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Home - Approfondimenti - Analisi - Nel Piano Nazionale delle Riforme, Quota 100 non si tocca

Nel Piano Nazionale delle Riforme, Quota 100 non si tocca

di Giuliano Cazzola
8 Luglio 2020
in Analisi

Nel Piano Nazionale delle Riforme (PNR) che il governo è in procinto di inviare a Bruxelles la questione di “quota 100” viene affrontata con tutta la cautela con la quale il Conte 2 si muove lungo una  linea di sostanziale continuità con le politiche del Conte 1.  

La norma – precisa il  PNR – sarà condotta alla sua naturale scadenza (31.12.2021) per fare posto alla valutazione di “scelte in materia alla luce della sostenibilità anche di lungo periodo del sistema previdenziale e del debito pubblico garantendo al contempo il rispetto per l’equità intergenerazionale e il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica”. In sostanza “quota 100” non si tocca. Prima della pandemia era fallita la “mission” di sostituire i pensionati “quotisti” con nuovi assunti (meglio se giovani); ora che la norma può funzionare da ammortizzatore sociale diventa velleitario rimetterla in discussione. Tuttavia è opportuno monitorarne gli effetti, osservarne le criticità – prima denunciate poi divenute palesi – allo scopo di sventare ogni tentativo di proroga, tanto più inutile in quanto i danni prodotti da proseguiranno mediante il ricorso al pensionamento anticipato ordinario (che prescinde dall’età anagrafica) bloccato fino a tutto il 2026 a 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva (un anno in meno per le donne). 

A fronte del “quaeta non movere” dell’Inps, ha compiuto un’analisi, interessante sotto molti aspetti, la Corte dei Conti nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica. Su la magistratura contabile è lapidaria: Sotto tale aspetto, uno dei profili di maggiore delicatezza – richiama la Corte – è quello della flessibilità dell’età di uscita.

Tenuto conto che, col passare del tempo, risulterà sempre più evidente la differenza di trattamento tra coloro che hanno iniziato a lavorare agli inizi del 1996 (e quindi in regime totalmente contributivo) e coloro che hanno iniziato solo poco tempo prima (a cui  il nuovo regime si applica in parte in forma mista), con i primi che potranno lasciare il lavoro a 64 anni e i secondi che dovranno aspettare ulteriori tre anni (67 anni), si potrebbe esaminare – propone la Corte dei Conti – l’ipotesi di rendere flessibile l’età di uscita prevedendo però la decurtazione della componente retributiva dell’assegno in modo da garantire la sostenibilità economica della scelta (senza creazione di debito pensionistico implicito). Tenendo conto che con il 2021 l’opzione di Quota 100 verrà a scadenza e che si determinerà un effetto “scalone” che porterà l’età di uscita – in mancanza dei requisiti contributivi previsti per il pensionamento anticipato – dai 62 ai 67 anni, la menzionata flessibilizzazione potrebbe essere accordata dentro uno schema che vada gradualmente ad uniformarsi ai 64 anni previsti per l’uscita degli assicurati in regime totalmente contributivo (per esempio si potrebbe mantenere fino al 2023 l’età di 62 anni, nel successivo biennio salire a 63 anni ed infine, a partire dal 2026 arrivare a 64).

Naturalmente da quel momento in poi i requisiti dovrebbero essere tutti indicizzati alla speranza di vita e diventare più stringenti al crescere di essa. Fin qui la proposta contenuta nel Rapporto. Un ultimo aspetto del sistema delle “quote” in generale, che la Corte ritiene di dover segnalare (e che si presterebbe ad essere esaminato nella logica del rapporto tra contributi versati e benefici complessivi), è quello della mancata giustificazione, sul piano della logica attuariale, dell’equiparazione che tipicamente viene fatta quando si applica il sistema delle quote, tra età e anzianità contributiva laddove un anno di maggiore età viene assimilato ad un anno di maggiore anzianità contributiva.

Raffrontando la situazione di due “quotisti” che per ipotesi siano in “Quota 101”, ma il primo con 39 anni di contributi e 62 di età e il secondo con 63 anni di età e 38 di contributi si può riscontrare che l’equiparazione potrebbe non essere del tutto fondata. La differenza di fondo tra i due soggetti è che il primo avrà contribuito per un anno in più del secondo versando, per ogni 100 euro di retribuzione, circa 33 euro e a fronte di ciò avrà una pensione più elevata del 2 per cento per tutti gli anni di pensionamento (diretto e indiretto). In sostanza una pensione più elevata e percepita più a lungo, in ragione dell’ età inferiore al momento della effettiva decorrenza.

SCARTO TRA BENEFICI PENSIONISTICI TOTALI E CONTRIBUTI SOCIALI VERSATI PER OGNI 100 EURO DI RETRIBUZIONE PENSIONABILE IN REGIME RETRIBUTIVO – EURO – (fonte: Elaborazione della Corte dei Conti)

Nel grafico, il Rapporto  si cimenta in un “caso di scuola”. Considerando dunque 100 euro di retribuzione pensionabile in regime retributivo, corrispondenti a un trattamento di 62 euro, e tenendo conto di una speranza di vita di 25 anni, il lavoratore in ipotesi avrà beneficiato di trattamenti complessivi pari a 1.550 euro nel 2044 quando cesserà la pensione diretta; il superstite beneficerà poi, sotto forma di pensione indiretta, per ulteriori 13 anni di 37 euro di assegno annuo.

Con ciò, i benefici pensionistici complessivi dell’assicurato in questione assommeranno a 2.033 euro. Come risulta sempre dal grafico, a fine 2018, i contributi sociali cumulativamente versati tra il 1981 e il 2011, cioè quelli validi per la sola quota retributiva (dal 1° gennaio 2012 è entrato in vigore pro rata il calcolo contributivo per tutti i lavoratori) erano pari a 673 euro. In sostanza – sostiene la Corte – < quota 100> ha esacerbato una situazione di squilibrio già esistente, che viene tipicamente sanata a carico della fiscalità generale, attraverso un anticipo pensionistico – senza correzione dell’importo della pensione – fino ad un massimo di 5 anni. Lo stesso grafico mette in evidenza come la distanza tra contributi effettivamente versati e benefici totali rivenienti dall’Ago, già molto elevata nel caso generale, cresca nettamente nella fattispecie del “quotista” preso da esempio.

In definitiva, si può valutare – conclude il Rapporto – che, nella ipotetica situazione del caso considerato ovvero di un soggetto che è andato in pensione con 62 anni di età e 38 anni di contributi, abbia accresciuto di circa il 25 per cento lo scarto tipico che si sarebbe riscontrato sul pilastro retributivo del trattamento pensionistico.

Giuliano Cazzola

Giuliano Cazzola

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Ex Sindacalista

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