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Home - Approfondimenti - Interviste - Duci, la concertazione come antidoto alla crisi che stiamo vivendo

Duci, la concertazione come antidoto alla crisi che stiamo vivendo

di Tommaso Nutarelli
16 Novembre 2020
in Interviste
Duci, la concertazione come antidoto alla crisi che stiamo vivendo

La situazione impone l’abbandono di divisioni e populismi, per uscire tutti insieme dal guado. Per Ugo Duci, segretario generale della Cisl Lombardia, il momento impone lo sforzo collettivo di tutti, governo, opposizioni e parti sociali. Dopo la crisi sanitaria, afferma Duci, arriverà quella economica e sociale. Fondamentale è farsi trovare pronti per dare una visione futura al paese. Il Mes è una priorità e con Confindustria è indispensabile riprendere il confronto.

Duci, la Lombardia ha subito, più di altre regioni, gli effetti dannosi della pandemia. Qual è lo stato di salute del mercato del lavoro?

L’inserimento della Lombardia nella zona rossa ha determinato il blocco di molte attività. Secondo un nostro studio, nel settore privato, i lavoratori ai box sono più di 473mila, il 10% del totale. L’impatto dell’ultimo Dpcm si fa sentire in particolare sul 95,7% degli addetti del settore sport e intrattenimento (43.179 lavoratori), sul 71,3% dei lavoratori di “alloggio e ristorazione” (241.073 dipendenti), sul 34,3% degli addetti ai servizi alla persona (37.430 lavoratori, parrucchieri esclusi) e sul 17,8% del commercio (141.930 lavoratori). Una situazione non facile, mitigata, tuttavia, dal blocco dei licenziamenti e dalla proroga degli ammortizzatori sociali per covid. Ora, oltre a tamponare gli effetti dell’emergenza, dobbiamo anche impegnare le nostre forze per capire che futuro vogliamo dare al paese, per approntare soluzioni e risposte per quando, passata l’emergenza sanitaria, dovremo affrontare un’emergenza sociale e occupazionale.

Che cosa bisogna fare?

Le politiche attive sono lo strumento principale che possiamo mettere in campo. Sarà molto importante sostenere i lavoratori più fragili, che il covid ha espulso dal mercato del lavoro, che sono quelli anche con un bagaglio di competenze ridotto. Questo attraverso percorsi di formazione e qualificazione professionale.

Come impiegherebbe i soldi del Recovery Fund?

Abbiamo a disposizione oltre 200 miliardi di euro. La prima cosa è capire quante di queste risorse saranno a fondo perduto e quante a debito. Ora da quello che sta emergendo, i vari ministeri stanno presentando dei progetti per un totale di 600 miliardi. In che modo possiamo essere credibili con i nostri partner europei se ci muoviamo in questo modo? Pensiamo veramente che il nostro paese possa sostenere ulteriore debito?

Che cosa andrebbe fatto secondo lei?

La parola chiave è condivisione. Il governo deve coinvolgere le parti sociali per capire quale visione futura vogliamo dare all’Italia. Durante la prima e la seconda Repubblica, la politica ha usato i denari che avevi per la ricerca del consenso a pioggia. Ma ora questo modus è impraticabile e deleterio. Il Recovery Plan non dovrà essere disperso in mille rivoli, ma impegnato su poche e strategiche priorità.

Abbiamo assistito a una poderosa diffusione del lavoro agile. Come valuta questa esperienza?

Quello che sin qui abbiamo visto è stato remote working, più che smart working. Si è trattato di una risposta alla pandemia, per ridurre i contagi, ma che tale rimane. Io sono favorevolissimo al lavoro agile, ma, per attuarlo, servono precise condizioni.

Quali?

Prima di tutto deve essere contrattato. Inoltre va inserito in un progetto complessivo che ripensi l’organizzazione del lavoro, della società e della mobilità. Come detto sin qui siamo stati testimoni di una modalità di lavoro dettata dalla pandemia. Dobbiamo immaginare il lavoro agile una volta superata la fase emergenziale.

In che situazione è la sanità della Lombardia?

La sanità lombarda, per anni, ha esaltato le proprie eccellenze, che oggettivamente ci sono. Ma questa autocelebrazione ci ha annebbiato la vista e il giudizio su alcune criticità che si stavano addensando. C’è stato un progressivo smantellamento della medicina territoriale e di prossimità, e dobbiamo gestire una popolazione sempre più anziana, con cronicità e patologie significative. Abbiamo, ahimè, visto come senza una rete socio-sanitaria capillare, senza il supporto di medici e infermieri di famiglia, senza gli OSS, il covid ha dilagato. Manca personale nei nosocomi, e non è stato approntato un piano di vaccinazione anti influenzale all’altezza dei tempi che stiamo vivendo. Se la nostra sanità sta reggendo è grazie al lavoro, alla professionalità e all’abnegazione di medici e infermieri, non certo per l’organizzazione del sistema.

Userebbe il Mes?

