Pronti, via. Dopo un anno sull’ottovolante di polemiche più o meno strumentali, attese messianiche, scetticismi irriducibili, riconversioni improvvise, il Piano nazionale di ripresa e resilienza – in due parole, i soldi dell’Europa per rilanciare l’Italia – è qui: c’è la benedizione di Bruxelles, i primi 25 miliardi di euro sono in viaggio, ne arriveranno altri 200 e rotti. Grosso modo, il piano è quello già immaginato dal precedente governo e non poteva essere altrimenti, dati i paletti posti dalla Commissione Ue sulla prevalenza da assegnare agli investimenti verdi e digitali. Rispetto alle bozze di Conte, c’è una insistenza più decisa sulle riforme – della P.A., della giustizia, degli appalti – che sono, però, anche i capitoli più difficili da realizzare. Ma la differenza più significativa fra il Piano 1 e il Piano 2 è proprio qui, nel cambio di manovratore: tutti assegnano al governo Draghi una capacità di realizzazione superiore a quella del governo Conte. Ora, sta a Draghi e ai suoi ministri dimostrare che quel consenso è fondato.
Bisogna, però, evitare, anzitutto, di assegnare al Pnrr eventuali meriti o demeriti che non gli appartengono. Il Piano, ad esempio, c’entra poco con l’emergenza immediata: l’uscita dell’economia italiana dalla pandemia e il rilancio dei prossimi mesi. La ripresa, infatti, è già in corso, vaccini e contagi permettendo. Le previsioni ufficiali continuano ad anticipare il momento in cui l’economia recupererà il livello pre-pandemia. Ora, la Bce calcola che l’eurozona ci arriverà già in autunno. In attesa che arrivino le statistiche ufficiali, basta solo, probabilmente, affacciarsi alla finestra per apprezzare la ripresa delle attività. O affidarsi a indicatori approssimativi, ma tempestivi che indicano per l’eurozona, ma anche per l’Italia, l’entità della svolta e la differenza con l’effimero rimbalzo della scorsa estate.
Il traffico sui siti dei meeting online è caduto in verticale, mentre gli spostamenti, in auto o in bus, per andare al lavoro sono risaliti – anche qui da noi – al livello più alto dall’inizio della pandemia: rispetto al 2019, in questo giugno, c’è solo un 20 per cento di spostamenti in meno in Italia. Un anno fa eravamo a meno 40 per cento e, nello scorso gennaio, a meno 60 per cento. Ad aprile, Draghi aveva forzato le previsioni, alzando la crescita tendenziale 2021 dal 4,2 al 4,5 per cento, puntando sui primi effetti degli investimenti europei. In realtà, sarà probabilmente il boom del turismo, sia pure solo domestico, che ad aprile sembrava ancora improbabile, a dare carburante alla ripresa. Oggi, un’economia che, nel 2021, tocca un ritmo del 5 per cento non appare impossibile.
Sono ritmi quasi “cinesi” a cui non siamo abituati da decenni, ma non è il caso di farsi trascinare dall’entusiasmo. Si tratta pur sempre di un più 5 per cento per una economia che, l’anno precedente, aveva perso il 9 per cento e tutto, in ogni caso, resta appeso a incognite che con l’economia non hanno a che fare, fra campagne di vaccinazioni e rischio varianti. Tuttavia, la vera scommessa non è la ripresa, inevitabilmente quasi fisiologica, ma cosa accadrà dopo. Al Pnrr spetta pilotare non questa ripresa, ma il compito assai più difficile di far tornare l’Italia su un sentiero di sviluppo durevole.
C’è poco da girare intorno ai dati. In termini di dimensioni dell’economia, Pil pro capite, produttività, tutti gli altri principali paesi europei sono cresciuti, rispetto a trent’anni fa, a due cifre. Noi siamo rimasti fermi. Colpa di un sistema industriale per più di metà frammentato ed obsoleto, di una ossessiva ricerca del contenimento dei costi, piuttosto che della qualità del prodotto o del servizio, di una scarsa attenzione alla qualificazione della forza lavoro. Il Pnrr non scioglie questi nodi. Ma, anche se non fa tutto quello che sarebbe sufficiente, i passi che compie sono necessari. Mancarli significherebbe, come è stato detto molte volte in questi mesi, perdere una occasione irripetibile.
E, qui, il problema cambia sostanzialmente natura. Varare le riforme presuppone un percorso complicato, ma, soprattutto, prolungato, fra passaggi parlamentari, testi definitivi, decreti attuativi. Questo processo scavalca, in particolare, scadenze che con il Piano nazionale di ripresa e resilienza non hanno nulla a che fare. A febbraio, scade il mandato di Mattarella. Lo sostituirà Draghi? Ma senza Draghi al governo ci sono le stesse garanzie di guida delle riforme? Inoltre, Draghi sembra assai più interessato a gestire il paese da Palazzo Chigi, piuttosto che a rappresentarlo dal Quirinale. Ma con quale maggioranza dopo febbraio? E le elezioni? E quale schieramento per Draghi se ci dovesse essere un passaggio elettorale?
Un po’ paradossalmente, il problema, tutto economico, del rilancio del paese si intreccia inestricabilmente con nodi e quesiti declinabili solo in perfetto politichese.
Maurizio Ricci




























