In questa intervista al Diario del lavoro il segretario confederale della Cgil, Christian Ferrari analizza la visione che il governo Meloni ha della scuola e del mondo dell’istruzione, facendo il punto anche su quali politiche per scuola e università debbano essere adottate con maggior urgenza.
Segretario Ferrari la Cgil ha criticato fin dall’inizio la scelta del governo di cambiare nome al ministero dell’Istruzione, perché?
Il nuovo corso di questo governo rischia di far compiere enormi passi indietro alla scuola pubblica. Hanno cominciato cambiando il nome del ministero, che adesso si chiama dell’Istruzione e del Merito. Non è una questione nominalistica, il problema è di sostanza. Sembra che per il ministro Valditara la scuola non sia il più potente fattore di inclusione sociale e democratica, il luogo in cui tirare fuori il meglio da qualsiasi bambino e da qualsiasi studente, ma la palestra dove mettere in competizione le ragazze e i ragazzi tra loro, dove selezionare solo i migliori e lasciare indietro tutti gli altri.
Venendo alla lettera che il ministro ha inviato alle famiglie sulla scelta degli studi per i figli, che cosa c’è di sbagliato?
C’è, innanzitutto, un problema di metodo. Le scuole sono impegnate da sempre nell’attività di orientamento, che rientra nella loro competenza e responsabilità. Il ministero dovrebbe governare il sistema, metterlo nelle condizioni di svolgere nel migliore dei modi il proprio compito, anche in questa materia. Si sceglie, invece, di scavalcarlo e di contattare personalmente le famiglie, sottovalutando quanto sia decisiva la conoscenza delle studentesse e degli studenti maturata in anni di insegnamento e di rapporto umano. Venendo invece al merito, il messaggio sembra chiaro ed è quello di dissuadere le ragazze e i ragazzi dagli studi universitari. Il ministro non dice alle famiglie: “fate studiare il più possibile i vostri figli, che lo stato c’è e vi sostiene”, bensì “studiate quanto basta al mercato”. Qualcuno ha giustamente parlato di concezione dell’orientamento come “ufficio di collocamento” che guarda all’offerta contingente di lavori disponibili sul territorio, che sono poveri e precari per giovani con un’istruzione povera e precaria.
Il nostro paese è anche fanalino di coda in Europa per numero di laureati.
In Italia appena il 20% di chi ha tra 25-64 anni risulta aver conseguito un titolo terziario, contro il 32,5% della Ue, e questo è anche controproducente anche per il tessuto produttivo. Che l’Italia possa affrontare e vincere due sfide cruciali come la transizione digitale e la conversione ecologica puntando su meno e non su più istruzione è un’illusione che può nutrire qualche azienda in cerca di facile profitto, non certo chi ha alte responsabilità di governo in un settore così delicato. Non si può piegare la scuola a palestra di competizione o a istituto di formazione aziendale. La scuola deve, prima di tutto, formare cittadini liberi, consapevoli e con un pensiero critico e autonomo, non forza lavoro da mettere a disposizione del mercato.
Quali sono gli aspetti che ritiene più problematici di questa impostazione?
Questa impostazione non fa i conti con la situazione di emergenza costante in cui vivono i giovani in Italia da oltre un decennio. E non è assolutamente in grado di affrontarla. Siamo il Paese con il più alto numero di giovani che non lavorano, né studiano, i cosiddetti NEET, circa il 23% di chi ha tra i 15 e i 24 anni. Un dato in crescita. L’incidenza dei NEET raddoppia nelle aree del Sud rispetto al Nord. Continuano fenomeni allarmanti come la cosiddetta fuga dei cervelli, lo spopolamento di intere aree per effetto della migrazione giovanile soprattutto all’estero. In oltre 10 anni i giovani italiani di 25-34 anni che hanno lasciato l’Italia sono 259mila, di cui circa il 36% con la sola licenza media e quasi il 30% laureati. Abbiamo un elevato tasso di dispersione scolastica, oggi al 12,7%. In 10 anni l’occupazione giovanile già bassa si è dimezzata in tutto il Paese. Al Sud, più di quattro giovani su dieci sono disoccupati. Qui non si tratta di premiare i migliori, ma di non continuare a bruciare le aspettative e le speranze di una parte davvero rilevante delle nuove generazioni, senza la quale – semplicemente – il Paese non ha futuro.
Che cosa pensa della decisione del governo in merito al bonus cultura?
Inizialmente hanno sostenuto che andava tolto alle fasce di reddito più alte, perché non ne avevano bisogno. A quanto pare questa affermazione era uno specchietto per le allodole. Alla fine, quei soldi verranno spostati su altri capitoli. E questo dimostra un’allergia di questo esecutivo a tutto ciò che “puzza” di cultura. Si mette in discussione un incentivo ai giovani alla lettura e a frequentare l’arte e, contemporaneamente, si priva un settore tra i più colpiti dalla pandemia di un sostegno rilevante, se non decisivo. Non ci ha mai appassionato la politica dei bonus, ma in questo caso non li si sostituisce con interventi strutturali, piuttosto si decide che il sapere, la conoscenza non sono priorità su cui investire. Sembra tornare in auge un vecchio slogan che con la cultura non si mangia. Un’idea sbagliata, e anche falsa, per un paese con la nostra tradizione e la nostra ricchezza culturale.
