di Mario Giaccone – ricercatore Ires Cgil Veneto
La clamorosa vertenza degli autoferrotranvieri ha catalizzato l’attenzione sul problema dei servizi pubblici essenziali e sull’adeguatezza della legge 146/90. Non si è discusso di un risvolto non meno strutturale, e cioè sui problemi intrinseci del biennio negoziale, sempre più spesso fonte di tensioni e conflitti che rischiano di mettere a repentaglio il modello contrattuale definito nel protocollo del 23 luglio 1993.
1. È utile ricapitolare le clausole in materia del protocollo del 1993. La durata contrattuale venne portata da tre a quattro anni per la parte normativa, con rinnovo biennale per la sola parte economica: al punto 2. del capitolo sugli assetti contrattuali, si concorda che “La dinamica degli effetti economici del contratto sarà coerente con i tassi di inflazione programmata assunti come obiettivo comune (……) tenuto conto delle politiche concordate nelle sessioni di politica dei redditi e dell’occupazione, dell’obiettivo mirato alla salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni, delle tendenze generali dell’economia e del mercato del lavoro, del raffronto competitivo e degli andamenti specifici del settore.” Per il rinnovo biennale dei minimi contrattuali, “ulteriori punti di riferimento del negoziato saranno costituiti dalla comparazione tra l’inflazione programmata e quella effettiva intervenuta nel precedente biennio, da valutare anche alla luce delle eventuali variazioni delle ragioni di scambio del Paese, nonché dall’andamento delle retribuzioni.”
Queste clausole non prefigurano l’obbligo delle parti ad attenersi ai soli tassi di inflazione (programmato ex ante ed effettivo ex post), né precludono la possibilità di includere nei minimi tabellari parte dei guadagni di produttività del sistema paese, come precisato nel successivo punto 3. che regola le erogazioni del livello di contrattazione aziendale da riferirsi, fra le altre grandezze, ai “margini di produttività, che potrà essere impegnata per accordo tra le parti, eccedente quella eventualmente già utilizzata per riconoscere gli aumenti retributivi a livello di c.c.n.l.”.
Pertanto, le associazioni di rappresentanza e il governo non escludevano affatto una dinamica dei minimi tabellari superiore a quella dell’inflazione, mentre l’obiettivo della salvaguardia del potere d’acquisto introduce un vincolo “di pavimento” che può essere allentato solo temporaneamente in circostanze del tutto eccezionali, come una grave recessione che colpisca tutti gli indicatori citati, accettabile in un’ottica intertemporale. I capitoli successivi del protocollo stesso, individuando il gap competitivo italiano in ben altri fattori da affrontare con strumenti specifici, confermano il carattere eccezionale di questa eventualità.
Non è interesse del presente contributo soffermarsi sul successo delle azioni intraprese in questi dieci anni di vigenza del protocollo, ma sul perché sia potuto accadere che:
a) la dinamica dei minimi tabellari non abbia ecceduto, né ex ante né ex post la dinamica dei prezzi, fatti salvi in parte i settori per i quali non era previsto un secondo livello contrattale;
b) si siano conclusi rinnovi che evidentemente non soddisfano questo obiettivo di minima, pur non essendo mai stati conclusi in situazioni economiche sfavorevoli al fattore lavoro, come testimonia il paradosso dell’attuale recessione, che vede un tasso di disoccupazione calante;
c) nonostante l’evidente moderazione salariale, molte vertenze si siano prolungate nel tempo;
d) le situazioni più critiche, con alta conflittualità, si siano concentrate in occasione del biennio economico.
2. L’argomentazione più ricorrente ai primi tre punti, già rilevati da gran parte degli autori, è che la moderazione salariale osservata discenda da un mix di aumentata apertura del sistema paese, relativa debolezza contrattuale dei sindacati oppure preferenza di questi ultimi a scambiare salario con livelli negoziabili di tutele adeguate, anche sotto forma di welfare attivo o complementare. Tale moderazione si estende al secondo livello contrattuale, con un’attribuzione al fattore lavoro di circa il 10% degli incrementi di produttività (cfr. Birindelli et al,, 2003). I ritardi nei rinnovi di alcuni settori sono attribuibili a specificità settoriali, come le pulizie, oppure alle manovre di bilancio per i ccnl del settore pubblico, oppure a meritori processi di accorpamento di ccnl, di complessa costruzione e realizzazione, concentrati nelle public utilities e nel terziario.
