È veramente possibile offrire un welfare pensato su misura dei bisogni del singolo, mantenendo al contempo quell’impronta di universalità che ha contraddistinto il nostro sistema di protezione sociale? E ancora: come declinare oggi questa universalità, consapevoli del fatto che il pubblico da solo non può e non potrà sostenere da solo l’intero peso del welfare, senza un’adeguata interazione con il privato? Sono questi i temi emersi nel corso del convegno “A ciascuno il suo welfare”, organizzato da Unipol e Welfare Italia martedì 5 dicembre a Roma.
Interrogativi che trovano un certa urgenza nello scenario socio-economico che sta vivendo il nostro paese. I dati forniti nel corso del convegno da Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, restituiscono un’immagine della piramide demografica che si sta avvicinando verso un pericoloso rovesciamento, a causa di un ribaltamento nel rapporto tra popolazione giovane e anziana. Per la prima volta in Italia la percentuale di chi ha tra gli 0 e i 14 anni e’ ferma al 13%, mentre quella degli over 65 ha superato il 22%. Questo comporta la necessità di una prospettiva capace di mettere in campo soluzioni adeguate per affrontare le problematiche legate alla terza età, che richiedono risorse costanti da investire nei servizi di cura e assistenza. Ma la capacità di mantenere in un buon stato di salute il nostro welfare vuol dire creare anche una forte coesione sociale. Le famiglie a basso reddito, gli anziani, i giovani disoccupati, sono le fasce nelle quali si riscontra, più che in altre, l’impossibilità di accedere a determinati tipi di cura, o la rinuncia alla prevenzione. Ecco perché, e’ la tesi sostenuta al convegno romano, la riscoperta di welfare del territorio mutualistico può costituire una valida risposta a questi bisogni, mitigando le disparità sociali.
Altro aspetto che Alleva ha evidenziato è la profonda disparità territoriale. Dovremmo parlare non di un solo sevizio sanitario ma di più sistemi, dovuti alla capacità di spesa degli enti locali e alla diversificazione nell’offerta dei servizi. Se il Nord fa registrare le performance migliori, con la provincia di Bolzano che spicca per le risorse investite e la ricchezza delle prestazioni di welfare, il Sud, salvo alcune eccezioni, si conferma la maglia nera, con più dell’80% dei comuni calabresi che spendono poco e mettono a disposizione dei cittadino una rosa limitatissima di servizi. In questo scenario eterogeneo, Alleva ha ricordato come la spesa sociale del nostro paese sia pari al 28%, in linea con la media europea, se non addirittura superiore ad alcuni paesi, distribuita prevalentemente tra la previdenza (17%) – che comprende anche le risorse riservate all’assistenza – e la sanità (6,7%). Permane dunque un deficit nella capacità di efficientare le risorse pubbliche e spostarle verso quelle aree lasciate ancora scoperte, innescando anche un percorso virtuoso tra primo e secondo welfare, sia sul versante degli investimenti sia su quello delle competenze.
La white economy, così come la silver economy – che comprendono tutti quegli investimenti destinati alla cura della persona e agli over 65 – non possono più essere pensati, ha sottolineato Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia e Finanze, come un elemento residuale della nostra economia, capaci non solo di spostare ingenti somme di denaro, ma anche un know-how che può innescare processi di innovazione nell’area del welfare. “Non si può più pensare – ha sottolineato Baretta- che l’universalità del welfare sia una prerogativa unica dello stato, ma oggi è un onere del quale anche il privato dei farsi carico”. C’è dunque bisogno, prima di tutto, di un cambiamento culturale. Il secondo passo è ripensare il ruolo dello stato. Non più come unico finanziatore della spesa sociale, ma come garante della qualità e di quell’equità che anche il privato deve sapere mettere in campo. Se dunque il secondo pilastro del welfare può garantire prestazioni customerizzate, ha spiegato Baretta, il primo le può incastonare in un concerto armonioso di policy pubbliche, che dovrebbero garantire un equo e universale accesso alle prestazioni. Infine, secondo il sottosegretario, lo stato dovrebbe rivedere i propri strumenti fiscali, per ridistribuire più equamente le risorse e finanziare di più e meglio alcune aree del welfare.
