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Home - Approfondimenti - Interviste - Smart working, Corso (Politecnico di Milano): dopo il “far west” della fase emergenziale serve un modello maturo e non discriminatorio

Smart working, Corso (Politecnico di Milano): dopo il “far west” della fase emergenziale serve un modello maturo e non discriminatorio

di Tommaso Nutarelli
5 Aprile 2024
in Interviste
Smart working, Corso (Politecnico di Milano): dopo il “far west” della fase emergenziale serve un modello maturo e non discriminatorio

MARIANO CORSO PRESIDENTE P41

“Il ritorno all’accordo individuale e alla normativa della legge 81 del 2017 è un passaggio necessario per uscire dallo smart working pandemico verso sistemi maturi, che non vedano lo strumento solo come un privilegio per alcune categorie ma come una leva organizzativa”. È questa la valutazione di Mariano Corso, professore alla Scuola di management del Politecnico di Milano e direttore scientifico dell’Osservatorio sullo smart working. Per Corso il lavoro agile, dopo il picco e il calo fisiologico durante il covid, è destinato a crescere anche se a velocità diverse a seconda della dimensione e della tipologia d’impresa. Una rivoluzione che deve essere seguita da altre, culturale e tecnologica.

 

Professor Corso lo smart working esce dalla fase emergenziale e torna allo status pre pandemico, con la sottoscrizione di accordi individuali come disciplinato dalla legge 81 del 2017. Cosa cambia?

Durante la pandemia è stato necessario far ricorso a un modello semplificato ed emergenziale di smart working. La situazione lo richiedeva. Quindi i lavoratori hanno subito la decisione di operare da remoto, e il lavoro agile si è rivelato uno strumento di protezione e conciliazione per coloro che potevano essere maggiormente esposti al contagio, o perché genitori di figli che non potevano andare a scuola perché chiusa. Questo regime semplificato si è protratto per alcune categorie, appunto i fragili e chi ha figli under 14, ma ora è bene tornare alla normativa della legge 81 che prevede la sottoscrizione di un accordo individuale tra lavoratore e azienda, che può essere rescisso da entrambe le parti.

Perché?

Perché fino a questo momento abbiamo vissuto una fase di entropia, da far west. Ora, invece, le imprese, se vogliono continuare a usare questo modello, sono chiamate a rispettare i dettami della legge 81, che non vuol dire adempiere a un semplice obbligo burocratico, ma elaborare un modello di smart working più strutturato e consapevole, che richiede anche un’evoluzione nella cultura aziendale. Allo stesso tempo lo smart working pensato semplicemente come un diritto per alcune categorie, uno strumento di conciliazione, e non come una leva organizzativa rischiava di trasformarsi in una trappola per i beneficiari.

In che modo?

Ad esempio sulla carriera. Chi in virtù del suo status poteva lavorare da casa era meno coinvolto nelle dinamiche aziendale e meno incentivato e interessato a fare carriera.

E per le donne e i giovani lo smart working è un ostacolo o un aiuto?

Per le donne è un aiuto. Molte hanno rinunciato alla carriera o hanno dovuto scegliere un part time per gestire il carico di cura. Lo smart working dà la possibilità di uscire dal part time e riprendere in mano la propria vita lavorativa. Certo se lo smart working è solo pensato come uno strumento di parità di genere alla fine va contro quello che è il suo scopo, sminuendo il lavoro femminile. Riguardo ai giovani lo smart working può essere un supporto se ben bilanciato con la presenza. Sappiamo che molti aspirerebbero a lavori totalmente da remoto ma, soprattutto quando si è agli inizi, è positiva anche la presenza fisica. È vero che si può apprendere anche da remoto e che in presenza la produttività cala, ma il lavoro in azienda o con il team lascia una ricchezza esperienziale che non deve essere sottovalutata.

Quindi il ritorno all’accordo individuale è positivo perché lo smart working non è unicamente visto come strumento di conciliazione ma leva organizzativa, non crea discriminazioni e deve spingere le aziende a organizzarlo seriamente?

Assolutamente sì.

E ora con il ritorno per legge all’accordo individuale che cosa cambierà in rapporto agli accordi tra aziende e sindacati?

La legge 81 ha visto delle successive modifiche che hanno stabilito che sia una buona prassi che l’accordo individuale faccia riferimento a delle policy sullo smart working stabilite da accordi aziendali o di settore. Solitamente le linee stabilite dagli accordi di settore sono molto generali, quindi è richiesta una messa a terra.

Ma non c’è il rischio che si arrivi a degli accordi individuali peggiorativi o che ci siano solo questi nelle aziende più piccole e meno strutturate?

È possibile che ciò si verifichi. Sugli accordi peggiorativi molto dipende dalla presenza del sindacato e dalla forza che ha per evitare situazioni di questo tipo.

Ci potrebbero essere degli effetti nocivi per l’ambiente se si riduce lo smart working?

