Donata Gottardi – Professore straordinario di Diritto del Lavoro, all’Università di Verona
(in Documentazione il testo dell’appello)
E’ una domanda quasi retorica chiedersi le ragioni di un appello ‘per riprendere il cammino dell’unità sindacale’, sottoscritto da un gruppo di sociologi, economisti e giuslavoristi e volto a proporre un percorso che consenta di recuperare l’unità di azione ritenuta necessaria. La situazione attuale delle relazioni sindacali è sotto gli occhi di tutti.
Al centro del dibattito sui temi del lavoro sta proprio la divisione dei tre sindacati confederali. La attenzione si è finora polarizzata sui suoi motivi, sui contenuti degli accordi sottoscritti separatamente, sulle conseguenze per i lavoratori iscritti e non iscritti. Questa divisione non è una novità, ma è una novità il contesto in cui si inserisce: sistema politico bipolare, riforma costituzionale che assegna competenze legislative alle Regioni anche in materia di lavoro, riforma imminente delle regole statuali del mercato del lavoro.
Non basta allora guardare a cosa avviene all’interno e tra Cgil, Cisl e Uil. Non si mette a fuoco a sufficienza la gravità della questione. Il Governo di centro-destra ha ottenuto un vantaggio formidabile dalla loro divisione. A questo si aggiungono ulteriori elementi di allarme. Il Governo e le associazioni datoriali stanno accreditando altri soggetti sindacali, quelli che normalmente chiamiamo ‘sindacati autonomi’, con una semplificazione eccessiva che dimostra quanto oscuro sia questo lato, ancora poco indagato, delle relazioni industriali nel nostro Paese. Forse ci siamo dimenticati che la Cisnal (ora Ugl) e la Cisal hanno firmato a dicembre del 1994 il protocollo del luglio del 1993, su espresso invito dell’allora presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi. E infatti ora il Patto per l’Italia è stato sottoscritto anche dal sindacato leghista, che pure sembrava da tempo scomparso dall’orizzonte e che è ora assurto a interlocutore di accordi triangolari di vertice.
Ed è sempre più confuso il quadro dei rinvii di competenza ai sindacati e alla loro azione contrattuale utilizzando come criterio selettivo talora la maggiore rappresentatività e talaltra la prevalenza nel giudizio comparativo, senza che sia più rinvenibile coerenza nell’utilizzo dell’una e dell’altra formula. Eppure si dovrebbe ricordare come la seconda sia nata non tanto e non solo a seguito dell’esito del referendum del 1995 in materia di rappresentanze aziendali sindacali, quanto per sbarrare la strada a contratti alternativi peggiorativi in ambiti già coperti dalla negoziazione confederale. Quale antidoto dell’ordinamento giuridico al rischio di diffusione dei cosiddetti ‘contratti truffa’, che avrebbero potuto costituire un canale contrattuale di minor costo per piccole imprese del settore tessile e alberghiero, è stata introdotta nell’ordinamento giuridico la nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo, non a caso ora oggetto di attacchi da parte governativa con un ridicolo tentativo di soppressione del riferimento alla prevalenza nella comparazione e di creazione di un ibrido: il sindacato comparativamente rappresentativo.
Rispetto alla stagione dei cosiddetti ‘contratti truffa, ci troviamo di fronte a una situazione ancora più complessa, in cui si prospetta la applicazione, nella stessa azienda e per la stessa categoria di lavoratori, di due contratti collettivi. Ad esempio, una federazione di categoria di parte datoriale (la Federazione veneta delle banche di credito cooperativo) ha stipulato con il Si.na.di., sigla finora sconosciuta ma di supposta rappresentatività territoriale, un contratto regionale per l’area dirigenziale, di maggior favore per la parte economica e normativa, da applicare agli iscritti, ferma restando per gli altri la copertura contrattuale vigente. Richiamata dalla federazione nazionale, sembra abbia risposto che la situazione è cambiata con la riforma costituzionale e che il mandato rappresentativo non va dall’alto verso il basso, ma viceversa. Sempre nel settore delle banche di credito cooperativo, con sospetta tempestività, l’Ugl è stata ammessa dalla parte datoriale alla sottoscrizione successiva del contratto collettivo nazionale di lavoro. La Banca d’Italia ha firmato a giugno dell’anno scorso il contratto per i propri dipendenti con Falbi, Sibc e Cida, senza la firma dei sindacati confederali e persino del principale sindacato autonomo di settore, da lungo tempo legato ai primi nell’azione.
