Una periodizzazione
Come nella maggior parte delle storie, anche in quella delle riforme della pubblica amministrazione dal dopoguerra in poi c’è un’età antica (o forse dovremmo parlare di una preistoria), un’età di mezzo e una storia contemporanea.
Nell’età antica (che corrisponde grosso modo agli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso) la pubblica amministrazione era saldamente soggetta all’imperio della legge, che trovò il suo apice nel testo unico del 10 gennaio 1957 concernente lo “statuto degli impiegati civili dello Stato”. I sindacati, in particolar modo, quelli confederali, erano assai deboli, e la scena era occupata principalmente da una costellazione di sindacati autonomi la cui fondamentale occupazione era quella di intrattenere rapporti di clientela/parentela (per dirla con La Palombara) con i partiti, o le correnti di partito in grado di varare, preferibilmente in prossimità delle cadenze elettorali, leggi o leggine a favore di questa o quella categoria di dipendenti pubblici.
L’età di mezzo non è cominciata per volontà o per principale merito di quelli che avrebbero dovuto esserne i protagonisti. Le lotte sindacali di fine anni sessanta videro gran parte dei dipendenti pubblici nel ruolo di spettatori, ai margini di vicende che ebbero il loro epicentro nella grande industria. Eppure, gli effetti di quei grandi cambiamenti nel mondo del lavoro finirono per contagiare molto rapidamente anche il pubblico impiego, producendo sia un rafforzamento dei sindacati confederali che, di conseguenza, l’introduzione del metodo contrattuale anche in un contesto che l’aveva fino ad allora marginalizzato. Ripercorrere la storia degli albori della contrattualizzazione, lungo il decennio settanta e l’inizio di quello successivo, significa navigare in un mare di eventi assai tempestosi, spesso confusi e contraddittori. Tra rivendicazioni spezzettate, riassetti, conglobamenti, aspirazioni di riforma e rigurgiti di corporativismo, le vicende sindacali degli anni settanta appaiono, a chi le osservi a quasi mezzo secolo di distanza, piuttosto caotiche e prive di un vero filo conduttore, anche, o forse soprattutto, a causa della mancanza di un quadro istituzionale ben definito, mentre accordi sindacali e leggine continuavano a rincorrersi e a sovrapporsi negli anfratti parlamentari e nel continuo susseguirsi di governi che duravano lo spazio di un mattino.
Un primo tentativo di riordino sarebbe arrivato, come è noto, verso la metà degli anni ottanta, con la legge 29 marzo 1983 n.29, meglio nota come “legge quadro” sul pubblico impiego: ma sarebbe stato necessario aspettare l’inizio degli anni novanta perché l’assetto del lavoro pubblico cominciasse ad assumere una fisionomia stabilmente riconoscibile.
L’occasione non fu in realtà di quelle che il sindacato italiano ricorda probabilmente con particolare piacere. Sul finire degli anni ottanta le vicende sindacali del pubblico impiego furono infatti caratterizzate non soltanto da scioperi selvaggi e da forti spinte salariali, ma anche dal vano tentativo del sindacalismo confederale di governarle e dirigerle verso approdi ragionevoli, mentre nuovi sindacati corporativi nascevano e si aggiungevano a quelli storici. Il tentativo di governare la conflittualità sarebbe sfociato nella legge 146 del 12 giugno 1990. Gli effetti delle spinte salariali avrebbero avuto invece la sorte di infilarsi dentro la prima grande crisi della finanza pubblica e il collasso del sistema politico della prima repubblica. Ce n’era abbastanza per colpevolizzare i pubblici dipendenti e i loro sindacati, e per tirare le briglie alla dinamica (non soltanto) retributiva. Del resto la parola d’ordine della “privatizzazione” del lavoro pubblico era fatta apposta per cercar di placare gli appetiti voraci della speculazione internazionale, ma anche sufficiente per spaventare non poco i lavoratori della pubblica amministrazione. In realtà, l’impeto riformatore del governo che si poneva nello snodo drammatico tra la fine di un assetto politico e l’aprirsi di uno nuovo, ebbe la ventura di trovare un interlocutore proprio nel sindacalismo confederale che non aveva perso tempo a prendere atto della crisi degli ultimi anni ottanta, a fare le opportune autocritiche (restano agli atti, tra le altre, alcune durissime annotazioni di Bruno Trentin) e a prepararsi a collaborare nella costruzione del nuovo ordine. Così che il d.lgs 29 del 3 febbraio 1993 poteva corrispondere, anche se in maniera ancora parziale, ai progetti e alle idee di una “privatizzazione” che era in realtà l’apertura di una pagina nuova nella quale le regole della contrattazione collettiva che proprio allora si stavano costruendo nel “privato” acquisivano diritto di cittadinanza anche nella regolazione dei rapporti di lavoro della pubblica amministrazione. (Fine prima puntata/segue)
Mario Ricciardi
Il saggio è stato pubblicato in Istituto di studi sindacali Italo Viglianesi, La nostra storia studiata, Arcadia edizioni, Roma 2020
Bibliografia essenziale
- Foccillo, Il rapporto di lavoro pubblico attraverso i contratti, ed Giappichelli, Torino, 2009
- Lavoro pubblico, fuori dal tunnel? A cura di Carlo dell’Aringa e Giuseppe Della Rocca, ed Arel, Roma, 2017
- La riforma dell’impiego nelle pubbliche amministrazioni, a cura di Silvia Borrelli e Marco Magri, ed Jovene, Napoli, 2011
- Normativa attuale e rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, a cura di Lorenzo Zoppoli, ed Angeli, Milano, 1996.
- Nuove regole per la rappresentanza sindacale, a cura di A.Andreoni, ediesse, Roma, 2010
- Riforma del lavoro pubblico e riforma della pubblica amministrazione, a cura di Massimo D’Antona, Paolo Matteini e Valerio Talamo, ed, Giuffrè, Milano, 2001
- Ripensare il sindacato, a cura di A.Lettieri, ed. Anfeli, Milano, 1989
- Carmine Russo, Il pubblico impiego ieri e domani, ed Lavoro, Roma 1994
- Sindacati e pubblico impiego, Quaderni di rassegna sindacale n. 47/48 1974



























