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Home - Approfondimenti - Analisi - I co.co.co. della discordia

I co.co.co. della discordia

20 Giugno 2003
in Analisi

Bruno Ugolini – Giornalista

Non c’è molta chiarezza sul futuro dei co.co.co, i collaboratori coordinati e continuativi. Hanno rappresentato, non da molti anni a questa parte, una componente molto discussa dei cosiddetti lavori “atipici”. Spesso gli imprenditori, secondo i sindacati, ricorrevano ai collaboratori, facendo compiere loro prestazioni identiche a quelle di altri, assunti a tempo indeterminato. Non lavoratori “parasubordinati” con una propria autonomia, ad esempio, in fatto di orari ma veri e propri lavoratori “subordinati”. Non atipici ma tipici, tradizionali. Con un costo inferiore.

Lo stesso governo nel suo recente schema di decreto legislativo, per l’attuazione della legge di riforma del mercato del lavoro, approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 6 giugno, è partito da una constatazione simile.  Nella relazione d’accompagnamento si parla testualmente di “Fine dell’abuso delle collaborazioni coordinate e continuative”. Le misure proposte sarebbero tese a ricondurre i co.co.co. “o al lavoro subordinato o al lavoro a progetto”. Il decreto prevede che, dopo un anno di transizione, i contratti di collaborazione non potranno più farsi. Il loro naturale sostituto dovrebbero essere i contratti «a progetto», che dovranno indicare il programma d’attività e avere necessariamente una durata limitata. L’aliquota previdenziale, per questi lavoratori passerà dal 14% al 19%. Le aziende che non riusciranno a portare i loro collaboratori in un contratto a progetto dovranno assumerli, a costi maggiori, secondo una delle tante tipologie di contratto di lavoro dipendente, oppure ricorrere al lavoro in affitto.


L’annuncio governativo ha sollevato pareri diversificati: entusiasmi, obiezioni, critiche, stroncature. Alcuni orientamenti registravano modifiche, col passare dei giorni. Era il caso della Confindustria, che in un primo tempo, per bocca del suo presidente Antonio D’Amato, aveva vivamente elogiato “la più grande riforma del mercato del lavoro mai varata nel nostro Paese”, per poi passare ad una disamina serrata proprio sul punto della prevista scomparsa dei co.co.co. La stessa Cisl, autrice in un primo tempo di un commento abbastanza benevolo, esponeva poi, dopo un esame analitico del provvedimento, una serie di contestazioni.  


E’ stata così avviata una discussione ampia, anche con l’intervento di numerosi esperti e studiosi. Cerchiamo di vedere in che cosa consistano le critiche e a che cosa mirino. Il timore della Confindustria, in sostanza, è quello di trovarsi di fronte a problemi difficili nella definizione dell’inquadramento dei nuovi rapporti di lavoro. La richiesta è quella di rendere la normativa meno vincolistica. Il responsabile confindustriale dell’area lavoro, Giorgio Usai, ha spiegato che il rischio è quello che il contratto a progetto non possa funzionare e che si finisca con l’alimentare il lavoro sommerso, il lavoro nero.  


I rilievi espressi dai sindacati appaiono d’altra natura. La Cisl ha in particolare insistito molto su quello che è sempre stato il cuore della sua strategia: la contrattazione. Le nuove forme di flessibilità dovrebbero, perciò, essere regolate e governate non solo da dispositivi legislativi ma soprattutto dalla contrattazione. Questo per evitare l’indebolimento del ruolo e della funzione del sindacato e che si accentuino gli elementi di subordinazione dei lavoratori e le precarizzazioni. La richiesta è quella, inoltre, di rendere meno aggirabile la casistica del lavoro a progetto e che siano garantiti alcuni diritti, come quelli relativi a maternità, malattia, infortunio, ammortizzatori sociali.


