di Renata Polverini, vicesegretario generale Ugl
Negli ultimi anni si sono accesi i riflettori sulla riforma della contrattazione e sulla necessità o meno di riformarla. Tutti hanno espresso le proprie perplessità, tirato fuori i propri dubbi, scandito il proprio tempo, ma, alla fine, sulla sua improrogabilità tutti hanno convenuto.
I punti di vista sono diversi, e non sono solo di natura giuridico-legislativa e negoziale, alcuni sono di natura organizzativa, altri di natura ideologica.
Prima ancora di iniziare un ragionamento viene spontaneo osservare il panorama delle relazioni industriali italiane. Viene naturale chiedersi se con questo modello di relazioni industriali si può affrontare una questione ormai vitale per il sistema produttivo, economico e sociale del nostro Paese e se si può ambire di raggiungere una riforma in grado di trovare un punto di sintesi che dia giusta soddisfazione a tutti i soggetti interessati, primi fra tutti i lavoratori.
Inoltre è necessario domandarsi se le parti sociali tradizionali saranno in grado di dare delle risposte a tutti i nuovi soggetti che da tempo si sono affacciati nel mondo del lavoro o se, invece, sarà opportuno unire al coro anche quelle voci nuove che si sono aggiunte in seguito al mutamento del processo produttivo.
L’evolversi di tale processo e i nuovi strumenti di accesso al lavoro hanno infatti arricchito il panorama delle relazioni industriali di nuove forme di rappresentanza sia dei lavoratori che dei datori di lavoro. Inoltre, organizzazioni datate hanno consolidato ed ampliato le proprie rappresentanze.
Ostinarsi in una discussione tra soggetti che non rispecchiano più l’intero mondo del lavoro non potrà certo produrre risultati apprezzabili. Ma su un principio è necessario trovare una prima, imprescindibile convergenza. La strada comune sulla quale si potrà iniziare una riflessione dovrà mantenere solido il contratto nazionale e dovrà recuperare la via di una nuova politica di redistribuzione dei redditi, che oggi è, nei fatti, venuta meno.
Il periodo trascorso dal protocollo del 1993 è ormai troppo lungo, quel documento, infatti, fu siglato in una ottica concertativa che mirava ad un contenimento dell’inflazione premiando la produttività e la qualità. Da allora, in questi dodici anni, sono intervenuti cambiamenti radicali, sia rispetto alle forme di lavoro, sia nelle modalità di fare impresa, ma soprattutto il tessuto industriale italiano ha visto la decadenza della grande azienda, e con essa le delle sue famiglie, ed è divenuto sempre più composto da piccole e piccolissime imprese.
I processi di globalizzazione, ed ora anche l’allargamento dell’Unione Europea, impongono una accelerazione di tale dibattito, che necessita però di un nuovo clima di fiducia e di impegno costante di tutti i soggetti interessati alla politica economica e sociale del nostro Paese, a cominciare dalle istituzioni. Il rischio che non possiamo assolutamente correre è quello di indebolire i diritti e le tutele dei lavoratori, quindi in via prioritaria occorre stabilire quale sarà la griglia che incardinerà i principi imprescindibili che comporranno il contratto nazionale. Tale contratto dovrà mantenere saldi i minimi contrattuali e delineare in maniera efficace le tutele, le condizioni e i diritti dei lavoratori.
Il contratto territoriale potrebbe essere utile per arrivare a tutti quei lavoratori e quelle imprese che non sarebbero raggiunti da una contrattazione aziendale, in un’ottica economica e sociale più vicina alla produzione territoriale. Questa fase è però molto delicata perché nel tentativo di tener conto delle differenziazioni territoriali rispetto al potere d’acquisto dei salari si potrebbe aprire la porta alle cosìddette gabbie salariali, da sempre avversate dal sindacato.
La contrattazione aziendale, invece, ha già mostrato i suoi frutti, infatti negli ultimi anni ha dimostrato di poter essere strumento utile per instaurare e mantenere un rapporto positivo tra lavoratore ed impresa e per garantire migliori condizioni di lavoro. In questo livello sicuramente possono trovare miglior applicazione i principi della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, anche in seguito ai fondi che saranno messi a disposizione dal ministero dell’Economia e che saranno assegnati dalla Commissione di recente istituita presso il ministero del Welfare, alla quale parteciperanno tutti i soggetti interessati.
Insomma, di carne al fuoco ce n’è tanta, occorre prima fare chiarezza tra i vari soggetti, il sindacato per primo. Infatti, nel cercare necessariamente una convergenza il dibattito non si dovrebbe limitare ai soliti attori, sindacali o datoriali che siano. Per i lavoratori potrebbe essere una buona occasione per lanciare una sfida sempre più forte e rappresentativa con la quale presentarsi al negoziato. Occorre, quindi, passare dalla dialettica ai fatti concreti, intensificare il lavoro e fare uno sforzo anche organizzativo per consegnare ai lavoratori un risultato efficace che ormai da troppo tempo si aspetta.