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Home - Rubriche - Poveri e ricchi - La cabala della Nadef

La cabala della Nadef

di Maurizio Ricci
29 Settembre 2021
in Poveri e ricchi, Analisi
Confindustria, molto difficile la crescita programmata a 1,5% nel 2019

Il numero magico della Nota di aggiornamento, con cui il governo ha finalmente dato conto della situazione dell’economia italiana in questo 2021, non è 6 (il tasso di crescita), ma 153,5 (il rapporto del debito pubblico con il Pil). I due numeri sono – naturalmente – strettamente collegati dal punto di vista economico, ma, dal punto di vista politico, è il secondo quello che conta, perché è l’assicurazione sulla crescita futura e contro ogni tentazione di austerità che strangoli proprio la crescita.

L’anno scorso, nella devastazione della pandemia, la montagna del debito pubblico era schizzata fino al 155,6 per cento del Pil e, a forza di incentivi, spese e sussidi per tenere in piedi il paese piegato dal Covid e dalle quarantene, si stimava che sarebbe salito, entro fine anno, al 159,8, una quota record. Invece, il governo ora è sicuro che si fermerà al 153,5 per cento. Una quota sempre mostruosa, a guardarla con gli occhi di ieri e dannatamente gravosa, secondo i parametri dell’economia. Ma, in realtà, dal punto di vista della politica, il livello assoluto conta poco. Ciò che importa è il movimento. E il debito pubblico italiano, annuncia il governo Draghi, nonostante la pandemia, scende. In Europa, tanto basta. E, di conseguenza, anche sui mercati.

Il debito pubblico italiano è, infatti, una sorta di convitato di pietra dell’economia europea, guardato come la zavorra al collo dell’euro e l’abisso potenziale che impedisce una maggiore integrazione economica dell’eurozona, dove in molti temono di essere coinvolti in un collasso della finanza italiana in una tempesta di speculazione. Ma nessuno si aspetta seriamente che, in quest’era di pandemia, il debito italiano possa essere compresso a ritmi accelerati. L’importante è che questo debito appaia sotto controllo e in via, seppur graduale, di ridimensionamento. E questo offre Draghi: un debito che scende anche sotto il livello dell’anno scorso e che, entro un paio d’anni, si ridurrà ancora al 146 per cento, grazie anche ad un costo di interessi assai basso (nei primi sei mesi del 2021, ha detto il ministro del Tesoro, Daniele Franco, il tasso medio non ha superato lo 0,2 per cento). Sono numeri e tendenze che consentiranno al governo italiano di trattare da una posizione di maggior forza la revisione in programma del Patto di stabilità (quello dei tetti del 3 per cento al disavanzo e del 60 per cento del debito rispetto al Pil), lasciando maggior spazio agli investimenti, senza essere per questo accusati di voler coprire una finanza pubblica fuori controllo.

Al contrario, il debito scende, infatti, anche perché lo stesso disavanzo annuale del bilancio viene contenuto. Rispetto alle stime dello scorso aprile, il deficit pubblico sarà di oltre due punti inferiore: marciava verso l’11,8 per cento del Pil, si fermerà quest’anno al 9,4. Una riduzione che dà a Draghi lo spazio politico, nei confronti con l’Europa, di rilanciare sull’anno prossimo: lo sbilancio fra entrate e spese, che nel 2022, sarebbe stato pari al 4,4 per cento del Pil, sarà invece allargato al 5,6 per cento. In soldoni, significano una ventina di miliardi di euro in più da spendere l’anno prossimo, probabilmente per una riforma fiscale più generosa del previsto. Draghi e Franco sono convinti che questo non inciderà sul processo di rientro della finanza pubblica in confini meno emergenziali: il disavanzo 2023 sarebbe al 3,9 per cento del Pil, quello 2024 al 3,3 per cento, a ridosso del mitico tetto del 3 per cento.

Alla base di tutto questo castello di cifre e contenimenti c’è, naturalmente, un tasso di crescita dell’economia, come l’Italia non conosceva da decenni: più ampio il Pil, infatti, meno pesano i rapporti con debito e disavanzo. Il ritmo “cinese” di crescita di quest’anno è, ovviamente, il risultato dell’atteso recupero sul crollo del 2020 dei lockdown. Anzi, neanche il ritmo cinese è sufficiente a recuperare tutto l’8 per cento  svanito nel terribile 2020. Ma il rimbalzo previsto ancora ad aprile era assai più moscio: il 4,2 per cento, che Draghi contava di portare al 4,5 per cento, spingendo sugli investimenti pubblici. Invece, siamo molto oltre: almeno il 6 per cento. E, l’anno prossimo, dovremmo mettere a segno un altro 4,7 per cento.

Non c’è nessun segreto in questi numeri. Sono il risultato diretto delle misure anti-Covid: prima la campagna delle mascherine, poi il successo della campagna di vaccinazione. Sono ripresi i consumi e anche la stagione turistica è andata, probabilmente, al di là delle attese pessimistiche. Ma, per la prima volta dopo molti anni, le leve principali sembrano essere quelle più virtuose: gli investimenti, a cui è affidata la ripresa del futuro, e le esportazioni, che stanno crescendo a ritmi superiori a quelli registrati negli altri paesi europei.

Durerà? Il rimbalzo più vigoroso del previsto non deve nascondere la fragilità delle strutture economiche italiane. A guidarlo è quella metà o poco meno dell’industria e dell’economia, in linea, per produttività ed efficienza, con gli standard della concorrenza internazionale. La sua reattività è incoraggiante, ma nulla ci dice della capacità di reazione dell’altro pezzo dell’economia. In larga misura, è una risposta che avremo già nelle prossime settimane, ora che scade il blocco dei licenziamenti nel tessile e nelle piccole e medie industrie. A luglio, questo test sembra essere stato superato senza scossoni nella grande industria: in quel mese, l’occupazione è finanche aumentata, se non si considerano gli autonomi. Ora vedremo cosa succederà con la parte più debole del sistema delle imprese. Soprattutto, vedremo se la tenuta dell’occupazione è effimera o è parte integrante del mix della ripresa. Finora, la nuova occupazione appare – se possibile – più precaria di quella pre-Covid. In primavera, rispetto al primo trimestre 2021, sono stati creati 338 mila nuovi posti di lavoro. Ma, di questi, 226 mila sono a termine. Si tratta di capire se è una giustificata cautela delle aziende, dopo una crisi pesantissima, o è la riproposizione di un modello di utilizzo della forza lavoro che privilegia il contenimento dei costi sulla produttività.

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

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