di Franca Alacevich – associato di Sociologia del Lavoro, e Relazioni Industriali
Nel dibattito che si è acceso da tempo sulla riforma della struttura della contrattazione collettiva in Italia si intrecciano problemi diversi, sottolineati da diverse organizzazioni di rappresentanza degli interessi e dai vari interventi di esperti e studiosi delle relazioni industriali, anche su questo giornale.
Da una parte, secondo una visione più volontaristica delle relazioni industriali, si mette l’accento sui comportamenti dei soggetti collettivi piuttosto che sulle norme e sulle istituzioni. Nessuna norma e nessuna legge sarebbero in grado di influenzare, infatti, i comportamenti effettivi delle parti. Potrebbero, al massimo, spingerle verso un adeguamento formale e rituale, vuoto di contenuti e incapace di risolvere le divergenze tra gli interessi in campo. Dunque, le associazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese restano necessariamente le principali protagoniste del processo negoziale, e quest’ultimo è la sola strada perseguibile per trovare accordi, siglare nuovi “patti” tra capitale e lavoro, al fine di affrontare i nodi dello sviluppo economico, occupazionale e sociale. Si sottolinea come la contrattazione collettiva sia strettamente legata alle caratteristiche della struttura produttiva e del sistema di organizzazione della rappresentanza, due realtà che non si possono certo modificare per via legislativa.
Dall’altro lato, posizioni a favore di una maggiore regolazione delle relazioni industriali sottolineano, invece, la crescente importanza di un sistema normativo che offra un quadro istituzionale più chiaro e definito, che assicuri una maggiore copertura contrattuale, sino alla validità erga omnes dei contratti, che dia più certezza del procedimento e, prima ancora, che identifichi i soggetti abilitati a rappresentare gli interessi, dando attuazione al comma quarto dell’art.39 della Costituzione. Peraltro, le controversie sempre più diffuse, soprattutto in materia salariale, mettono in evidenza la necessità di dar vita ad istituzioni bilaterali, se non trilaterali, che possano produrre analisi e dati certi e condivisi, prerequisito per un esito positivo della negoziazione. In mancanza di regole e di istituzioni partecipate che facilitino il confronto, il sistema federalista in via di definizione rischia di creare nuove e profonde fratture, di minare i diritti sanciti dalla Costituzione e la coesione sociale stessa, e diviene più difficoltoso instaurare relazioni cooperative tra le parti.
L’orientamento delle parti sociali si muove all’interno di queste due diverse prospettive, anche se non lo si può appiattire solo sull’una o sull’altra. Per esempio, Confindustria è contraria a una normativa sulla rappresentanza e a “ingessare” la struttura contrattuale su più livelli (preferendo, dunque, mantenere il volontarismo del sistema), ma vedrebbe con favore l’implementazione normativa sul fronte della previdenza, degli ammortizzatori sociali e della formazione, e la nuova Presidenza ha mostrato interesse per la creazione di istituzioni congiunte per l’elaborazione di analisi e la produzione di dati condivisi (Cordero di Montezemolo, 2004). Anche la Cisl ha un orientamento decisamente più volontarista, e tuttavia preme per regole che rendano “esigibile” la contrattazione. La Cgil, invece, insiste sull’istituzionalizzazione e la formalizzazione del sistema contrattuale, le cui caratteristiche dovrebbero restare sostanzialmente simili a quelle attuali, con la predominanza del contratto nazionale di categoria, e chiede che sia finalmente varata la legge sulla rappresentanza per rendere più ampia la copertura contrattuale.
Volontarismo e istituzionalizzazione costituiscono, così, i due poli estremi delle alternative che animano il dibattito, e che non tengono sufficientemente conto dei mutamenti in corso nel mondo della produzione e del lavoro. Può essere utile, allora, provare a riportare l’attenzione soprattutto su questi ultimi – anche per non ripercorrere gli aspetti che sono stati già ampiamente discussi sul Diario del Lavoro in questi mesi. In questo breve intervento vorrei soffermarmi, in particolare, su tre processi di cambiamento che mi pare stiano assumendo molta importanza nella realtà del mondo del lavoro e ricevono, invece, minore considerazione nel dibattito sulla riforma del sistema contrattuale: 1) la trasformazione nella struttura della produzione di beni e servizi, in relazione ai processi di scomposizione e ricomposizione in atto nelle imprese e ai problemi conseguenti all’esternalizzazione di funzioni; 2) la crescita di importanza delle forme flessibili di lavoro nel sistema delle occupazioni, e nei singoli luoghi di lavoro; 3) le nuove forme che sta assumendo la competitività con l’apertura del mercato a nuovi paesi in via di sviluppo e i vincoli posti dall’integrazione europea alle tradizionali politiche di sostegno alle imprese e all’occupazione, che hanno ripercussioni anche e soprattutto sulle politiche salariali.
