di Marigia Maulucci, segretario confederale Cgil
C’era una volta la politica dei redditi, c’erano una volta le politiche pubbliche che avrebbero dovuto, attraverso un sistema fiscale progressivo e redistributivo, il contenimento dell’inflazione, il controllo di prezzi e tariffe, sostenere il sistema contrattuale articolato su due livelli distinti. Il livello nazionale per il recupero dell’inflazione reale e la contrattazione integrativa per redistribuzione della produttività. Il modello del 23 luglio ‘93 prevede anche la possibilità di erogare quote di produttività a livello nazionale, nelle forme e nei modi decisi dalle parti. Insomma, c’erano una volta le regole, date con certezza, di cui è sempre opportuno e utile monitorare il funzionamento e intervenire con adeguati correttivi. Perché è del tutto evidente che problemi, iniquità e contraddizioni si sono verificati e si possono sempre verificare anche dentro la virtuosità di un circolo.
Comunque sia, quel modello aveva una sua congruità: la politica economica del Governo, garantendo equità fiscale, controllo dell’inflazione, qualità e quantità di servizi socio sanitari e assistenziali erogati, interviene direttamente sul potere d’acquisto di retribuzioni e pensioni, liberando risorse a disposizione della contrattazione.
C’era una volta:vuol dire che tutto questo adesso non c’è più. Quel circolo virtuoso- con tanto bisogno di manutenzione – non c’è più, e di questo non possiamo non tenere conto nel momento in cui parliamo di riforma della contrattazione. Se è vero che c’è un tempo per ogni cosa, questo è il momento più complicato per riformare la contrattazione, e non perché non ce ne sia bisogno ma perché l’assenza del terzo soggetto rischia di far implodere le contraddizioni tra i soggetti in campo.
E’ del tutto naturale che, dentro una crisi economica, produttiva e sociale di questa portata, gli interessi dei singoli soggetti divergano e che occorrano sedi complesse in grado di comporli, individuando con chiarezza i compiti e le responsabilità di ciascuno. Queste sedi, com’è noto, non ci sono. Di più, le politiche pubbliche messe in campo in questi anni hanno aggravato gli elementi del contesto.
La politica fiscale che esce da questa legge finanziaria favorisce i redditi elevati, lascia inalterati i redditi medi e medio-bassi, quelli cioè da lavoro dipendente e pensioni, accentua ulteriormente le diversità tra fasce di popolazione. Divario, peraltro, già notevolmente esteso per via della crescita dell’inflazione: il fatto che da qualche mese essa sia sostanzialmente stabile (con qualche leggera lievitazione) non vuol dire niente. Pesano anni di ritardi nel suo contenimento e soprattutto pesa quel gradone del change-over che ha arricchito tanti e impoverito tantissimi e che non si recupererà mai più. Assistiamo da anni a Dpef impazziti che disegnano un quadro macroeconomico tanto velleitario quanto colpevole. Non si possono indicare obiettivi di crescita e /o di inflazione programmata tanto lontani dalla realtà senza mettere in campo politiche pubbliche di crescita robuste, fondate su corposi investimenti nei settori strategici. Si tratta invece di numeri al lotto, sistematicamente smentiti dall’Europa, dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca d’Italia, dal buon senso.
L’assenza di risorse pubbliche pesa gravemente sul sistema di Welfare, sui trasferimenti agli enti locali, e dunque ancora una volta sul potere d’acquisto di lavoratori e pensionati, producendo peggioramento delle loro condizioni materiali, erosione del risparmio, aumento dell’indebitamento delle famiglie, blocco dei consumi. E su questo si chiude il circolo, questo però vizioso, perché la caduta della domanda interna frena la crescita della produzione industriale, compromettendo competitività e sviluppo dell’intero sistema Paese.
Mentre ci prepariamo ad assistere al fallimento della scommessa taglio delle tasse/ripresa dei consumi, abbiamo sotto gli occhi la sconfitta della scommessa precedente, quella fondata sulla precarizzazione del lavoro per vincere le sfide competitive. La legge 30 è operante, continuiamo a perdere quote di mercato a favore dei nostri più diretti competitori europei e l’unico risultato certo è l’annullamento di diritti fondamentali e una diffusissima percezione di incertezza e sfiducia delle nuove generazioni. Il tasso di fiducia è importantissimo, in economia, sostiene il riscatto e consente investimenti materiali – e non solo – nel futuro.
Stante dunque questo quadro, il sindacato, portatore di interessi di parte, è stretto da esigenze drammatiche che oggi si chiamano soldi, equità, diritti. Richieste salariali che recuperino la caduta del potere d’acquisto ma che consentano anche di far ripartire quella dinamica dei consumi, e dunque incremento delle retribuzioni, attraverso la redistribuzione della produttività che, a questo punto, per essere realmente efficace, dev’essere erogata in maniera importante a livello nazionale. Equità nella distribuzione delle risorse contrattuali per cercare di colmare quel divario creato da una politica fiscale così iniquamente e manifestamente aprogressiva. Diritti perché in una situazione economica, sociale e persino istituzionale così sfasciata, il sindacato deve fare unità nel mondo del lavoro, ricreare le condizioni di universalità dei diritti e questo si può fare solo riconfermando il carattere, il valore, la cogenza del contratto nazionale di lavoro e allargando la platea dei lavoratori per i quali esso possa essere esigibile.
Sic stantibus rebus, al tempo del Governo Berlusconi, se queste sono le priorità del sindacato è persino un dovere che esse vengano agite nelle sedi proprie, quelle concertative e quelle contrattuali. Non è un caso, infatti, che nella piattaforma dell’ultimo sciopero generale le nostre proposte fiscali riguardino il recupero del fiscal drag e la fiscalizzazione delle basse retribuzioni come elementi cardine di politiche pubbliche che possano mediare le esigenze dei lavoratori e quelle delle imprese.
Le sedi concertative non ci sono più. Rimangono quelle contrattuali, nelle quali precipitano contraddizioni vaste perché il mondo imprenditoriale, annichilito da un gravissima recessione, è portatore di interessi altrettanto forti che rischiano di entrare in forte rotta di collisione con i nostri. E’ questa l’insidia vera che pesa sulla cosiddetta riforma della contrattazione: il maggiore responsabile del peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori e della crisi del sistema produttivo non solo si chiama fuori dal sostegno agli uni e all’altro ma scommette sulla rottura del rapporto unitario e delle relazioni sindacali.
La posta in gioco è molto più alta di una semplice architettura contrattuale. E’ questo il tempo di costruire ruolo e possibili sinergie tra quei corpi intermedi così avviliti dal Governo: le confederazioni sindacali e le associazioni datoriali hanno oggi, nella congiuntura, il compito di darsi regole, contenuti, strumenti per rispondere alle esigenze dei lavoratori e dello sviluppo e di contemperare gli interessi. Farsi cioè, come si diceva una volta, parte dirigente.