Queste argomentazioni non affrontano il quarto punto, e cioè il perché in occasione dei rinnovi biennali siano emerse le anomalie più vistose al metodo concertativo, orientato alla prevenzione del conflitto. Finché queste si concentravano al solo settore metalmeccanico, dove in entrambe le occasioni non si è raggiunto un accordo unitario (lodo Treu nel 1996, accordo separato nel 2001 che ha portato a quello successivo del 2002), si è ritenuto che questo fosse dovuto alle caratteristiche degli attori: ricordiamo che sia Federmeccanica sia la maggioranza dei lavoratori espressero il loro dissenso al protocollo del 23 luglio. La sua diffusione odierna evidenzia che quell’anomalia era in realtà una spia di un problema strutturale del modello.
Proporrei di partire dall’analisi di questo ultimo quesito per inquadrare gli altri sotto una luce leggermente diversa. Il rinnovo biennale della parte economica è un elemento spurio del modello contrattuale italiano: non solo perché è un qualche relitto della vecchia scala mobile, ma soprattutto perché il salario costituisce il solo oggetto di trattativa e quindi, per definizione, non è possibile alcuno scambio negoziale, se non il fattore tempo (si veda ancora il lodo Treu per i metalmeccanici, che prolungò di sei mesi la durata contrattuale). Di conseguenza, non ci sono problemi se le parti condividono la stessa interpretazione del testo citato del protocollo del 23 luglio, fatti salvi i tempi di rinnovo – quasi tecnici –, ma se così non è, il suo esito è frutto di un puro braccio di forza. Quest’ultimo è il caso del trasporto pubblico locale dove, come ben dimostra Ichino sulla www.lavoce.info, il non accordo è a tutto vantaggio delle aziende.
Il biennio economico costituisce pertanto quell’elemento superstite di “gioco a somma zero” in un contesto con regole e atteggiamenti che, nel loro complesso, delineano un “gioco a somma positiva”, ed è un’incongruenza che, in determinate circostanze, può portare all’esplosione del modello stesso proprio perché tocca i processi redistributivi, punto cardine di una concertazione che va ben oltre la politica dei redditi. Perché funzioni, i processi redistributivi devono avvenire al “pavimento”, sulla base di un’interpretazione restrittiva della lettera (e dello spirito) del testo del protocollo, dove il “tenere conto” diventa un vincolo molto forte, più forte della dinamica di produttività di sistema, come dimostrano le dinamiche salariali degli anni ’90. L’esito è stato che, laddove il mercato del lavoro è in tensione come nel Centro-nord, non solo i sindacati ma anche le imprese stesse perdono il connotato di autorità salariale. E’ fenomeno molto diffuso nelle piccole e medie imprese, sindacalizzate o meno, che il salario di fatto sia nettamente superiore a quello derivante dalla contrattazione collettiva, e non solo per le figure più professionalizzate, frutto di negoziazione individuale diretta del salario e del volume di straordinario.
3. La novità degli ultimi anni è che il passaggio da un approccio cooperativo a uno conflittuale sul biennio economico non è più un fatto sporadico. Rimanda necessariamente a riconsiderare la coerenza del modello stesso, cioè a introdurre quei correttivi che lo rendano più stabile riducendo la sua esposizione al mutare delle volontà delle parti, e cioè all’inevitabile fluttuare dei rapporti di forza. Per ovviare a questo problema sono state avanzate alcune proposte: ne prendo in considerazione due per comodità.
Una prima, proveniente dal mondo Cisl (ad esempio, Coppiello 2000 su questo giornale), è di spostare a livello regionale la determinazione del biennio economico tenendo conto delle tensioni locali sul mercato del lavoro giocando sul riconoscimento delle professionalità, sensibilmente compresso dall’attuale inquadramento, assorbendo in quest’ultimo la contrattazione decentrata di secondo livello, dove si negozia lo scambio negoziale sulla redistribuzione della produttività, tramutandosi a certe condizioni in un gioco a somma positiva per la competitività dell’impresa. Questo significa ricondurre il modello contrattuale a un modello unipolare, come in agricoltura, riaprire i c.d. “ventagli salariali” già dentro il ccnl, contravvenendo la lettera e lo spirito del testo del protocollo del 23 luglio, che proprio per la sua caratteristica di “decentramento controllato” permette una differenziazione territoriale ed aziendale del salario con il secondo livello contrattuale. Inoltre priverebbe le Rsu della loro legittimazione contrattuale, che è uno dei capisaldi dello scambio del protocollo del 23 luglio fra moderazione salariale contro tutela negoziale, al centro come in periferia, sia come contrattazione che come concertazione.