Sicuramente maggiori spostamenti verso il posto di lavoro determinano più inquinamento. Abbiamo calcolato che due giorni a settimana di lavoro da remoto evitano l’emissione di 480kg di CO2 all’anno a persona grazie alla diminuzione dei movimenti e il minor uso degli uffici.

Secondo lei la legge 81 necessita di aggiustamenti o no?

È una buona soft law, che ha nella semplificazione il suo merito maggiore. Una cosa rara in un paese che tende all’eccesso legislativo e all’appesantimento normativo. Ovviamente ha bisogno di azioni di supporto, che stanno nella formazione, nel cambio di cultura aziendale e nell’innovazione tecnologica.

Quanto è diffuso lo smart working in Italia?

Secondo i dati dell’Osservatorio il 2023 si è chiuso con 3 milioni e 585mila lavoratori in smart working. Un salto del 600% rispetto alla situazione pre pandemica, quando erano poco più di 570mila. E per il 2024 si stima che gli smart worker in Italia saranno 3,65 milioni.

La sua diffusione è influenzata dalla dimensione aziendale, dal settore e dalle competenze del lavoratore?

Possiamo dire che per le grandi imprese lo smart working ha rappresentato solo uno scalino da superare, mentre per le medie, le piccole e la PA un vero e proprio balzo. Sempre in riferimento al 2023, più di uno smart worker su due lavora nella grande azienda, nello specifico 1,88 milioni. Ed è in queste realtà che la quota è continuata a crescere. C’è stato, inoltre, un lieve aumento nelle Pmi con 570mila lavoratori, il 10% della platea potenziale. Sono invece ancora calati nelle microimprese, 620mila lavoratori, il 9% del totale, e nelle Pubbliche Amministrazioni, 515mila addetti, il 16%. Ancora il 96% delle grandi imprese prevede al suo interno modelli di smart working strutturati, mentre nelle piccole e medie imprese è presente nel 56% di queste e nel 61% degli enti pubblici. E per quanto riguarda i giorni quello che abbiamo visto è la diffusione di modelli sempre più bilanciati, con 2,5 giorni da remoto e 2,5 in presenza. Per quanto riguarda i settori, alcuni hanno mansioni che, al momento, sono meno remotizzabili di altri. Nel digitale e nelle telecomunicazioni la ricerca di specifiche competenze porta le imprese a creare uno smart working a misura del singolo lavoratore. Questo ci dice che gli addetti più qualificati hanno anche maggior potere contrattuale e oggi, rispetto al denaro, chiedono il tempo.

In Italia si può parlare di un lavoro agile totalmente smart?

Non in tutte le realtà è così. Ci sono quei lavoratori veramente smart, con flessibilità oraria, autonomia e organizzazione per obiettivi, e chi, invece, si trova in una situazione di semplice lavoro da remoto, dove c’è una traslazione delle dinamiche del lavoro in presenza nell’ambiente domestico.

E questo cosa comporta?

Che nel primo caso azienda e lavoratori beneficiano entrambi degli aspetti positivi dello smart working, in termini di benessere psico-fisico, aumento della produttività, riduzione dei costi e partecipazione ai valori aziendali. Chi sta nel secondo gruppo, invece, subisce gli effetti di un modello non maturo, con orari rigidi dove, alla fine, aumenta solo lo stress.

Che rapporti hanno avuto la politica e le parti sociali con lo smart working?

Ci sono stati, soprattutto nella passata legislatura, tentativi di una regolamentazione eccessiva dello smart working e prese di posizione frutto più di speculazione politica che di un reale convincimento. Penso che lo smart working debba restare nelle mani di aziende e lavoratori, dei territori e la politica deve restare il più possibile defilata.

In questi anni si è persa un’occasione per innovare l’organizzazione del lavoro attraverso lo smart working?

La pandemia è stata un grande booster e i numeri lo dimostrano. Il lavoro agile si è diffuso, ha innalzato le competenze digitali dei lavoratori e ha reso attrattive aree a rischio abbandono e spopolamento. Certo siamo ancora indietro rispetto agli altri paesi. Dobbiamo transitare da una visione emergenziale a una strutturale dello smart working.

Per il futuro che evoluzione avrà lo smart working?

È una realtà in crescita anche se con velocità diverse. È importante evitare che diventi fonte di privilegio e quindi di discriminazione tra i lavoratori, alimentando così le tensioni sociali. Le aziende più innovative stanno pensando a nuove forme di flessibilità, come la settimana corta, per quelle mansioni che richiedono ancora la presenza fisica. Per il futuro molto dipenderà dalla nostra capacità di superare quelli che sono gli ostacoli tecnologici che limitano la diffusione dello smart working.  È una rivoluzione che deve essere supportata da altre rivoluzioni, tecnologica e culturale.

Tommaso Nutarelli

Tommaso Nutarelli

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Giornalista de Il diario del lavoro.

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