Potrebbero essere tutti segnali di limitata importanza, ma non vanno sottovalutati. Anche se li leggiamo cercando di trarre solo le implicazioni immediate, ci si rende conto della loro portata. Solo a titolo esemplificativo e riprendendo i casi sopra riportati, si pensi alle conseguenze della concorrenza da parte dei ‘nuovi sindacati’, con il supporto del Governo, ai tavoli di concertazione o di dialogo sociale, come tende a ribadire il Governo. Si pensi alla tenuta del protocollo del 1993 per la parte relativa agli assetti contrattuali, in cui sono previsti due livelli, uno nazionale e l’altro territoriale o aziendale. Si pensi alla determinazione degli obblighi contrattuali tra le parti stipulanti il contratto collettivo, una volta che si modifichi il numero dei sottoscrittori. Si pensi alle ricadute dell’applicazione nella stessa azienda di due diversi contratti collettivi a seconda dell’iscrizione ai sindacati confederali oppure ad un sindacato a diffusione regionale.
Non si può leggere la crisi dell’unità sindacale come se il contesto economico, sociale e politico non fosse cambiato o come se il nostro sistema di relazioni sindacali potesse continuare ad essere immune dai cambiamenti. Potrebbe essere troppo tardi attendere che l’unità di azione, come è sempre avvenuto in passato, si ricomponga.
Da un lato ci trasciniamo i vecchi nodi irrisolti, come quello della rappresentanza e rappresentatività e della efficacia del contratto collettivo di diritto comune, in presenza del programma costituzionale scritto nei tre comma finali dell’articolo 39, che ha impedito finora, se non nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, una diversa attuazione dell’obiettivo della generale applicabilità della contrattazione collettiva.
A questo si affiancano i cambiamenti prospettati nella legge che delega il Governo alla riforma del mercato del lavoro in stretta linea di continuità con il Libro bianco dell’autunno del 2001. Forse l’aspetto più preoccupante della legge n. 30 del 14 febbraio 2003 concerne proprio il versante sindacale, con interventi di modifica sul piano dei rapporti individuali e di quelli collettivi: enfatizzati i primi e intorbiditi i secondi.
Ne è un esempio l’attribuzione agli enti bilaterali di compiti e funzioni pubbliche o para-pubbliche, tra cui la certificazione della tipologia del rapporto di lavoro voluto dalle parti individuali stipulanti. La certificazione probabilmente non avrà significative ricadute in termini di risparmio di vertenzialità, ma, coinvolgendo il sindacato, potrà limitare il conflitto collettivo e far assumere all’organizzazione un ruolo improprio e spinoso, con perdita della connotazione di difesa degli interessi di parte.
Più in generale si profila la fuga dalla contrattazione collettiva o la forzatura dei suoi spazi di autonomia. Lo si vede nel sistema dei rinvii già ora presente nella disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato e nell’ampliamento del ruolo delle parti individuali nella regolazione del rapporto di lavoro. Si pensi alla riforma della disciplina del lavoro a tempo parziale, in cui è prevista la ‘agevolazione del ricorso a forme flessibili ed elastiche… anche sulla base del consenso del lavoratore interessato in carenza dei contratti collettivi’. Vedremo come verrà declinata la delega in decreto legislativo, ma l’indicazione che emerge è che il consenso del lavoratore è escluso in presenza di disciplina da parte del contratto collettivo (attualmente è previsto l’incrocio, non la sostituzione). Quanta responsabilità per chi stipula il contratto collettivo. Quanti possibili motivi di dissapori fra i tre sindacati confederali.
Con le parole dell’appello: ‘Se partiamo dai problemi reali del mondo del lavoro, l’unità sindacale diventa una possibilità e una necessità’; soprattutto una necessità, ed è percorribile anche a livello di singoli territori e di singole categorie, che possono elaborare e sperimentare un accordo interno ‘sulle regole, sulle procedure, sui meccanismi decisionali’.