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Home - Approfondimenti - Interviste - Pedretti, il prossimo leader? non un uomo solo al comando, ma un primo tra pari

Pedretti, il prossimo leader? non un uomo solo al comando, ma un primo tra pari

di Massimo Mascini
21 Settembre 2018
in Interviste
Pedretti, il prossimo leader? non un uomo solo al comando, ma un primo tra pari

Sta crescendo la tensione dentro la Cgil. A gennaio si terrà il congresso nazionale, un momento delicato in cui normalmente si stabilisce la strategia della confederazione per i successivi quattro anni. Stavolta i problemi si affollano, perché è in scadenza la segreteria di Susanna Camusso e la successione è ancora in alto mare. I candidati sono al momento due, anche se in realtà nessuno di essi ha mai ufficializzato formalmente la sua posizione. Ma, appunto, il dibattito ferve. Il problema principale davanti al quale si trova la Cgil è il fatto che moltissimi degli iscritti il 4 marzo ha votato per i due partiti che hanno poi formato la maggioranza di governo, Lega e 5S; partiti che non sembrano teneri con i sindacati e che stanno lavorando contro i valori fondanti della Cgil. È sempre più complesso allora decidere come rafforzare quei valori e come rapportarsi con quei partiti. Ivan Pedretti, il segretario generale dei pensionati, uomo forte della confederazione, avanza alcune proposte per cercare di quanto meno allentare questi nodi.

Pedretti, che sta succedendo in Cgil?

Ci sono dei problemi aperti. Il primo è il rapporto con la politica di fronte a una crisi profonda della sinistra. La Cgil deve porsi il problema del rapporto con i valori fondanti della propria organizzazione, la giustizia, la solidarietà, l’eguaglianza, i diritti materiali e immateriali dei lavoratori e dei pensionati. Deve ragionare in generale sulle condizioni di vita delle persone. Deve ragionare anche del rispetto dei diritti di tutte quelle persone che scappano da guerre, miseria e fame per venire nel nostro paese.

Lei pensa quindi che si stia allentando il rapporto della Cgil con questi suoi valori fondanti?

I soggetti che hanno vinto le elezioni, Lega e Cinque Stelle, stanno provando a scardinare questi valori fondamentali, in primo luogo il diritto delle persone a spostarsi da un punto all’altro del pianeta e ad avere rispetto dei diritti umani. Per questo la Cgil dovrebbe invece rafforzare la sua identità e la storia di quei valori, guardando ai nostri padri fondatori, Giuseppe Di Vittorio per primo.

E non lo sta facendo?

La Cgil rischia di rimanere vincolata al merito dei singoli problemi senza una visione di insieme della società, sul suo futuro. Guardiamo il punto più critico, il processo migratorio: la Cgil ha sempre fatto dell’inclusione il suo valore. Lo ha fatto anche quando ha avuto un forte processo migratorio interno al paese o quando milioni di italiani sono andati all’estero a cercare lavoro.

Ha abbandonato questo suo valore?

Adesso dovrebbe salvaguardarlo. E questo non deve significare non dare sicurezza ai cittadini. I processi vanno governati, ci si deve battere per chiedere il rispetto delle nostre leggi e il riconoscimento della carta costituzionale, ma contemporaneamente includere quelle persone nella nostra società. Questo è mancato e bisognerebbe invece dare una  risposta, evitando così un conflitto tra gli italiani e gli stranieri che arrivano.

La Cgil non ha fatto questo?

In questi anni abbiamo faticato a portare avanti un vero confronto tra il nostro gruppo dirigente e i nostri iscritti. Ma questo confronto è necessario. Il gruppo dirigente deve orientare le persone, non solo sentire la pancia dei propri rappresentati, indirizzandoli nella consapevolezza dei valori della solidarietà e dell’inclusione. È mancato un confronto anche aspro con i lavoratori e i pensionati su questi temi. Prima o poi bisognerà farlo.

Il gruppo dirigente della Cgil ha coscienza di quanto sia necessario questo confronto?

Non basta che ne sia consapevole il gruppo dirigente centrale, serve un coinvolgimento e una presa di coscienza di tutti. Il pericolo è che si arrivi ad una corporativizzazione dell’organizzazione. Perché adesso conta sempre più la vertenza aziendale, il contratto nazionale, ma sempre in maniera slegata da quanto in generale sta accadendo nel paese.

Come si sviluppa questo fenomeno?

Si possono fare due esempi. Il primo riguarda la sanità. Politicamente si indica l’importanza di una protezione universale, ma poi, concretamente, si contratta nelle aziende o al momento del rinnovo di un contratto nazionale per una sanità integrativa defiscalizzata, che poi rischia di diventare sostitutiva. Fuori da noi invece stanno crescendo forme di sanità privata e assicurativa che mettono in discussione l’universalità del diritto alla salute.

Il secondo esempio?

