Prof. Marco Marazza – Ordinario di Diritto del Lavoro, all’Università di Teramo
Il passaggio più delicato della recente riforma del mercato del lavoro è la sostituzione delle co.co.co con il contratto di lavoro a progetto. Anzi, direi che nella definizione dell’esatta portata di questo passaggio si gioca gran parte del senso dell’intera riforma e del suo contributo alla sfida di oggi: la competitività del sistema. Vediamo perché.
Lo scopo perseguito dal legislatore è da tempo chiaro. Nuove e più flessibili tipologie di lavoro subordinato (somministrazione, lavoro a termine, lavoro a tempo parziale, lavoro a chiamata, ecc..) devono assorbire le vecchie co.co.co non riconducibili ad un progetto. L’obiettivo sarebbe certamente meritevole ed indolore se le co.co.co non riconducibili al progetto fossero effettivamente solo quelle che simulano un rapporto di lavoro subordinato. La co.co.co della segreteria, per intenderci. Ma non è così. Un dubbio assale gli interpreti e per molto tempo affollerà le aule giudiziarie. Le vecchie co.co.co potevano essere utilizzate anche per lo svolgimento di prestazioni di lavoro autonome continuative. Prestazioni non subordinate ma comunque destinate a soddisfare un interesse durevole del committente. Pensiamo al tecnico manutentore della rete informatica che tutti i giorni si reca presso il committente per eseguire gli interventi concordati. Ed il lavoro a progetto? Oggi si discute se questo contratto possa essere utilizzato per soddisfare esigenze stabili e continuative del committente. Per chi ritiene che sia possibile, nulla è cambiato rispetto al passato. Per chi invece afferma il contrario l’area del lavoro autonomo risulta assai ristretta. Il lavoro a progetto, ad esempio, potrebbe essere utilizzato per l’aggiornamento una tantum della rete informatica o per la realizzazione di interventi straordinari sul software ma non anche per scopi di ordinaria manutenzione. Il co.co.co manutentore della rete informativa dovrebbe essere assunto con contratto di lavoro subordinato.
L’una e l’altra opzione interpretativa sono ben argomentate. Io ritengo più solida la prima. La verità è che solo negli anni, molti anni, la giurisprudenza saprà fornire un indirizzo consolidato. Nel frattempo è bene ragionare sulle possibili conseguenze della prevalenza dell’interpretazione più rigida e restrittiva. Secondo l’ultimo rapporto Cnel, nel 2003 il nostro mercato del lavoro occupava 700.000 co.co.co. Un fenomeno apparentemente contenuto ma che invece assume tutt’altra dimensione ove si consideri che nel 2002 e nel 2003 questa forma contrattuale ha registrato il maggiore trend di crescita nell’intero panorama del mercato del lavoro. Sull’incremento generale di occupazione l’incremento di co.co.co ha pesato il 15% nel 2002 ed il 30% nel 2003. Non è un caso, del resto, che il settore che ha registrato il maggiore sviluppo è quello dei servizi e, cioè, quello che probabilmente concentra il maggior numero di co.co.co.
Ove si affermasse l’interpretazione restrittiva del lavoro a progetto, non solo questo trend si arresterebbe ma, probabilmente, assisteremmo ad una contrazione – dolorosa per chi ha già fatto uso di questa tipologia contrattuale – del numero dei lavoratori iscritti alla gestione separata Inps. Potrà, questa, contrazione, essere bilanciata dalle nuove tipologie di contratto di lavoro subordinato? Somministrazione, lavoro a chiamata, part time, inserimento assorbiranno ciò che non può essere riconducibile al progetto? Penso sia legittimo avere dei dubbi. I dati del 2002 e 2003 dimostrano, anzitutto, un numero pressoché costante di lavoro a tempo parziale e, soprattutto, di lavoro a termine (anche dopo la riforma del 2001). I lavoratori part time sono passati nel 2003 da 1.870.000 a 1.881.000. I lavoratori temporanei, nei quali possiamo inserire anche coloro che sono assunti dalle società di fornitura o somministrazione, sono passati nel 2003 da 1.563.000 a 1.583.000.
