Pier Paolo Baretta – Segretario confederale Cisl
Il dibattito politico-sindacale italiano degli ultimi tempi si è concentrato e cimentato – sia nei suoi aspetti più conflittuali, sia nella ricerca di soluzioni condivise – sui temi del mercato del lavoro e dei diritti. Sugli effetti, cioè, di un fenomeno strutturale molto profondo e che rischia di essere trascurato in sé. La complessa realtà che viviamo è, infatti, il risultato di una drastica modifica dell’organizzazione capitalistica della produzione, delle forme di impresa e, di conseguenza, dell’organizzazione capitalistica del lavoro e delle modalità stesse con le quali esso interviene nei rapporti sociali.
Partire da qui può consentirci di individuare un filo conduttore nella attuale lettura dei processi del lavoro, che non viene adeguatamente considerato. Il profondo cambiamento in atto nell’economia globale comporta, infatti, mutamenti profondi delle regole classiche della produzione capitalistica, che producono inediti equilibri, soprattutto in ordine allo sbocco sociale del conflitto istituzionale, che è insito nelle società complesse.
Discutiamo troppo poco di questo straordinario e gigantesco fenomeno. E non basta più aggredirlo dagli effetti. E’ chiaro, infatti, che si è messo in moto un fenomeno di causa/effetto che si autoalimenta e, alla fine, non si capisce più quale è la ragione che lo ha innescato.
Bisogna riprendere le fila, a partire dalla riflessione sulla evoluzione della natura stessa del capitale. Da produttivo a finanziario, esso, come sappiamo, ha cambiato ruolo ed approccio ai problemi dello sviluppo economico. Gli scorpori e le fusioni che da dieci anni circa occupano, in un crescendo misurabile, i titoli di tutte le cronache giornalistiche, non riguardano solo le grandi aziende mondiali, ma, ormai, anche i processi quotidiani di riorganizzazione dei piani di impresa a qualsiasi livello.
Se si accompagna a tutto ciò la dimensione globale della economia, dei mercati e della comunicazione, la riflessione va portata, coraggiosamente, sulla forma stessa del capitalismo. I cambiamenti intervenuti sono tali che ci dicono che il capitalismo ha subito, dal suo interno e al suo interno, cambiamenti tali che contraddicono la tesi della immodificabilità delle regole del gioco, delle logiche di mercato.
Certamente, la caduta del “nemico”, che ha consentito un iniziale trionfo del pensiero unico, ha anche liberato energie che si sono potute sprigionare con minori remore. Ma l’altro fattore dirompente è la assunzione di questioni… “valoriali” a parametri economici e a metro della competitività: dalla qualità totale allo sviluppo sostenibile, alla eticità dei comportamenti.
Se il capitalismo è cambiato e sta cambiando, vuol dire che è modificabile. Vuol dire che non c’è un modo solo di pensare alla concorrenza, al mercato, alla governance, al profitto, al consumo.
Prendiamo tre esempi molto diversi tra loro.
– La clamorosa violazione delle regole del gioco e del rapporto di fiducia con i dipendenti e gli investitori, avvenuta nella vicenda Enron, ha fatto diventare il tema del rapporto tra etica e capitalismo per nulla astratto o teorico, bensì di straordinaria attualità, concretezza ed urgenza. A ben vedere, questo dibattito non ha, nel nostro Paese, il risalto che dovrebbe avere. Basti pensare alla recente occasione, persa, della riforma del diritto societario. La novità, che non va sottovalutata, della possibilità per l’impresa di scegliere tra il modello duale o quello monista, è avvenuta in una logica tecnicistica, al di fuori di un dibattito sul modello di impresa, sulle forme di governance, sul ruolo degli attori; in assenza di qualsiasi confronto con le parti sociali.
– Il fatto che alcune grandi compagnie di produzione di beni essenziali (acqua, energia, ecc.) sentano il bisogno di unificare il messaggio pubblicitario al messaggio… salutista è segno non solo di scaltrezza commerciale, ma anche che il rapporto tra domanda e offerta segue canali ben più complessi di quelli tradizionali.