Quali sono le politiche più urgenti che andrebbero adottate per scuola e università?
Dobbiamo costruire una scuola moderna di livello europeo, comprendendo fino in fondo che la conoscenza diffusa, dai primi mesi di vita al più alto grado possibile, costituisce il più potente mezzo di emancipazione della persona e di sviluppo delle relazioni sociali. Da ciò deriva la necessità di un maggior investimento pubblico in istruzione, innalzando l’attuale livello di almeno un punto di Pil in scuola, università, ricerca e istituti di alta formazione, al fine di portare il nostro paese in linea con la media di spesa del vecchio continente. Inoltre, è necessario determinare i livelli essenziali delle prestazioni al fine di garantire il diritto sociale all’istruzione in maniera uniforme in tutto il territorio nazionale; rendere gratuiti gli asili nido e obbligatoria la scuola dell’infanzia; estendere il tempo pieno nella scuola primaria e il tempo prolungato nella scuola secondaria; elevare l’obbligo scolastico ed estenderlo da 3 a 18 anni; costituire le classi con non più di 20 alunni e le scuole con non più di 900 alunni; garantire in tutto il Paese lo sviluppo del sistema nazionale universitario, superando l’attuale logica competitiva fra atenei, e sostenere il diritto allo studio con il potenziamento delle borse di studio e con la drastica riduzione delle tasse di frequenza. Naturalmente non si può fare tutto subito, serve una programmazione seria e realistica. E serve utilizzare bene i fondi in arrivo del PNRR sulla dispersione, sulla scuola digitale, sulla creazione di ambienti innovativi di apprendimento, sui laboratori per le professioni digitali. Abbiamo posto il problema dei tempi di realizzazione di tutti questi interventi e sul fatto se le scuole abbiano le giuste indicazioni e il personale che possa farvi fronte.
Cosa va fatto per il personale che lavora nel mondo dell’istruzione?
C’è poi, prima di tutto, il tema del salario. Secondo l’Ocse, la differenza tra gli stipendi dei docenti italiani con quelli del resto d’Europa continua a essere marcata. La media retributiva degli insegnanti della scuola primaria è del 15,7% in meno rispetto agli omologhi europei, cioè 6.286 dollari, quella dei docenti di scuola media di primo grado è del 14% inferiore, mentre il gap per i docenti della scuola superiore è del 12,7%. Occorre rimediare. E poi qualificare, rendere stabile e rinnovare l’organico. Le assunzioni devono andare oltre il turn-over, sono circa 200mila i posti liberi affidati a supplenti, e vanno stabilizzate 80.000 cattedre di sostegno per una reale inclusione degli alunni con disabilità.
Come giudica la manovra in relazione alla scuola e all’università?
Il governo ha programmato un nuovo dimensionamento scolastico, termine burocratico dietro cui si nasconde il taglio di ben 700 unità scolastiche, in totale contraddizione con le esigenze degli studenti, e con lo stesso Piano nazionale di ripresa e resilienza, che investe molte risorse proprio sull’istruzione e sulla formazione. Una riduzione che, proiettata al 2031-2032, significa il passaggio da 8.136 a 6.885 istituti. Una scelta che, ancora una volta, andrà a colpire le regioni e i territori più deboli. Invece di potenziare e sostenere le scuole nelle aree più fragili e complicate, le condannano, lasciandole senza investimenti e con una riduzione delle risorse. Oltretutto, è assolutamente insensata l’idea che, nonostante la crisi demografica in corso, ci debbano ancora essere le classi pollaio. Ma non ci sono solo i tagli diretti ed espliciti, ma anche quelli indiretti che se possibile, risultano ancor più pesanti. Come per la sanità, infatti, anche per l’istruzione basta non fare nulla per ridurre la spesa corrente esattamente della stessa percentuale dell’inflazione, oggi al 12%. Inoltre mentre si programma il definanziamento della scuola pubblica, agli istituti privati – nonostante coprano il 10% dell’offerta formativa – vanno 70 milioni di euro in più a spese della fiscalità generale. Da ultimo, ma non per importanza, zero assoluto sulle risorse del nuovo contratto 2022-2024. Si pensa così di proseguire con l’abitudine di stanziare le risorse a triennio scaduto, sicura modalità per indebolire ulteriormente il potere di acquisto del personale del comparto. Anche per questo, insieme alla Uil ci siamo mobilitati, per cambiare una manovra sbagliata, iniqua e controproducente sulla scuola e su tutto il resto.
Tommaso Nutarelli


