Molto più drastico il parere della Cgil che vede, come ha spiegato Guglielmo Epifani, nelle proposte del governo, non la possibile scomparsa dei co.co.co. ma l’aggiunta, con i contratti a progetto, di una nuova tipologia a quelle già esistenti. Un altro dirigente, Claudio Treves, responsabile del dipartimento lavoro, ha considerato mistificante l’operazione sui contratti a progetto: i collaboratori, non saranno trasformati in lavoratori dipendenti, come teme la Confindustria, ma saranno parificati ai lavoratori autonomi, perdendo, per esempio, anche il diritto alla maternità appena conquistato. E il segretario del Nidil Cgil (Nuove identità di lavoro), Emilio Viafora, d’accordo con tale giudizio, ha ipotizzato un fenomeno di “fuga” degli atipici, gravati dal passaggio al 19% del contributo previdenziale, verso la partita Iva e un futuro sempre più precario.


Appare chiaro da queste prese di posizione che l’iniziativa prospettata dal governo su questo aspetto non appare di facile realizzazione. Anche perché il parere delle parti sociali si è accompagnato a quello di studiosi della materia. E’ il caso di Franco Morganti, docente e imprenditore, che dalle colonne del Corriere della sera ha spiegato che il maggior elemento della flessibilità italiana erano i co.co.co. Ora la nuova legge li stronca,  trasformandoli in «lavoratori a progetto». Morganti immagina che così possano partire, ora, un numero straordinario di progetti: progetto di pulitura dei bagni, progetto di equilibratura delle gomme, progetto di fascicolazione di tesi di laurea, ma anche progetti di ricerca materiale (non intellettuale) del mercato. Un ricorso all’ironia, in sostanza, per testimoniare il disagio dell’imprenditore che teme gli sia portata via una forma di flessibilità che gli faceva comodo, soprattutto per i minori costi.


Altri interventi più approfonditi sono stati ospitati dal sito  http://www.lavoce.info  Qui Riccardo Del Punta (professore ordinario di Diritto del lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze) ha calcolato che dei due milioni e mezzo di co.co.co. attuali, potrebbero salvarsene, con le nuove norme, perché riconducibili ad un progetto, non più di un quinto, tutti di alta qualifica (amministratori di società, temporary managers, etc.).I restanti due milioni si ritroverebbero attratti nell’alveo del diritto del lavoro subordinato. Del Punta ricorre all’accusa, un po’ paradossale, che le proposte studiate dal ministro Maroni avrebbero un effetto dal sapore “bertinottiano”.  Una cosa da estrema sinistra, insomma. Lo studioso da atto del fatto che il decreto darà agli attuali co.co.co. un anno per adeguarsi al nuovo regime, ma è prevedibile, aggiunge, che in quest’arco di tempo molti contratti saranno cessati e non più rinnovati, oppure comincerà un lavorìo indefesso di avvocati e consulenti per elaborare progetti più o meno posticci, con la facile conseguenza di un incremento del contenzioso.


Sempre parlando delle conseguenze determinate dal decreto, un altro studioso, Pietro Garibaldi (docente di Economia politica alla Bocconi), immagina che il mercato, privato dei co.co.co., reagirà inventando nuove forme contrattuali. Già sono nati gli Aspa (associati in partecipazione). E’ una figura contrattuale che prevede il pagamento delle tasse ma non quello dei contributi. Pietro Garibaldi ammonisce perciò il legislatore a non continuare a rincorrere il mercato, perché così facendo la legislazione sarà sempre in ritardo ed il mercato del lavoro sarà sempre in grado di generare nuove forme contrattuali, non previste dall’ordinamento vigente. Tra qualche anno, procedendo in tal modo, conclude, le forme di contratto di lavoro saranno 380 e non 38, con una complessità istituzionale con pochi paragoni al mondo. L’unico modo per uscire da questa giungla sarebbe quello di stabilire dei minimi diritti garantiti (ferie, preavviso di recesso, protezione per gli infortuni sul lavoro, diritti previdenziali, etc) a ciascun lavoratore, e lasciare che il mercato e la contrattazione collettiva creino qualsivoglia figura contrattuale, che sarà considerata lecita fino a quando i diritti minimi saranno rispettati. “Questo permetterebbe di creare uno zoccolo duro minimo per i diritti dei lavoratori e consentirebbe al sistema capitalistico di fare il suo compito, che è quello di inventare continuamente nuovi prodotti, e non nuove figure contrattuali”.