Ma il punto è un altro. Queste tipologie di lavoro subordinato non sono sostitutive del lavoro autonomo perché impossibilitate a competere. E non si tratta, come sbrigativamente si afferma, di un problema di inapplicabilità della disciplina protezionistica contro i licenziamenti o dei minori costi previdenziali del lavoro autonomo.
Qualche dato estrapolato da un’importante realtà produttiva del settore delle telecomunicazioni può aiutare a comprendere meglio il fenomeno. Il costo di un dipendente è considerevolmente diverso dal costo di un lap. Il costo orario del primo è infatti 14.48 euro mentre quello del lap arriva a 8,68. Ora, se parifichiamo verso l’alto i costi per Tfr, Inps ed Inail, la differenza rimane sempre notevole. Il costo orario del dipendente è sempre di 14,48 euro mentre quello del lap sale ad euro 10,78. Questo delta di costo orario di euro 3,80 è per un terzo alimentato dal valore delle ferie e per un altro terzo da altre voci di diverso genere (ex festività, festività infrasettimanali lavorate, buoni pasto). L’ulteriore terzo, precisamente 1,02 euro, è il valore medio dell’assenteismo.
Ma vi è di più. Se consideriamo l’ora di lavoro in funzione della produzione il costo aziendale del dipendente passa da 14,48 a 18,10 euro a causa del suo minore rendimento. In altri termini, se per produrre 100 il lap impiega un’ora di lavoro, il dipendente ha bisogno di più tempo e, quindi, costa di più. Ne deriva che il costo orario del lap è di euro 10,78 mentre quello del dipendente è di euro 18,10. Circa il 50% di questa differenza (precisamente euro 3,62) è imputabile al minore rendimento medio del dipendente. Un ulteriore 15% circa (precisamente euro 1,02) è invece imputabile al valore dell’assentesimo.
Ma come si giustifica questo minore rendimento del dipendente? Non è un problema di stabilità del posto di lavoro. Lo stesso scarto di rendimento si registra confrontando la prestazione del lap con quella dei lavoratori assunti a termine o somministrati. Queste tipologie contrattuali flessibili presentano un rilevante dimezzamento dei tassi di assenteismo, ma non un incremento di produttività. La differenza di rendimento deriva dal diverso sistema retributivo. Il lap ha un compenso interamente variabile parametrato ai risultati che raggiunge. Il lavoratore subordinato, con qualsiasi contratto sia assunto, è destinatario di una disciplina monolitica. Sempre uguale a se stessa.
Questi dati ci forniscono un’indicazione di sistema fondamentale. Il mercato richiede lavoro autonomo per la sua maggiore produttività e rimarrebbe indifferente anche ad un’equiparazione dei costi previdenziali La restrizione dell’area del lavoro autonomo non può essere compensata con la moltiplicazione dei modelli contrattuali di lavoro subordinato. Quella restrizione richiede, piuttosto, l’innovazione della disciplina del rapporto di lavoro (malattia, dinamiche retributive, rendimento, ecc….), finalizzata ad un recupero di produttività. In questo la riforma manca. Non è un caso, del resto, che il ministro Maroni abbia di recente puntualizzato che la riforma degli ammortizzatori passa solo insieme a quella dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Una piccola modifica (l’ipotesi è quella di escludere l’applicabilità della tutela reale del posto di lavoro solo per i nuovi assunti nelle imprese di piccole dimensioni) che sembra già difficile e che, da sola, neanche pare determinante.
Fermarsi a questa innovazione non è infatti sufficiente. Lo dimostrano i fatti. In Germania (dove non esiste l’art. 18) la delocalizzazione della produzione di un primario costruttore di automobili verso i Paesi dell’Est è stata evitata anche con il sistema dell’orario generazionale. Chi ha meno di trentotto anni lavora fino a 42 ore settimanali. Chi ha più di trentotto anni rimane a 40 ore settimanali. Il 16% dei lavoratori inglesi (ai quali non si applica nessun articolo 18) lavora più di 48 ore settimanali in quanto sono ammesse deroghe individuali alla disciplina dell’orario di lavoro.
