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Home - Approfondimenti - Analisi - Meno contratti, e più vicini alla realtà del lavoro

Meno contratti, e più vicini alla realtà del lavoro

13 Gennaio 2005
in Analisi

di Pier Paolo Baretta, Segretario confederale Cisl

Le ragioni che inducono a considerare prioritaria una riforma del modello contrattuale derivano da cause profonde e strutturali. Il quesito che assilla il sindacalista che opera oggi, nella società contemporanea, è quello di come superare il duplice rischio che deriva, da un lato, dalla marginalizzazione della azione sindacale e, dall’altro, da una atrofizzazione da successo.

Il primo rischio, quello cioè di vedere ridotta la propria capacità di incidenza e di tutela, deriva dal profondo cambiamento, già avvenuto, nell’organizzazione della produzione e del lavoro. I nuovi processi produttivi globali sono segnati dalla flessibilità dei fenomeni di localizzazione degli impianti e delle condizioni di lavoro. Il ciclo produttivo si frantuma attraverso i fenomeni di outsourcing, esternalizzazione, impresa a rete. Questi sono passati, nel volgere di pochi anni, da fenomeni di studio a processi negoziali, che ormai impegnano il sindacalista di qualsiasi categoria o Paese. Personalmente, penso che sia arrivato il momento di chiudere la discussione sul mercato del lavoro per concentrare la riflessione e l’iniziativa sindacale sulla organizzazione del lavoro, sui suoi fenomeni strutturali che poi danno vita alle flessibilità. Non è il lavoratore a progetto che determina l’outsourcing, ma il contrario; è l’esternalizzazione che dà vita all’interinale.


Dobbiamo superare anche i nostri ritardi. Basti pensare alla discussione sullo Statuto dei lavori, lasciata dormire nei cassetti, o alla aleatorietà, alla rarefazione in atto di concetti tradizionalmente pesanti e strutturalmente ben definiti, quali: core business, filiera produttiva, confini merceologici. Le imprese, nella realtà economica contemporanea, tendono ad aprirsi e chiudersi come fisarmoniche a seconda delle musiche che suonano i mercati. I processi di accumulazione e di sviluppo seguono itinerari competitivi globali e la tecnologia consente di allocare le produzioni dove conviene. Nella tradizionale visione della politica industriale la convenienza era segnata dalla vicinanza alle fonti produzione e/o ai mercati di vendita. Oggi con Internet e con la velocità dei trasporti questi vincoli non sono più prioritari. Il dibattito sulla Cina ne è la prova più lampante.


Il secondo rischio è tipico delle società ricche. Difatti se, come ben sottolinea nei suoi scritti Mario Grandi, il lungo itinerario della emancipazione ha portato i lavoratori, molto per merito delle lotte sindacali, a diventare: “fortunati cittadini di società opulente”, si profila al contempo: “un accumulo di protezionismo, una sorta di ipertrofia delle tutele”. Bisogna interrogarsi, con franchezza: chi sono gli ultimi nel mondo di oggi? Diciamolo, il sindacato, oggi, rappresenta i…penultimi. Non è disdicevole. Vuol dire che negli ultimi venti anni abbiamo lavorato bene, assicurato tutele e condizioni positive ai nostri rappresentati. Negli anni ’70 gli ultimi erano i braccianti, gli operai, gli infermieri. Ma oggi? Sono i giovani che non trovano lavoro o restano per lungo tempo in condizioni di instabilità; coloro che lo perdono in una età troppo avanzata per ricominciare facilmente; ma  non sufficiente per andare in pensione; chi si ammala…


Risulta evidente, da queste osservazioni, che per evitare la crisi di ruolo il sindacato deve porsi il problema che i sistemi di protezione e di tutela costruiti nel ‘900, sia sul versante contrattuale che dello Stato sociale, non sono più adatti al cambiamento.


