di Anna Rea – Segretario Uil di Napoli e Campania
E’ indubbio che il dibattito sulla necessità di riformare l’attuale sistema contrattuale ha avuto nel nostro Paese il suo apice l’altr’anno, in occasione degli scioperi del trasporto locale fuori da qualsiasi controllo e che ebbero l’epicentro a Milano. Altre sono state le occasioni, anche in altri settori, che consegnavano al sindacato confederale e agli imprenditori la responsabilità di individuare nuove forme contrattuali capaci di dare risposte ad un mondo e a modalità del lavoro cambiate.
In altre parole, la discussione che si sta avviando in questi giorni tra le organizzazioni confederali e poi con Confindustria, sia pure tardiva, è più che utile e deve necessariamente, a mio avviso, recuperare il tempo andato. In caso contrario si indebolirebbe ancora, per noi, la capacità di rappresentare i reali bisogni dei lavoratori, a partire dal potere d’acquisto, e per Confindustria la possibilità di avere una forza lavoro che sia soggetto attivo dei cambiamenti e della maggiore efficienza e competitività del sistema produttivo.
Molti sono stati i cambiamenti che hanno sconvolto i vecchi assetti organizzativi. Il sistema produttivo nel corso di questi anni è andato frantumandosi in tante piccole aziende, attività delocalizzate all’estero, un processo di privatizzazione che ha significato la riorganizzazione delle vecchie aziende in processi produttivi di multinazionali con le teste pensanti all’estero. Una forza lavoro sempre più precaria, impiegata per rispondere alla esigenza di flessibilità che il mercato globale richiede con sempre maggiore forza. Un’impennata dei prezzi e tariffe tale per cui, nonostante un tasso di inflazione non più alto come quello che impose l’accordo del 1993, il potere d’acquisto dei salari e stipendi è divenuto tra i più bassi dell’ultimo decennio. Lo scarto tra inflazione programmata, reale e percepita è talmente evidente da rendere inefficaci le modalità di recupero del potere d’acquisto dell’accordo del ‘93. Di fronte a questa semplificata fotografia dell’esistente, e alla necessità sottolineata da più parti, in primis con le dichiarazioni apprezzabili del presidente Montezemolo, di investire in ricerca, innovazione ed infrastrutture, ci possiamo rendere conto come anche i contenuti e la struttura della contrattazione devono fare un salto di qualità.
Pensando all’attuale struttura contrattuale, che discende dagli ultimi accordi interconfederali, e cioè un livello nazionale e uno aziendale, credo che, sia pure nella continuità di garantire i diritti e i minimi salariali a livello nazionale, si debba sperimentare una netta discontinuità, avviando una reale contrattazione territoriale. Parlo non a caso di territorio e non di azienda, nella misura in cui quest’ultima è garantita soltanto per alcune, in genere grandi, aziende, o dove i rapporti di forza sono più favorevoli. Risultato: l’attuale contrattazione di secondo livello è per pochi, e nei fatti comporta un reddito differenziato nella stessa categoria e tra le diverse aree geografiche.
In questi anni, tra l’altro, la possibilità di contrattazione è data anche dalla capacità di avere quote di produttività significative da redistribuire per i redditi da lavoro, e di conseguenza per i consumi, e quindi per la produzione dei beni e dei servizi. E’ indubbio che la produttività è il risultato della capacità di fare sistema, in un rapporto simbiotico con il territorio. Specialmente in aree regionali che, a mio avviso, ne avrebbero più bisogno. E qui, chiaramente, indico il Mezzogiorno, che ha bisogno di un nuovo rilancio produttivo. Il ruolo propositivo e decisionale delle stesse istituzioni locali è cambiato per effetto del federalismo e delle politiche della Comunità europea.
Quindi, per concludere ed esprimere il mio pensiero di dirigente sindacale di una regione meridionale, la necessaria riforma contrattuale non può prescindere dalle politiche territoriali di sviluppo e di crescita del potere d’acquisto. La stagione, che si è appena aperta, dei patti ed accordi per lo sviluppo, per la legalità, contro il lavoro nero, a livello regionale e provinciale sono un buon viatico e dovranno trovare il naturale sbocco anche sul terreno contrattuale.