totale degli addetti per i quali stipulano i contratti collettivi nazionali di lavoro e gli accordi integrativi aziendali. Ma c’è di più. La quasi totalità della capacità associativa di queste organizzazioni si esplica tra le categorie operaie di bassa qualifica, mentre le vicende tecnologiche ed organizzative degli ultimi decenni hanno modificato profondamente gli addensamenti professionali, portando l’apporto percentuale delle mansioni impiegatizie e tecniche, anche nelle imprese a maggior contenuto manifatturiero, molto vicino al 50% della forza lavoro complessiva. Nell’impiego privato, dunque, il deficit di rappresentatività si manifesta per la quasi totalità degli impiegati, dei tecnici e degli specializzati, ai quali solo gli anacronistici sistemi di inquadramento ancora in vigore consentono di continuare ad attribuire la qualifica operaia.
Questo deficit di rappresentatività vale, soprattutto, per la categoria dei quadri, la cui specificità, riconosciuta anche da una legge dello Stato, non ha avuto la possibilità, salvo che in qualche limitatissima eccezione, di trovare riscontro in sede di contrattazione collettiva nazionale. E’ stato, probabilmente, anche a causa di questa situazione che la politica rivendicativa degli ultimi anni non si è dimostrata all’altezza delle novità che si manifestavano, soprattutto nei settori produttivi, sulle strategie di impresa, sulle innovazioni tecnologiche ed organizzative, sulle professionalità, ma anche sulle flessibilità e sul mercato del lavoro.
Se l’obbiettivo che si vuole realizzare è quello di un vero rilancio della contrattazione collettiva, anche per dare una risposta a quella corrente di pensiero che ne teorizza il superamento se non l’inutilità, la riforma che ci attende non potrà sfuggire alla necessità imprescindibile di allargare la sua efficacia a tutta l’area dei lavoratori dipendenti che ne sono sostanzialmente esclusi attraverso due innovazioni:
– il riconoscimento della titolarità negoziale alle organizzazioni veramente rappresentative di queste categorie professionali;
– un profondo rinnovamento delle politiche negoziali per affrontare nei contratti nazionali ed aziendali questioni e problemi specifici di queste aree professionali.
Per quanto riguarda più direttamente le questioni che sembrano maggiormente appassionare il dibattito attualmente in corso sulla contrattazione, è indubbio che per evitare di creare le condizioni di un ritorno alla giungla contrattuale è indispensabile procedere ad una significativa semplificazione delle categorie e dei settori che hanno prodotto più di 400 contratti nazionali di categoria attualmente in vigore. Questa inevitabile riaggregazione, che può portare, preferibilmente, a contratti collettivi nazionali di lavoro per grandi aggregazioni di settori merceologici e produttivi, presuppone un definitivo chiarimento sul numero dei livelli di contrattazione (nazionale, aziendale, territoriale) e sulle loro specifiche competenze.
A nostro avviso la contrattazione collettiva non può avere la pretesa di normare tutte le modalità con le quali viene prestata l’attività lavorativa nelle diverse condizioni tecnologiche, organizzative e professionali nelle quali si esplica, né, ad essa, si può chiedere di dare, da sola, risposte esaurienti alla complessità dei bisogni, delle necessità e delle aspettative che emergono dall’attuale mondo del lavoro. Il compito che deve essere affidato alla contrattazione, nelle sue diverse articolazioni, dovrà concentrarsi nelle aree dei diritti, delle garanzie, delle regole, delle tutele e delle opportunità.
Una ben definita specializzazione delle competenze dei diversi livelli di contrattazione per ciascuna di queste aree può contribuire a sdrammatizzare il confronto anche perché la eventuale riaggregazione dei contratti nazionali per grandi aree renderebbe non contraddittoria l’istituzione di un livello di contrattazione territoriale alternativo a quello aziendale. Non è questa, evidentemente, la sede per procedere ad una dettagliata elencazione di quelle che, a nostro parere, dovrebbero essere le competenze da affidare in via esclusiva, o in concorso tra di essi, ai diversi livelli negoziali. Quello che, in questa fase della discussione, ci preme sottolineare è la forte necessità di riconquistare credibilità ed efficacia alla contrattazione collettiva.
Per realizzare questo difficile progetto è necessario innovare profondamente i contenuti della contrattazione per dare risposte, adeguatamente articolate, ai reali bisogni dei lavoratori, anche in rapporto ai nuovi problemi che emergono dalla più recente legislazione sul lavoro e dalla riforma degli interventi dello stato sociale. Non intendiamo accollare sul costo del lavoro ulteriori oneri, anche perché siamo fautori della richiesta di una sua riduzione,in vista di un recupero di competitività, attraverso la eliminazione di tutti gli oneri impropri che ancora vi gravano.
La nostra idea è che la soddisfazione di queste nuove esigenze potrà essere affidata ad innovative normative contrattuali, che prevedano anche forme assicurative, e che richiedano anche la partecipazione ed il contributo dei lavoratori interessati. Sul piano del merito, per quanto riguarda i Quadri, per i quali la contrattazione collettiva non potrà che avere il ruolo di piattaforma minima di garanzie e di opportunità su cui sviluppare ulteriori percorsi individuali sia professionali che retributivi, i temi centrali di una rinnovata contrattazione dovranno sicuramente essere quelli della formazione e quelli della tutela del reddito nei casi, sempre più numerosi, di un loro coinvolgimento nei processi di ristrutturazione aziendale.