I tagli fatti alla sanità nell’ultimo decennio sono equiparabili ai 37 miliardi del Mes. Questi soldi possono essere presi a tassi d’interesse vantaggiosissimi, ancora di più di quelli del Recovery Fund. La seconda ondata, inoltre, sta colpendo tutto il paese, stressando sistemi sanitari regionali molto meno attrezzati di quello lombardo. Vorrei chiedere ai lettori del Diario del lavoro, vista la situazione e le premesse fatte, rifiutereste le risorse del Mes? Penso che ogni persona di buon senso risponderebbe no. L’aiuto del Mes è imprescindibile.

In che modo valuta la gestione della scuola?

C’è stata una prima fase dove la ministra Azzolina pensava di poter risolvere ogni questione da sola. Quando invece è iniziata l’interlocuzione con le parti sociale le cose sono decisamente migliorate. Ritengo che, alla fine, sia stato fatto un buon lavoro organizzativo per consentire il rientro a scuola nella massima sicurezza possibile, al di là delle polemiche sui famigerati banchi con le rotelle. La sottovalutazione è stata fatta, semmai, per ciò che ruota attorno alla scuola.

A cosa si riferisce?

Penso ovviamente ai trasporti, e al fatto che gli alunni, più o meno grandi, hanno una socialità e dei contatti al di fuori dell’orario e dell’ambiente scolastico. Come possiamo spiegare a un bambino di otto anni il distanziamento sociale? Perché non sono stati impiegati i bus turistici e privati per rafforzare i trasporti e non si sono scaglionati gli orari? Nel preparare la riapertura dell’anno scolastico non si è tenuto conto di queste variabili.

Ora come a marzo la scuola è stata una delle prime realtà ad essere bloccata. In questo vede poca attenzione da parte del governo?

Guardi credo che il ricorso alla dad sia una decisione dettata dall’emergenza, più che da una precisa volontà politica. Ma quando si decide di ricorrere a questa modalità didattica, bisogna poi fare anche altri tipi di ragionamento, che il governo non ha fatto.

Quali?

Il successo della dad dipende dalla possibilità che ha lo studente di aver un computer, e dalle infrastrutture digitali, che non sono uguali in tutte le aree. La condizione socio-economica della famiglia incide molto, e con la dad il rischio di allargare le diversità sociali è molto elevato, se non si pensa a un piano di intervento.

Come è stato il confronto con la Regione?

Fin dai tempi del governatore Formigoni è stato istituito il Patto per lo sviluppo della Lombardia. Un tavolo istituzionale che è diventato il cuore del confronto tra la Regione e le parti sociali. Negli anni i soggetti di questo tavolo si sono ampliati, il che è un ben dal punto di vista della partecipazione democratica. Ma bisogna vedere anche il livello di rappresentanza di questi soggetti. Alla fine il tavolo è diventato semplicemente un momento nel quale la Regione comunica le sue decisioni.

Sindacati e Confindustria parlano della necessità di un nuovo patto sociale per il paese. Crede che lo si potrà realizzare?

Così come Confindustria non sceglie i rappresentanti del sindacato con cui confrontarsi, ugualmente il sindacato non sceglie il presidente degli industriali. Con Bonomi è necessario avviare un dialogo. Ho apprezzato molto il suo impegno nel convincere la parte datoriale a rinnovare il contratto per la sanità privata, e auspico che possa usare la stessa moral suasion per sbloccare altri rinnovi che sono in una fase di stallo. Credo che le parti sociali, ancor prima di pretendere di dire cosa fare al governo, si devono impegnare in quella che è la loro missione principale ossia rinnovare e sottoscrivere i contratti. Sarebbe un bene per il paese dar vita un tavolo, sul modello di quello del compianto presidente Ciampi del 1993 che salvò l’Italia dal default. Don Milani diceva che “il sortire insieme dalle difficoltà è far politica”. Immaginare una conferenza stampa nella quale governo, opposizioni e parti sociali raccontano ai cittadini quale futuro vogliono dare a questo paese, sarebbe un segnale di unità e coesione. È tempo di abbandonare le divisioni e i populismi.

Che giudizio da all’operato del governo?

Durante la prima ondata il nostro governo, come del resto quegli degli altri paesi, si è trovato davanti un’emergenza imprevedibile, e ha fatto anche un buon lavoro. C’è stato, invece, troppo rilassamento da maggio in poi. Durante l’estate non è stato fatto nulla di ciò che avrebbe potuto mitigare gli effetti di una seconda ondata ampiamente prevedibile. Inoltre sta sbagliando molto anche nella comunicazione. È importante dare messaggi chiare alle persone in questa fase delicata.

La coesione sociale reggerà?

A marzo non abbiamo visto le persone nelle piazze come adesso. Il blocco dei licenziamenti e la proroga della Cig, come detto, stanno attenuando gli esiti più nocivi. Ma non possiamo non farci trovare pronti per la crisi sociale che potrebbe scoppiare una volta che queste misure si esauriranno.

Tommaso Nutarelli

Tommaso Nutarelli

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Giornalista de Il diario del lavoro.

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