Opinioni condivise da Tito Boeri (docente di Economia del lavoro alla Bocconi) che su La Stampa ha fatto notare come negli Stati Uniti o nel Regno Unito siano pochissimi i lavoratori con contratti a tempo determinato e il lavoro interinale sia un fenomeno marginale. Briciole rispetto ai 2,5 milioni di co.co.co. dell’Italia.  Boeri è convinto che con la “riforma” annunciata si creeranno meno posti di lavoro, oppure si creeranno altri co.co.co. sotto mentite spoglie. Anche lui fa l’esempio degli Aspa, gli associati in partecipazione, e prevede un gran lavoro per gli avvocati. Le vere tutele per il lavoro flessibile, conclude, sono in termini di ammortizzatori sociali che coprano lavoratori con carriere discontinue e in strumenti che facilitino l’assunzione nell’ambito di contratti permanenti.


Sempre su queste lunghezze d’onda sono le tesi di Pietro Ichino (docente di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano). I suoi calcoli lo portano a sostenere un aumento repentino dei costi per le imprese, una crescita del lavoro nero. La sua ricetta, simile a quelle dei vari collaboratori di la Voce, consiste nel procedere, invece di tante invenzioni, in una redistribuzione delle tutele fra le diverse categorie di lavoratori, atipici e non atipici. Togliendo ad alcuni e dando ad altri, in sostanza. Una ricetta non gradita, com’è noto, dai sindacati.


Allarmi e paure, insomma, spesso molto vicine alle perplessità confindustriali. La risposta di Maurizio Sacconi, sottosegretario al ministero del Welfare e tra gli autori del decreto, ripete la tesi che i co.co.co. saranno trasformati in lavoratori dipendenti, solo per quella parte di false collaborazioni dietro le quali si nascondono rapporti di lavoro subordinati. Per tutti gli altri non sarà così e si potrà utilizzare anche il nuovo contratto a progetto. Un altro autore della riforma, Michele Tiraboschi (l’assistente di Marco Biagi), ha osservato la contraddizione di chi parla sia del rischio di alimentare nuove forme contrattuali come gli Aspa, sia dell’inserimento di rigidità estreme, con paurosi aumenti dei costi (30 per cento, aveva detto Ichino). Tiraboschi ha negato, in sostanza, che sia prevedibile una moltiplicazione di figure contrattuali. Semmai si tratterebbe di eliminare forme di flessibilità cattiva.


Una discussione, comunque, ancora aperta, destinata a procedere nel corso del confronto tra parti sociali e governo. Il futuro dei co.co.co. non appare davvero chiaro. C’è da aggiungere, poi, un rilievo più di fondo mosso dal presidente della Commissione europea Romano Prodi, a proposito di Co.Co.Co Non basta, ha detto in sostanza, discutere di forme interessanti di flessibilità, collegate ad una società più flessibile. Occorre anche riflettere sulle conseguenze che hanno questi modi di lavorare, ad esempio sul sistema previdenziale. L’invito è a spiegare a questa nuova generazione di ragazzi flessibili “che cosa si troveranno in mano, quando arriverà l’età della pensione”. Un accenno a quasi certe pensioni di fame per tutti costoro.


Un modo per affermare che ogni politica (anche quelle della riforma del mercato del lavoro) è collegata ad altre (ad esempio quelle previdenziali). Occorre un disegno unico e coerente, non procedere a strappi e strapponi. Anche sui co.co.co. dopo aver letto tanti pareri, sia pure diversi nelle impostazioni (tra chi prevede nuove rigidità e chi prevede nuove precarietà), il decreto appare elaborato con discreta faciloneria.  Non sono stati calcolati conseguenze, strumenti, percorsi, ruoli.  Il confronto al tavolo negoziale potrà ovviare a tutto ciò?


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