– Ancora: il fatto che la rete del commercio equo e solidale si sia organizzata come una vera e propria catena produttiva e distributiva è la prova che le regole del mercato e della competizione sono vincenti. Eppure, il successo che tali prodotti stanno avendo e la loro ormai importante e capillare diffusione dimostrano che è possibile costruire, con successo, formule alternative di produzione in grado di aggredire i mercati stessi.
Si può, così, pensare con qualche realismo maggiore del passato alla banca etica o alla finanza etica applicata agli investimenti.
Tutto ciò pone un tema straordinariamente affascinante da esplorare ed implementare. Non siamo più, cioè, costretti a dibatterci, esclusivamente, tra la crisi del capitalismo o il suo successo nelle forme più ciniche ed ingiuste. Non dobbiamo più scegliere soltanto tra l’antagonismo o la riduzione dei danni. Possiamo affrontare il problema di quale capitalismo, della sua evoluzione, delle sue inedite molteplici forme di svilupparsi! Per farlo non serve spingersi sino ai confini di forme alternative alla economia di mercato; per quanto importante ed interessante, ancorché improbabile, continui ad essere la ricerca di terze vie.
Ed anche restando rigorosamente all’interno del capitalismo e delle sue regole liberali, non occorre nemmeno arrivare ad Amartya Sen. E’ sufficiente constatare, facilmente, come l’idea di capitalismo che ha Friedmann e l’idea di capitalismo che ha Stiglitz differiscano profondamente. Sono due idee di capitalismo alternative fra loro e non si può confonderle! Ambedue rispondono ai problemi della crescita e della competizione, ma le conseguenze sono tali da implicare due diversi modelli di società. Non è possibile ignorare, per nessuno, che tra le due forme va esplicitata una opzione.
Si tratta di una grande questione politica ed etica, che va sollevata in tutta la sua ampiezza e consistenza.
Se il contributo portato dalla recente dottrina sociale della Chiesa, in particolare per merito delle ultime encicliche sociali (anche se, di fatto, manca ancora una enciclica sulla globalizzazione), è stato di straordinario spessore morale, il rischio è sempre stato quello che prevalesse l’idea che si trattasse di una illusione, in quanto comportava una correzione alle regole del puro gioco capitalistico e, dunque, una riduzione della sua efficacia.
Invece, le recenti scuole di economia alternative alla scuola di Chicago ci consentono di misurarci con una teoria economica che dà ragione, o ingloba, le istanze etiche e sociali. Non siamo più, cioè, nel campo del “sarebbe bello, ma le regole sono altre”, bensì nel campo “è possibile e conveniente”.
L’Europa rappresenta, in questo quadro, un terreno importante. La scelta del modello sociale europeo, con le sue forme di Welfare e di dialogo sociale, va dunque politicamente e socialmente assunta, rafforzata, corretta e migliorata. Non c’è dubbio che, in questo scenario, la migliore forma da dare ai rapporti sociali, ai rapporti di lavoro, alle relazioni industriali è quella partecipativa.
La democrazia economica rappresenta il collante che lega ad un progetto condiviso i diversi interessi in campo. Di più: la democrazia economica può rappresentare il veicolo perché si affermi la stessa idea innovativa di capitalismo. Anche per questo, lascia delusi la miopia di Confindustria che non ha scelto con nettezza il “parternariato”. Si pensi al dibattito sindacale e politico di questo anno: il tema della partecipazione, pur presente nel Libro bianco, è stato sostanzialmente ignorato. Basti pensare alle vicende Fiat di questi giorni, che glissano l’insieme di questa problematica.
Certo la strada non è piana e l’affermazione di questo modello è oggetto di una battaglia culturale, politica e sociale ben lungi dall’essere vinta, ma diversamente dal passato ha più possibilità di essere giocata.
La discussione attorno alle vicende Fiat potrebbe diventare l’occasione per sostenere le nostre tesi sulla democrazia economica, ma il dibattito non sta andando nella direzione che noi vorremo. Si impone, dunque, la necessità di affermare una nuova visione dei processi sociali, uno sbocco capace di riattualizzare coerenze storiche e valoriali.