1) Da qualche tempo sta avvenendo una trasformazione rilevante nella struttura della produzione, che vede mutare significativamente la natura dell’organizzazione interna alle imprese e le relazioni tra le imprese, nonché la composizione dei lavoratori che in esse operano e le loro condizioni di lavoro. Senza addentrarsi troppo in questa analisi – per la quale non c’è qui spazio, e che altri hanno già affrontato (basti ricordare le brevi ma efficaci pagine dedicate da Gallino ai processi di reingegnerizzazione organizzativa, 1998, spec. cap.13) – se ne può ricordare qualche effetto collegato direttamente alla contrattazione collettiva. Se fino a una ventina di anni fa, o poco più, chi operava in una grande impresa ne era anche dipendente diretto, qualsiasi fosse la sua mansione, oggi vediamo sempre più convivere e cooperare all’interno di un’azienda lavoratori di imprese diverse, appartenenti a settori produttivi diversi. E’ ormai classico il caso di grandi aziende metalmeccaniche (la Fiat, per esempio) in cui prima operavano come lavoratori “metalmeccanici” dall’operaio in produzione al cuoco della mensa, dall’elettricista al magazziniere, dal programmatore di sistemi informativi al pubblicitario, ecc. – tutti, dunque, con un unico contratto collettivo nazionale di categoria, quello dei metalmeccanici. Oggi, sempre più, molte funzioni sono assicurate in outsourcing, la struttura aziendale è frammentata, anche se i lavoratori di diverse imprese spesso convivono all’interno di un’unità produttiva, con la conseguenza che il cuoco dipende da un’azienda di ristorazione e ha un contratto del commercio, generalmente; l’elettricista fa parte di un’azienda di servizi di manutenzione e può avere il contratto dell’elettricità o dei servizi; il magazziniere spesso ha il contratto dei trasporti perché inserito in un’azienda cui sono esternalizzate le funzioni di movimentazione materiali; e così via. Nelle realtà produttive di minori dimensioni il fenomeno è meno visibile, ma è egualmente presente: le imprese si sono scomposte e ricomposte e le funzioni esternalizzabili sono state subappaltate ad altre imprese, allargando e diluendo la filiera, mentre si procede ad un riaccorpamento delle funzioni più strategiche e qualificate. Se passiamo dall’industria in senso stretto al settore terziario, analoghi processi sono presenti sia nel mondo della pubblica amministrazione – che sta riaggiustandosi anche attraverso processi di esternalizzazione di funzioni (dalle pulizie alla gestione dei servizi informativi, ecc.) – sia nel mondo del commercio, della ristorazione e alberghiero, o della sanità privata.
Ciò nonostante, la contrattazione collettiva resta fortemente ancorata alla logica di settore e non sembra che i protagonisti della riforma se ne intendano discostare. Qualche proposta avanzata in anni recenti sembra oggi meno presente nel dibattito. Si è discusso, per esempio, della necessità di ridurre i numerosissimi contratti collettivi esistenti (cfr. Damiano e Giaccone, 2001, che hanno contato ben 370 contratti nazionali di categoria), e una certa semplificazione ha cominciato a verificarsi (è il caso del pubblico impiego e dei trasporti). Tuttavia, la logica seguita è stata soprattutto quella di realizzare “accorpamenti” di categorie, in qualche caso pensando anche a “contratti unici a valere per grandi aggregati produttivi come, ad esempio, l’industria manifatturiera o i servizi” (Cesos, 2000). Andare oltre sembra molto difficile, tenuto conto del fatto che le associazioni di rappresentanza sono generalmente organizzate al loro interno con una notevole rilevanza delle strutture di categoria (per i lavoratori) e merceologiche (per le imprese). Eppure la riorganizzazione in atto da tempo mette in discussione anche la stessa suddivisione tra “industria” e “servizi”.
