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Home - Approfondimenti - Analisi - L’estate del nostro scontento e l’opposizione (del Pd) che non c’e’

L’estate del nostro scontento e l’opposizione (del Pd) che non c’e’

di Giuliano Cazzola
15 Giugno 2018
in Analisi

La mancata analisi post voto, gli errori di Renzi, le concessioni al populismo, sono altrettanti elementi che, oggi, fanno sì che il partito democratico abbia ‘’perso la voce’’. E quando la coalizione di governo comincerà ad attuare il programma, per i dem sarà difficile fare opposizione nel merito.

Lo ‘’scontento’’ che mi perseguita dal 4 marzo si è trasformato in vera e propria depressione al momento della formazione del governo giallo-verde (si continua ad insistere su questa definizione cromatica, anche se la Lega, nel simbolo elettorale, ha adottato il colore blu). Tuttavia, vengo sopraffatto da sentimenti di vera e propria disperazione se osservo l’inconsistenza delle opposizioni. O meglio del Pd (che è la forza principale di minoranza) essendo Silvio Berlusconi rimasto con un piede dentro e uno fuori dall’uscio dei locali dove è custodito ciò che fu un tempo il centro destra. Uno della mia età è indotto inevitabilmente a fare paragoni nostalgici con il passato. E a rimpiangere ‘’la gran bontade dei cavalieri antichi’’.

In una testimonianza, raccolta insieme ad altre nel libro ‘’L’inganno di Enrico Berlinguer’’ di Domenico Del Prete,  Claudio Petruccioli  ricorda un ‘importante sessione del Comitato Centrale del Pci che iniziò a Botteghe Oscure  il 3 luglio del 1979, un mese dopo lo svolgimento delle elezioni politiche nelle quali il partito, ancora impelagato nell’esperienza della Solidarietà nazionale, aveva perduto  il 4%  pari a 1,5 milioni di voti rispetto al grande successo delle consultazioni precedenti. Il ritardo di un mese nell’esaminare i motivi della sconfitta fu dovuto al fatto che nel frattempo vi erano state le prime elezioni dirette del Parlamento europeo. La relazione di Enrico Berlinguer era di ben 75 cartelle e venne pubblicata integralmente sull’Unità (come le sue conclusioni dopo 3 giorni di discussione). Gli interventi furono 75 e di essi fu data sintesi sul medesimo quotidiano.

Pur con tutti i suoi difetti, questa era la tempra del Pci. Il Partito democratico, insieme con la sinistra DC (consumando così il grande amore incompiuto durante la Prima Repubblica) ne ha ereditato le spoglie dopo che il Pci aveva cercato di salvarsi dal crollo del Muro di Berlino cambiando nome ed identità. Ma il Pd non ha nulla da spartire con lo stile del de cuius. Il 4 marzo i dem hanno più che dimezzato l’esito del voto del 2014 nelle elezioni per il Parlamento europeo. Si dirà – con qualche ragione – che quello fu un voto dopato (gli italiani ‘’si vendettero’’ per un bonus di 80 euro al mese?). Anche prendendo a riferimento il risultato delle elezioni politiche del 2013 risultano pur sempre 7 punti percentuali in meno, a conclusione di un ciclo di sconfitte in tutte le consultazioni parziali svolte negli ultimi anni.

Ma, nonostante tale sfacelo, nel Pd non succede nulla, ad eccezione di una tregua della rissosità interna che ha portato all’immobilismo. Matteo Renzi, che resta il maggior azionista del partito, si è messo a dirigerlo dai campi di tennis (che sono divenuti la sua Isola di Caprera) e dagli studi televisivi. La scelta di rimanere comunque all’opposizione è stata a compiuta persino a priori (dopo il 4 marzo) anche se non è stato ben chiarito il perché, dal momento che vi fu la tentazione di aprire un confronto con i ‘’grillini’’ che venne bloccata dal giovane caudillo nel salotto di Bruno Vespa (in proposito è corsa la voce che Renzi avesse trattato di nascosto con Gigino Di Maio e che avesse rotto quando gli era stato negato un posto da ministro per Luca Lotti e per Maria Elena Boschi). In sostanza, i dem, fino ad ora, non hanno trovato il tempo ed il modo di interrogarsi sulle ragioni di una serie di clamorose sconfitte. E non hanno nemmeno deciso che cosa fare (eleggere un segretario con pieni poteri? Insistere nella pagliacciata delle primarie? Andare e quando a Congresso?).

La situazione è allarmante: quando la resistibile ascesa della coalizione giallo-verde sembrava essersi arrestata sulla soglia del Quirinale (e sul nome di Paolo Savona) è esploso il terrore delle opposizioni (dem compresi) di dover affrontare una nuova consultazione elettorale, entro un arco temporale brevissimo. Un piccolo segnale di permanenza in vita il Pd lo ha dato nelle poche ore in cui si è trattato di solidarizzare con Sergio Mattarella incautamente minacciato di impeachment. Poi ha sprecato l’occasione per stigmatizzare la figuraccia di Matteo Salvini, sul piano internazionale, nella gestione del caso Aquarius, dando così modo al ministro degli Interni di trasformare un atto vile e propagandistico in un imprevisto successo politico il giorno stesso delle elezioni amministrative parziali.  Ma come ha scritto Tommaso Nannicini sul Foglio, non basta la difesa dell’articolo 92 Cost. per mettere insieme una linea politica alternativa. Secondo il giovane economista che tanto ha contribuito alle migliori iniziative assunte dal governo Renzi, ‘’di fronte alla gravità della crisi politica, è giusta la chiamata alle armi (metaforiche) di chi vuole salvare il paese dall’avventurismo sfascista di Lega e 5 stelle. Ma non servono girotondi. Serve buona politica. Azione, non agitazionismo’’. Cominciando a domandarsi perché il Paese è finito in questo cul de sac.