D’altronde, una domanda di sindacato c’è. Proprio i suddetti rischi propongono al tempo stesso delle opportunità. Innanzitutto, i processi di delocalizzazione accelerano una discussione sul modello di sviluppo, sulle forme della accumulazione e sulla esigenza di nuove tutele globali e di nuova governance. Inoltre, il postfordismo necessita di un inedito coinvolgimento dei lavoratori. Non basta mettere a disposizione la propria forza lavoro, viene anche richiesta collaborazione, coinvolgimento… partecipazione diretta laddove si produce. Viene chiesto ai lavoratori di lavorare come se fossero dei soci, ma si continua a trattarli come dei salariati. Questa contraddizione va superata.


Nella nostra complessa e moderna società industriale e postindustriale la strada per l’emancipazione del lavoro non è fatta, dunque, solo di buoni salari e decenti condizioni di lavoro. Sempre più, infatti, si sente parlare di responsabilità sociale delle imprese e di valorizzazione delle risorse umane. Sempre più le imprese si trovano di fronte alla contraddizione tra sostenibilità finanziaria ed economica del loro business e sostenibilità ambientale e sociale.


Agire su questo insieme di problemi e contraddizioni significa riformare il modo di essere e di operare del sindacato. Strategia e contenuti, modelli di rappresentanza e contrattuali sono i tre terreni sui quali intervenire. Con riferimento al modello contrattuale è necessario guardare in alto e in basso. Da un lato bisogna rafforzare il ruolo contrattuale del sindacato a livello sovranazionale, dall’altro decentrare al massimo, il più vicino possibile al “punto del fare”.


E’ significativo che il primo accordo sindacale europeo sia sul telelavoro, ma non basta. I problemi aperti con la libera circolazione e l’allargamento necessitano di una rete di tutele minime il più omogenee possibili. E’ un processo di lungo periodo, ma non bisogna attendere oltre. L’esperienza dei Cae, la direttiva sulla società europea, il Libro verde sulla responsabilità sociale, la direttiva sull’orario di lavoro, la sicurezza, e altre sono terreni importanti da tradurre in accordi sindacali. Ma ciò vale anche sul versante del welfare: sistemi di formazione e protezione sociale, ammortizzatori.  


Il sindacalismo internazionale non parte da zero. Il modello contrattuale dei marittimi, una categoria globale da sempre, prevede una struttura di tutele valide indipendentemente dai Paesi di origine o di passaggio. Esiste, in quel sindacato, anche un interessante modello di rappresentanza, con ispettori sindacali sovranazionali,


Ma, venendo alla dimensione nazionale, va trovato un nuovo punto di equilibrio tra dimensione nazionale e locale. Il primo terreno su cui agire è la semplificazione contrattuale. Attualmente si contano oltre 450 contratti nazionali di lavoro. Non ha senso. I processi di esternalizzazione e di mobilità di cui abbiamo parlato prima favoriscono un audace shopping contrattuale alla ricerca delle condizioni di costo e normative più favorevoli. Il diffuso concetto del massimo ribasso nei casi di appalto si estende anche alle condizioni di lavoro. Una prima risposta consiste nell’identificare aree contrattuali il più simili possibili e costruire contratti nazionali di lavoro che consentano transizioni “guidate” che tutelino il lavoro e ne favoriscano la mobilità. Facciamo degli esempi. La recente esperienza del contratto nazionale delle telecomunicazioni, che ormai si estende all’insieme delle aziende di telefonia, è un esempio che ci aiuta a capire le strade da percorrere. Si può lavorare per filiere, esiste già la interessante esperienza dell’area agroalimentare, che potrebbe essere riprodotta nell’area dell’energia; o per comparti produttivi: nell’industria si possono individuare le aree del manifatturiero e del civile; nei servizi quella dei trasporti, del settore finanziario e così via.