2) Un secondo aspetto che sta producendo trasformazioni di grande rilievo, questa volta nel sistema delle occupazioni con riflessi anche all’interno dei singoli luoghi di lavoro, è la crescita di importanza delle forme flessibili di lavoro. Da un punto di vista quantitativo, i lavoratori con contratti flessibili sono cresciuti e sono destinati a rimanere una componente consistente della forza lavoro occupata – anche se forse meno rilevante e soprattutto non in così forte accelerazione come molti scenari hanno a volte previsto. In una prospettiva più qualitativa, va poi tenuto conto anche del fatto che i lavoratori con contratti flessibili hanno numerosi e diversi profili, che l’implementazione della Legge n.30 del 2003 tende a moltiplicare: lavoratori a tempo determinato, interinali, part time, con contratti a causa mista (apprendistato, formazione e lavoro, contratti di inserimento), a chiamata, collaboratori a progetto (nel settore pubblico anche i vecchi co.co.co.), ecc.
La questione della regolazione di queste forme di lavoro è sul tavolo da tempo, e ancora in attesa di trovare soluzioni sul piano degli ammortizzatori sociali, delle tutele anche sul mercato del lavoro e non solo sul luogo di lavoro, della formazione e dell’aggiornamento (sia per accrescere le competenze dei singoli lavoratori, e favorirne così la occupabilità, sia per produrre quei beni pubblici di cui le singole aziende che impiegano non stabilmente i lavoratori sono meno inclini a farsi carico, ovvero le competenze complessivamente necessarie al nostro sistema produttivo per mantenere e accrescere competitività). I sindacati hanno faticosamente cercato in questi anni di rappresentare anche questi lavoratori – creando strutture trasversali al loro interno, come Nidil-Cgil, Alai-Cisl, Cpo-Uil – ma è loro ben chiaro quanto la soluzione sia ancora poco efficace e come non siano sempre facili i rapporti tra queste nuove strutture e le articolazioni tradizionali di categoria. La contrattazione di categoria tiene relativamente poco conto, per il momento, di questi lavoratori, se non per “equipararli” laddove possibile ai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Tuttavia – come ha messo in evidenza soprattutto il dibattito attorno al lavoro femminile – una mera equiparazione può essere molto distante dalla realizzazione di condizioni di equità di trattamento, e va anche considerato che questi lavoratori hanno esigenze diverse in termini di formazione e di tutela sul mercato (come si è detto), ma anche di progressione nella professione, e finanche di condizioni generali di vita (basti pensare al noto esempio delle restrizioni del sistema creditizio nella concessione di un mutuo per l’acquisto della casa). E, ancora, fintanto che il lavoro flessibile costituisce una fase di passaggio, relativamente breve e magari di ingresso nel mondo del lavoro, questi problemi possono avere effetti meno gravi sui singoli e sulla società nel suo complesso; ma se diviene una fase più lunga e ricorrente, o addirittura una caratteristica peculiare della vita lavorativa di alcune figure sociali (si pensi, in particolare, alle donne), il vuoto contrattuale rischia di provocare danni pesanti, dalla creazione di un gruppo sociale di working poors all’emarginazione sociale, a un depauperamento delle conoscenze a svantaggio della società nel suo complesso.
3) Infine, la questione della competitività appare sempre più strategica, ma al contempo di difficile gestione nella contrattazione. La concorrenza pesante dei paesi a minor costo del lavoro, la carenza delle tradizionali leve di sostegno all’economia e al lavoro legata alle politiche europee, unite ai processi di delocalizzazione sempre più facili oggi per lo sviluppo delle comunicazioni, fisiche e virtuali, spostano il baricentro delle relazioni industriali verso il livello decentrato, per la necessità di collegare le condizioni di lavoro e retributive alle effettive performance delle imprese e dei territori locali. Come è noto, le proposte di aumentare il peso della contrattazione territoriale – avanzate anche dalla Commissione Giugni per la revisione degli assetti previsti dal Protocollo del 1993 – non hanno avuto un seguito, né paiono particolarmente accettate e condivise anche nel dibattito in corso sulla riforma del sistema contrattuale. In assenza di ciò, decentramento spesso è sinonimo di aziendalizzazione.
Due problemi, però, assumono da questo punto di vista rilevanza. Da un lato, i contratti nazionali – sempre meno in grado di regolare realtà diverse e complesse – tendono ad adottare “clausole di apertura”, che rischiano di rappresentare meccanismi di concession bargaining piuttosto che di flessibilità negoziata. Inoltre, si sta diffondendo in modo preoccupante da qualche anno anche la stipula di cosiddetti “contratti pirata”, al ribasso, specie ad opera di alcune organizzazioni sindacali minori (la mancanza di una legge sulla rappresentanza, in questo caso, manifesta il suo peso). Dall’altro lato, la bassa copertura contrattuale lascia fuori da ogni regolazione congiunta un’ampia schiera di lavoratori delle piccole imprese e dei settori meno forti sindacalmente, come anche, e soprattutto, con contratti di lavoro flessibili. Si determina, così, una situazione di crescente polarizzazione tra lavoratori coperti da contratti nazionali e decentrati in grado di tutelarne le condizioni di lavoro e retributive e lavoratori privi di copertura, lasciati alla contrattazione individuale, che ovviamente crea fratture tra i possessori di competenze elevate, strategiche per le imprese, e/o rari sul mercato (con elevato potere contrattuale individuale), e meno qualificati, più giovani, e/o in condizioni di vita più precarie (che non hanno tale potere).