Cosa fare? Anzitutto orientare il mercato. Scegliere una strada, qualunque essa sia, e formalizzarla con la forza della legge. Il d.lgs. n. 276 del 2003 è ancora aperto e disponibile ad aggiornamenti che meglio chiariscano, anzitutto, il passaggio dalle co.co.co al lavoro a progetto. Una prima ipotesi potrebbe essere quella di chiarire che il contratto di lavoro a progetto può soddisfare interessi continuativi del committente. Non sarebbe difficile. Salvaguardando la natura del contratto a progetto come contratto a termine, sarebbe forse sufficiente sostituire al concetto di programma di lavoro quello di servizio o, per altro verso, specificare che il programma di lavoro, proprio per differenziarlo dal progetto, è continuativo. La riforma avrebbe comunque raggiunto il suo fine. L’obbligo di specificare in forma scritta il progetto o servizio consentirebbe al giudice di intervenire nei veri casi di elusione e, cioè, in tutti quei casi in cui, a fronte di un determinato risultato pattuito nel contratto, al lavoratore è chiesto, con esercizio di potere direttivo, di adeguare il contenuto della prestazione, e non solo le modalità, alle esigenze del datore di lavoro.
Allora avrebbe anche senso implementare le tutele in considerazione della effettiva debolezza economico-sociale del collaboratore. Aumentare, se non parificare, la contribuzione previdenziale. Prevedere, del tutto in linea con i principi di diritto comune, che in caso di recesso ante tempus privo di adeguata motivazione al collaboratore spettino comunque i compensi dovuti sino alla scadenza del termine contrattuale.
Non sarebbe difficile – ed è questa una seconda e suggestiva ipotesi – anche chiarire il contrario e, cioè, che il lavoro a progetto non è utilizzabile per soddisfare esigenze continuative del datore di lavoro. Ma se questa è la strada che si vuole seguire, allora pensiamo anche alle conseguenze. Anzi, prendiamo spunto da questa tendenza evolutiva per affrontare i veri nodi del lavoro subordinato.
Esercitiamoci nel difficile compito di coniugare il sistema delle tutele con l’obiettivo di recuperare l’efficienza, il rendimento, la produttività. Ed in questa prospettiva la strada non è necessariamente quella di mettere mano alla disciplina della tutela contro i licenziamenti. Più importante è la rivisitazione delle dinamiche retributive. La modifica della disciplina della malattia. Attribuire al rendimento del lavoratore una rilevanza giuridica con una seria politica delle dinamiche retributive variabili. Considerare il rendimento un parametro di valutazione dell’esatto adempimento. Se le parti sociali sono veramente pronte a ragionare in termini innovativi può assumere una diversa e più ridotta dimensione anche il dibattito sulle forme flessibili di lavoro. Aprire un vero confronto sui temi del rapporto di lavoro consentirebbe più serenamente di affermare la centralità del lavoro a tempo pieno ed indeterminato. Di affermare che non è necessario creare una molteplicità di modelli contrattuali e che quelli attuali possono anche essere disciplinati con maggiore equilibrio.
In conclusione, sono convinto che il mercato del lavoro, inteso nella sua accezione più ampia – nel senso di non limitata all’incontro tra domanda e offerta di lavoro -, è certamente una voce del bilancio di competitività del sistema produttivo ma non la principale. L’assunto non deriva necessariamente da una rigorosa analisi economica ma è deducibile da una semplice realtà di fatto. Occorre solo prendere atto, da un lato, che la competizione con i nuovi mercati è, allo stato, competizione con operatori privi di un mercato del lavoro regolamentato. E, dall’altro, che il nostro mercato del lavoro non può regredire al livello dei mercati dei Paesi emergenti e, quindi, autodissolversi.
La sfida della competitività è, dunque, la sfida dell’innovazione di prodotti e di tecniche di produzione. Il diritto del lavoro deve concorrere a questa sfida pur non essendo il suo principale propulsore. Ma il suo contributo alla svolta della competitività del sistema passa attraverso un serio ed equilibrato contemperamento di interessi, riassumibile nello scambio tra aumento della produttività e tutela della libertà e dignità del lavoratore.