Lo spostamento di poteri statali verso le regioni, oltre a quello già previsto per la sanità. Lo abbiamo visto ad esempio con i referendum in Lombardia e Veneto dove chiedono ad esempio che la gestione diretta del mercato del lavoro e dell’istruzione passino al livello regionale. Tutto ciò rischia di produrre da un lato un sistema di istruzione diverso da regione a regione e dall’altro l’indebolimento dei contratti nazionali di lavoro ritornando all’idea delle vecchie gabbie salariali.

E questo non è un bene.

No, perché queste scelte minano l’universalità delle protezioni sociali dei cittadini. In questo modo vince il più forte, chi ha più risorse. E tutto ciò è foriero di divisioni nel paese. Il rischio è che si accetti non solo l’idea che l’Italia sia un paese sovranista, ma anche che le regioni assumano a loro volta un atteggiamento sovranista verso lo Stato.

Una deriva che ovviamente la Cgil non può accettare.

No, perché queste scelte sono in rotta di collisione con le nostre idee di fondo. Per questo dico che il giudizio nei confronti del governo deve partire da questi assunti e allo stesso tempo entrare nel merito dei provvedimenti che assume.

Questi temi emergono nel dibattito congressuale in Cgil?

Con fatica. E cresce il rischio che vinca un’idea limitata a questioni pur importanti come la flat tax o il riordino delle pensioni o il reddito di cittadinanza senza però che ci sia una visione d’insieme dei problemi del paese.

Manca un dibattito più alto?

Manca ed è un pericolo perché la Cgil non è avulsa dai cambiamenti che stanno avvenendo.  Questi sono temi importanti che vanno valutati globalmente, nella loro interezza, avendo presenti le trasformazioni che il nostro paese sta vivendo.

Quali trasformazioni?

Quella demografica, per esempio. Se la società invecchia, e il nostro è il paese che ha più anziani in tutto l’occidente, dobbiamo pensare a cosa questo comporta, a come deve cambiare il welfare, a quali politiche di assistenza devono essere realizzate, a come si può affrontare il tema della denatalità.  Altrimenti la società si rinsecchisce. Così si va verso una decrescita ‘mica tanto felice’. Altra trasformazione chiave è quella dell’innovazione tecnologica. Sta cambiando le nostre vite e il nostro atteggiamento non può essere di chiusura e di sola opposizione. Questi fenomeni vanno governati e contrattati. Nella sua storia il sindacato lo ha già fatto e deve tornare a farlo.

Ma c’è sufficiente coscienza di questa esigenza di allargare la visione? Glielo chiedo anche in relazione al prossimo cambio di guida, all’elezione del nuovo segretario generale.

Spero di sì, ma saranno i fatti a mostrare la verità. Io penso che la Cgil debba evitare di fare quello che ha fatto il Pd, di avere cioè un solo uomo al comando, magari quello più popolare. Deve vincere invece l’idea del governo dell’organizzazione fatta da un primo tra i pari, capace di tenere insieme il gruppo dirigente e lavorare fortemente in squadra. Una persona meno attenta alle alchimie della politica e più legata a un lavoro complesso e faticoso di ricostruzione di un rapporto con i lavoratori e i pensionati, che nel tempo si è pericolosamente sfilacciato.

Non è un compito facile.

No, affatto, ma io ho sempre in mente Di Vittorio che a un certo punto chiamò il suo gruppo dirigente per dire loro che se i contadini stavano nei campi il sindacalista deve stare anche lui nei campi. Oggi, in una società parcellizzata e distribuita nel territorio, con tante piccole imprese dove il sindacato non c’è, la suggestione è quella di  pensare che forse serve il sindacalista di quartiere, capace in quanto tale di cogliere i bisogni dei lavoratori, dei pensionati, dei giovani e quindi dell’insieme dei cittadini.

Che succede se il sindacato non fa questo? Che pericoli corre?

Che nel tempo ridurremo costantemente la rappresentatività e quindi la rappresentanza politica e sindacale. Un sindacato generale ha il compito di tenere assieme i diversi soggetti con un’idea della confederalità che si scontra quotidianamente con il corporativismo, che invece privilegia i più forti.

Come se ne esce, secondo lei?

Penso ci sia bisogno di uno sforzo di tutti, per ricercare una soluzione condivisa sul gruppo dirigente, a partire dal segretario generale. Anche considerando la possibilità di usare uno strumento democratico come quello dell’ascolto, della verifica delle diverse persone in campo, misurando il consenso degli uni e degli altri. Abbiamo nella nostra storia un esempio da seguire, quello che indicò Bruno Trentin per la sua successione. Eviterei le forzature su l’uno o l’altro candidato. Se non c’è condivisione, ci si affidi alle nostre regole. Un comitato di saggi che ascolti il gruppo dirigente che uscirà dal congresso, non ora, e una volta acquisito chi ha più consensi può andare al voto, sostenuto da tutti, evitando qualsiasi spaccatura.

Massimo Mascini

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