Che considerazioni trarre da questi scenari, brevemente delineati ma ben noti? Forse – parafrasando Gian Primo Cella (2004) – il dibattito sulla riforma del sistema contrattuale dovrebbe tenere più conto dei cambiamenti nelle “strutture di mercato e della produzione”, anche se agiscono in contrasto con le strutture tradizionali della rappresentanza, anzi sforzandosi di rinnovare queste ultime in rapporto con quelle trasformazioni. Per esempio, bisognerebbe interrogarsi di più sul significato che hanno oggi i tradizionali settori produttivi, che pure continuano a guidare il gioco della contrattazione. In relazione a ciò, andrebbe anche ripensato il rapporto tra contrattazione nazionale e decentrata, in modo da regolare il lavoro in tutte le sue forme (standard e flessibili) e in tutti i luoghi in cui si esplica (anche le piccole e piccolissime realtà aziendali). Non è facile delineare un nuovo scenario, né è compito di chi scrive, che si limita a studiare le relazioni industriali ma non ne è attore direttamente implicato. Tuttavia, si può provare a “volare alto” tenendo conto dei nuovi problemi da affrontare (come suggeriva Mario Ricciardi, su questo giornale, 2004) e immaginare uno scenario estremo, se non altro per rendere più esplicite le conseguenze del ragionamento sin qui condotto – uno scenario che certamente non sarebbe di facile, né immediata, realizzazione, ma che potrebbe costituire una linea di tendenza.
In questo scenario, si potrebbe mantenere un ruolo per la contrattazione nazionale, ma superando la logica di settore a favore di una logica diversa: contratti nazionali valevoli per tutti i settori, eventualmente diversificati in relazione alle tipologie contrattuali; contratti orientati ad assicurare condizioni minime di lavoro, di tutela, di diritti e salariali, per tutti i lavoratori; contratti che definiscono le procedure per una contrattazione di secondo livello, articolata e articolabile sul piano aziendale, di filiera produttiva, o territoriale, secondo il modello del “decentramento organizzato” (come lo ha definito Franz Traxler, 1995). Le diverse posizioni delle organizzazioni sindacali in materia (la Cgil più orientata a mantenere e rafforzare il ruolo della contrattazione nazionale, Cisl e Uil più favorevoli al decentramento) – come ha notato Negrelli (2004), peraltro, meno distanti di quanto sembra – potrebbero ricomporsi in questa riarticolazione dei rapporti tra livello nazionale e decentrato. Tuttavia, esse restano tutte fortemente ancorate sulla struttura contrattuale prevista dal Protocollo del 1993, in cui i contratti nazionali di categoria sono centrali. Si tratterebbe, invece di andare oltre la razionalizzazione dei contratti, cui i sindacati e la stessa Confindustria (Cordero di Montezemolo, 2004) sono disponibili e interessati.
In secondo luogo, si potrebbe prevedere l’istituzione di organismi bilaterali, o trilaterali, per l’analisi congiunta delle principali variabili macroeconomiche e la produzione di dati condivisi su cui basare la contrattazione, sia a livello nazionale che, eventualmente, a livello decentrato (territoriale, regionale). La definizione di tassi realistici di inflazione costituisce, infatti, un prerequisito alla cooperazione fruttuosa tra le parti (come mostrano tutte le più recenti e controverse vicende contrattuali, dal trasporto pubblico locale ai metalmeccanici, al pubblico impiego, e come ha messo bene in evidenza l’intervento di Lorenzo Bordogna su questo giornale, 2004). Ma la questione non si esaurisce qui: la relazione del nuovo presidente, Luca Cordero di Montezemolo, all’assemblea di Confindustria (il 27 maggio scorso) ha manifestato l’intenzione di “avviare analisi congiunte, individuare obiettivi, definire gli strumenti e, soprattutto, curare l’implementazione delle azioni necessarie” per tutelare l’apparato produttivo e creare più occupazione. Su questo aspetto, le posizioni di imprenditori e sindacati sono convergenti, chi manca oggi all’appello è semmai l’interlocutore pubblico.