Per non perdere le opportunità di questo assetto contrattuale, che aveva contribuito allo spettacolare risanamento dell’Italia negli anni ‘90, con Cesare Damiano in passato avevo avanzato la proposta di abolire la contrattazione biennale del salario e riportare la durata contrattuale a tre anni, senza ulteriori modifiche: è una proposta senz’altro più prudente, volta a consolidare il modello contrattuale bipolare italiano espungendolo di quegli elementi che rimandano a giochi a somma zero, deleteri per il sistema Italia.
Le due proposte presentano differenze significative. La prima, infatti, disegna un modello di fatto unipolare che, in assenza di forti rimandi al livello aziendale sul piano gestione, priva le Rsu della titolarità negoziale, punta a ricostituire l’autorità salariale delle parti a livello regionale, tentando di avvicinare il salario contrattato collettivamente agli equilibri dei mercati del lavoro locali, oltre ad incentivare la frammentazione contrattuale. La seconda, nel rafforzare il modello bipolare che permea le relazioni industriali italiane, intende rafforzare quel “decentramento controllato”, introdotto dal protocollo del 1993, che ha permesso di sterilizzare il wage drift, ritenuto fino ad allora intrinseco ai modelli bipolari, combinando solidarietà nazionale con le diverse ability to pay aziendali e territoriali.
Sono diversità di accento significative, ma ricomponibili con una seria discussione. Le due proposte hanno infatti dei punti di convergenza, in particolare sul piano salariale convergono su due punti chiave: l’allungamento dell’intervallo ex ante fra una regolazione e l’altra dei minimi tabellari e il maggiore ruolo della contrattazione decentrata, sia pure con diversi equilibri. Si liberano le parti dal vincolo dello “scambio al ribasso” sul contratto nazionale prodotto dal biennio solo economico, eliminando quelle sedi negoziali dove non sia possibile uno scambio fra contenuti economici – e il loro mix – e gli elementi normativi, favorendo l’orientamento delle parti a un gioco a somma positiva e legittimando interpretazioni meno restrittive – e in ultima analisi meno pregiudiziali – della moderazione salariale, improntate comunque alla responsabilità.
Allungare l’intervallo ex ante fra un rinnovo e l’altro aumenta le incertezze per entrambi i contraenti, obbligando le parti a perseguire l’obiettivo minimale della tutela del potere d’acquisto non solo con aggiustamenti ex post, ma anche ex ante: questo può avvenire sia in modo indifferenziato sui minimi tabellari, sia in modo più selettivo attraverso una revisione del sistema di inquadramento, rendendolo più consono a un sistema socio-produttivo non più fordista, fondato sui mercati interni del lavoro. Un buon esempio è il modello introdotto dai ccnl 1999 del settore pubblico, che incentiva la crescita professionale dei lavoratori e quindi l’efficacia del sistema, ancora in decollo, di formazione continua.
4. È noto che questo governo non ama la concertazione e vuole liberarsene: vuole liberarsi dell’autorità attribuita alle associazioni di rappresentanza – non solo ai sindacati – nel costruire quella rete di tutele attive indispensabili nella transizione a un modello socio-economico non più fordista, ma soprattutto vuole liberarsi della maggiore innovazione del protocollo del 23 luglio, e cioè l’eliminazione di quel fattore di irresponsabilità collettiva – pubblica e privata – sulle sorti del paese costituito dall’automatismo della scala mobile. Per questo ogni occasione è buona per delegittimare e destabilizzare il protocollo del 1993, che Giugni definì la carta costituzionale delle relazioni industriali italiane.
Ma se viene meno, con la corresponsabilità sulle opzioni di fondo sull’economia e sul grado di coesione sociale, la componente non monetaria a compensazione della moderazione salariale, il gioco ritorna pienamente a somma zero: il prezzo è la pace sociale che ha consentito il duro risanamento dell’economia italiana e che sarà necessaria in futuro per rimediare ai nuovi squilibri che si stanno creando e per essere legittimati in Europa. Sono tutti d’accordo?