Il tema del ruolo dello stato come vigile e garante dell’equità è stato ripreso e ribadito anche da Tito Boeri, presidente dell’Inps, che ha sottolineato l’urgenza di andare a colmare alcune vistose lacune, come il tema dell’autosufficienza, per il quale le risorse spese si attestano al 2%. Accanto a queste azioni, Boeri ha ribadito anche l’importanza di “una piena consapevolezza del cittadino”, indispensabile se si vuole creare un welfare nel quale le persone non sono più semplici fruitori ma anche degli attori. Naturalmente, le politiche pubbliche devono saper armonizzare la azioni e del privato nel welfare supportare la ripresa dell’occupazione, soprattutto quella giovanile. I timori espressi da Boeri sono legati soprattutto all’attuale situazione del mercato del lavoro. L’alto tasso di disoccupazione tra i giovani, carriere sempre più incerte e precarie anche del punto di vista contributivo, l’esodo dei migranti regolari e all’andamento demografico, ha sottolineato, rischiano di ridurre drasticamente il numero dei lavoratori che verseranno i contributi.
Timori manifestati anche da Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, che ha ribadito l’importanza sostenere con forza i positivi segnali di ripresa. Solo in questo modo, secondo Boccia, è possibile immaginare “un sistema di welfare in buona salute e effettivamente capace di tutelare i bisogni dei cittadini”. La crescita economica dunque non deve essere il fine, ma il mezzo attraverso il quale ricercare e accrescere il benessere. In un contesto nel quale il tessuto produttivo si dimostra solido e in buona forma, si può realmente pensare di allargare la platea di coloro che vengono inglobati dal welfare contrattuale. Dunque, affinché il welfare aziendale diventi sempre più universale, il sostegno alla ripresa economica non può venire meno, considerando come questo sempre più strategico nel futuro. L’invecchiamento della popolazione vuol dire anche una forza lavoro sempre più anziana. Accanto a questo, le ultime riforme delle pensioni hanno alzato l’asticella dell’età, trattenendo sul posto di lavoro addetti sempre più in là con l’età. Ecco perché, secondo Carlo Cimbri, CEO Unipol, le aziende stanno sviluppando un’attenzione sempre più crescente verso il welfare aziendale. Dietro questo interesse non ci sono solo strumenti legislativi sempre più incentivanti, ma anche la consapevolezza che le esigenze di una forza lavoro matura richiedono strumenti e investimenti ampi.
Un welfare basato sui bisogni della persona non può in ogni caso prescindere da una sinergia sempre più stretta tra pubblico e privato. In uno scenario di continui cambiamenti e di bisogni mutevoli, l’innovazione, l’applicazione di nuove tecnologie e il possesso delle informazioni posso dare un contributo notevole per governare questi processi. L’invecchiamento demografico, le sfide della non autosufficienza richiedono risposte non solo quantitativamente sufficienti, ma anche e soprattutto qualitative. Francesca Colombo, responsabile divisione sanità dell’Ocse, ha evidenziato la scarsa elaborazione e uso dei dati da parte di molti sistemi sanitari, tra i quali anche quello italiano. Nell’epoca dei big data, ha detto, il sistema sanitario costituisce un enorme contenitore di informazioni, che possono essere adoperate per migliorare la qualità dei servizi erogati. Se dunque la strada da intraprendere è quella di costruire un welfare capace di declinarsi all’interno di situazioni diverse, senza perdere di vista l’equità e l’universalità, “l’uso sapiente- ha sottolineato Colombo – di questi dati può realmente rappresentare una marcia in più per un welfare 4.0, nel quale bisogni del singolo trovano risposta all’interno di un contesto globale”.
Tommaso Nutarelli


