Infine, per assicurare sia una più elevata copertura contrattuale ai lavoratori sia la certezza delle condizioni di utilizzo della forza lavoro alle imprese, il riconoscimento dei soggetti abilitati a contrattare andrebbe una volta per tutte definitivamente regolato anche nel settore privato (per via legislativa, come è avvenuto per l’impiego pubblico, o anche per via negoziale nell’autonomia delle parti, in un grande sforzo di definizione di un nuovo patto tra capitale e lavoro).
Il punto debole di questo scenario è costituito senz’altro dagli orientamenti degli attori. I sindacati sono profondamente influenzati dalle loro tradizioni organizzative e dal loro funzionamento interno (in cui le “categorie” corrispondono ai settori produttivi e merceologici). Come ha sottolineato Denis Merloni (2004) della Uil, “cedere quote di sovranità [nel nostro caso, da parte delle federazioni di categoria] su competenze molto importanti è difficile… anche per i sindacati”. La posizione dei datori di lavoro è molto divisa, ma resta ancorata al 1993 quando Gino Giugni stigmatizzò la formula “né obblighi né preclusioni” per consentire la firma del Protocollo da parte di tutte le associazioni di rappresentanza. Come ha ben mostrato Accornero, intervenendo su questo giornale (2004), le resistenze degli imprenditori verso livelli decentrati diversi da quello aziendale (per filiera, gruppi di imprese, o territoriali) sono influenzate dal timore che si aggiungano nuovi livelli negoziali, complicando il quadro e sovrapponendosi, e “obbligare al negoziato un gruppo di imprenditori locali (quali?) è ancora più arduo che obbligare qualsiasi imprenditore singolo”. Più in generale, si può convenire con chi ritiene che “ci sarebbe bisogno di una situazione diversa, di un clima di fiducia e, soprattutto, di un quadro politico, economico, sociale che rovesciasse in positivo i profondi elementi negativi di cui tutti siamo testimoni” (Vincenzo Scudiere, della Cgil, 2004).
E, tuttavia, se la riforma del sistema contrattuale è ritenuta necessaria o anche solo meritevole di attenzione in questi frangenti, vale la pena che attorno ad essa si giochi un importante sforzo collettivo di ridefinizione delle regole del gioco, ponendo attenzione alla conciliazione degli interessi delle diverse parti sociali coinvolte, e soprattutto delle imprese interessate (così diverse dal passato) e delle molteplici figure di lavoratori che in esse o per esse operano (dal profilo sociale e contrattuale decisamente più variegato). Limitarsi alla mera riconferma del Protocollo del 1993 – come si fece nel 1998 nel Patto di Natale – equivale a una rinuncia, a una disfatta, che non aiuta di certo il paese e la sua economia e che può avere ripercussioni negative anche sulle stesse parti sociali.
Riferimenti
Accornero A. (2004) Sviluppo locale e sistema contrattuale, Opinione su “Il Diario del Lavoro”, 24 Settembre.
Bordogna L. (2004) Problemi in cerca di soluzione, Opinione su “Il Diario del Lavoro”, 7 Dicembre.
Cella G.P. (2004) Tre (o quattro) condizioni per la riforma, Opinione su “Il Diario del Lavoro”, 25 Novembre.
CESOS (2000) La riforma degli assetti contrattuali, Roma, 12 luglio.
Cordero di Montezemolo L. (2004) Relazione del Presidente, Assemblea di CONFINDUSTRIA, 27 Maggio.
Damiano C., M. Giaccone (2001) Le prospettive del modello contrattuale italiano, in “Economia e società regionale”, IRES Veneto, Fascisolo n. 3.
Gallino L. (1998) Se tre milioni vi sembran pochi, Torino, Einaudi.
Merloni D. (2004) Cambiare il modello per non snaturare il contratto, Opinione su “Il Diario del Lavoro”, 29 Novembre.
Negrelli S. (2004) Quasi una storia senza fine, Opinione su “Il Diario del Lavoro”, 20 Settembre.
Ricciardi M. (2004) Questione salariale e protocollo del ‘93, Opinione su “Il Diario del Lavoro”, 30 Gennaio.
Scudiere V. (2004) Il ruolo unificante del contratto nazionale, Opinione su “Il Diario del Lavoro”, 7 Dicembre.
Traxler F. (1995) Farewell to Labour Market Associations? Organized versus Disorganized Decentralization as a Map for Industrial Relations, in C. Crouch, F. Traxler (eds.), Organized Industrial Relations in Europe: What Future?, Aldershot, Avebury, pp.23-44.