La seconda risposta consiste nel decentrare il modello contrattuale privilegiando il territorio. E’ ormai chiarito che il decentramento che si propone non significa superamento del contratto nazionale, tanto più se riformato nel modo che abbiamo detto. Per reggere, però, questo riequilibrio a favore del territorio necessita che il contratto nazionale si alleggerisca. Oggi più del 70% del salario deriva da istituti contrattati nei contratti nazionali. Sappiamo che il secondo livello è diffuso per il 30%  dei lavoratori e, quindi, la produttività non viene distribuita. Nonostante tutto questo peso oggettivo il contratto nazionale distribuisce ormai poco, inoltre non è in grado di cogliere le specificità.


Prendiamo l’esperienza, rara, di una categoria con un solo contratto: i metalmeccanici. L’inquadramento professionale degli informatici, dei cantieristi, delle fonderie hanno ormai poco in comune tra loro e gli stessi orari di lavoro hanno bisogno di articolazioni specifiche non generalizzabili. Dunque il contratto nazionale si configura, nella realtà odierna del lavoro, sempre più come il luogo delle regole, più che della distribuzione. Regole “minime” che definiscano gli accessi al lavoro, sia salariali che normativi. E’ evidente la difficoltà, ma va affrontata, a definire il concetto di “minimo”: il minimo o l’essenziale? Il minimo della media?


Negli ultimi dieci anni il peso schiacciante del livello nazionale ha indotto il sindacato a contrattare delle deroghe. Il patto di Milano, i contratti territoriali per lo sviluppo sono tutte deroghe ai contratti nazionali di riferimento. Ebbene, dobbiamo tornare a contrattare le norme, non le deroghe. Affidare questo ruolo al contratto nazionale previene l’obiezione che sostiene che il contratto sia una barriera di protezione che unisce quel determinato spaccato del mondo del lavoro. Appunto: una barriera. Inoltre, si liberano, così, energie per mettere al centro dell’iniziativa contrattuale il luogo di lavoro. Nel caso del salario ciò significa affidare al livello territoriale o aziendale l’intera produttività, ma forse, più audacemente, anche una parte del recupero del potere di acquisto.


Bisogna rispondere, però, all’obiezione che, così facendo, si sovrappongano sedi contrattuali. Anche qui alcune risposte. La prima; si definisca una cadenza degli eventi certa (ad esempio, stabilendo un intervallo di un quadriennio tra un rinnovo contrattuale e l’altro).


La seconda: considerare alternativi tra loro i livelli intermedi. Ad esempio, se si sceglie il livello di gruppo (esperienza diffusa nei bancari e nei grandi gruppi industriali) esso è alternativo o al livello di azienda, stabilimento, filiale, o al livello nazionale, in modo tale che si assicuri, in ogni caso, solo due livelli. La terza: si aggiorni il vecchio concetto, caro al nostro grande interlocutore Felice Mortillaro, del “ne bis in idem”, ovvero si stabilisca quali materie vanno discusse al centro o in periferia.


In definitiva, la necessaria riforma del modello contrattuale può definire un sistema di regole moderno che colga i cambiamenti intervenuti nel mondo dell’impresa e del lavoro e consenta la realizzazione di un sistema di tutele aggiornato ed efficace che non si limiti alle garanzie, ma incrementi le opportunità per i lavoratori e le imprese. Sono, infatti, convinto che questa riforma favorisca la stessa competitività delle nostre imprese nel mercato.


Il nodo di fondo, infatti, irrisolto nell’economia contemporanea, è definire un nuovo rapporto tra accumulazione e redistribuzione. C’è da augurarsi che si superino le resistenze ancora presenti nelle posizioni in campo e che ciò avvenga con un dibattito senza pregiudizi, attento ai nodi strategici che abbiamo di fronte. A tal fine sono fiducioso che il lavoro della commissione unitaria apertosi nei giorni scorsi tra Cisl, Cgil, Uil approdi ad un risultato positivo, che ci consenta di aprire al più presto un negoziato con le controparti imprenditoriali per stipulare una intesa con la quale aggiornare l’accordo del 1993 e che ci permetta di fare impresa e fare sindacato nel prossimo decennio, negli interessi dell’economia e del lavoro.

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