Chi scrive è consapevole della presenza di un fenomeno complesso che non riguarda solo l’Italia: in Europa i partiti socialisti sono stati ridotti ai minimi termini ovunque; quelli che difendono tuttora con un po’ di dignità il loro elettorato (si veda il caso del Labour) sono confluiti su posizioni radicali – sempre più simili a quelle dei movimenti populisti – condannandosi ad incamminarsi sulla strada del Venezuela piuttosto che su quella indicata dalla Germania. Ma è troppo comodo evocare ‘’corsi e ricorsi’’ della storia dell’umanità per spiegare il caso italiano. Infatti, sono convinto che il Pd di Matteo Renzi abbia commesso in proprio degli errori risultati fatali. Il più esiziale è stato quello di gettare abbondante pastura negli acquitrini maleodoranti in cui sguazzavano i coccodrilli dell’antipolitica, dell’euroscetticismo, del sovranismo e di quant’altro di pernicioso stava crescendo nei bassifondi di una società di sobillati da media sfascisti: ciò allo scopo di rabbonirli, mentre invece, essendo nutriti, diventavano sempre più grandi e feroci.

Da premier, Renzi ha agito in Europa come un ragazzino impertinente, inventandosi – lui che al massimo aveva amministrato una città di medie dimensioni – l’epiteto di ‘’burocrati’’ rivolto ai vertici dell’Unione, generalmente dotati di lunghe esperienze governative alle spalle. È stato l’ex premier ad iniziare la polemica contro l’austerità (che da noi non è mai stata applicata almeno nella XVII Legislatura), a proferire minacce e ritorsioni assurde, ad umiliare l’establishment europeo con nomine discutibili a posti di alta responsabilità, a sprecare in mance elettorali l’ammontare di risorse che l’Unione aveva riconosciuto all’Italia per fare fronte alle tragiche conseguenze del terremoto e come risarcimento dell’essere in prima linea nell’accoglienza dei profughi. Con Renzi l’Italia aveva perso influenza in Europa, per fortuna in parte recuperata da Paolo Gentiloni, quando ormai era troppo tardi per correggere i guasti che quell’atteggiamento da Pierino dell’ex premier aveva provocato sul piano interno.

Si arrivò al punto che, mentre Macron faceva campagna elettorale chiedendo ai militanti di presentarsi alle manifestazioni portando con sé la bandiera stellata, il presidente del Consiglio in carica in Italia si era mostrato sugli schermi televisivi senza esporre quel vessillo alle sue spalle. Si è determinata, così, una sciagurata contraddizione: mentre l’Europa e l’euro sono state le questioni al centro delle competizioni elettorali negli altri Paesi, da noi si è consentito alle forze sovranpopuliste – ammaestrate dalle sconfitte dei loro sodali in Olanda, Francia e Germania – di mettere la sordina alle posizioni più radicali. Il Pd, dal canto suo, ha scoperto una vocazione europeista tardiva ma inutile, perché gli avversari avevano portato la sfida sul piano interno, attaccando soprattutto le riforme attuate dai governi della XVII Legislatura, a proposito delle quali resto dell’opinione che molte iniziative sul piano del lavoro (nel fare) e delle pensioni (nel non fare) abbiano rappresentato un importante contributo alla modernizzazione del Paese.

Ma la Caporetto di Matteo Renzi si è verificata nella sonora bocciatura della riforma costituzionale. Per lui è stato come il volo di Icaro che, avvicinatosi troppo al sole, ha visto sciogliersi le ali di cera confezionate dal padre (nel nostro caso Giorgio Napolitano). Ci sono ancora tanti in Italia che rimpiangono l’esito negativo di quel voto. Io suggerirei loro di compiere un piccolo sforzo di fantasia per portare, con un immaginario pantografo, l’attuale quadro politico all’interno del disegno istituzionale prefigurato dalla legge Boschi: le forze populiste godrebbero, oggi, di poteri ancora più ampi per ridisegnare l’organigramma delle istituzioni. Quella sconfitta Renzi se la era cercata dopo aver rotto il Patto del Nazareno (con l’imposizione non negoziata della candidatura al Quirinale di Sergio Mattarella) ed essere andato da solo e con eccessiva sicumera alla sfida del 4 dicembre. 

Ma c’è di più. Quando la coalizione giallo-verde comincerà ad attuare il  programma, per i dem sarà difficile fare opposizione nel merito dei provvedimenti adottati. Il Pd si troverà in serio imbarazzo davanti alla manomissione della riforma Fornero, alla istituzione del reddito di cittadinanza e a quant’altro di fantasioso sta scritto nel contratto.  Per dovere di obbiettività devo ammettere che neppure per Forza Italia sarà facile contrastare iniziative da ‘’killing me softly’’ per questo povero Paese. Val la pena di ricordare quanto scrisse Winston Churchill nella sua storia della Seconda guerra mondiale dopo il crollo della Francia nell’estate del 1940: ‘’Anche se la Gran Bretagna non era affetta da debolezza morale alcuna, come avrebbe potuto aver ragione della sorte nemica? Le nostre truppe metropolitane erano notoriamente quasi disarmate, meno che di fucili. C’erano infatti cinquecento cannoni al massimo di fanteria e forse duecento carri armati, tra medi e pesanti, in tutto il Paese (….) C’era da stupirsi che nel mondo si fosse convinti che la nostra ultima ora era suonata?’’. Da noi, purtroppo, è venuta meno anche la forza morale.

Giuliano Cazzola

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