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Home - Approfondimenti - L'Editoriale - I morti sul lavoro e le bende sugli occhi

I morti sul lavoro e le bende sugli occhi

di Nunzia Penelope
1 Luglio 2024
in L'Editoriale
Quanti morti sul lavoro siamo ancora disposti ad accettare?

Chissà se la morte raccapricciante di Satnam Singh potrà essere la goccia che farà traboccare il vaso, spaventosamente colmo, delle morti sul lavoro. Chissà se l’applauso unanime dell’aula di Montecitorio alle parole di Giorgia Meloni, la fermissima (per una volta) condanna della premier, con la scelta della parola ‘’schifoso’’ per definire chi quella morte ha causato, potrà rappresentare la base per una svolta. O almeno di una vera presa di coscienza collettiva (vera, cioè non legata all’emotività del momento) verso quei fenomeni come il caporalato, lo sfruttamento degli immigrati, la strage quotidiana nei campi e nei cantieri, nelle piccolissime aziende famigliari e nei grandi gruppi industriali, di cui portiamo una sorta di vergognoso record.

Piccoli segnali di un risveglio, dopo Latina, si iniziano a intravvedere. Si intravvedono in quell’applauso corale da parte del parlamento, destra e sinistra; nelle condanne unanimi di tutti (tranne forse Salvini, che non a caso faticava ad alzarsi e applaudire, ma nemmeno conta rilevarlo). Nelle tante manifestazioni di protesta che si stanno svolgendo nel Lazio e che continueranno a svolgersi: la prossima, di impronta nazionale, sarà il 6 luglio. Soprattutto, si intravvedono nelle proposte concrete che da varie parti si stanno avanzando, uscendo finalmente dal solito schema: “incidente, morte, invocazione di qualcosa che cambi le cose, fino al prossimo incidente, morte, invocazione, eccetera”. E via cosi, giorno dopo giorno, tre morti dopo tre morti, perché questa è la media nazionale: tre decessi al giorno. E infatti, negli stessi giorni in cui tutta l’Italia manifestava sdegno per il caso Latina, per la morte di Sigh, altre vittime ci sono state.

Dicevamo che arriva qualche segnale di proposte concrete. C’è intanto l’insistente richiesta, avanzata da sinistra e sindacati, di cancellare, o quanto meno modificare profondamente, la Bossi-Fini, causa principale di quella demenziale situazione per cui l’immigrato senza permesso di soggiorno non può essere messo in regola nemmeno dal più coscienzioso dei ‘padroni’. Una sorta di infernale Comma 22 dal quale non si esce. Poi ci sono le leggi che, al contrario, aiuterebbero a sanare le situazioni, ma non sono applicate, o lo sono molto parzialmente, come la 199 sul caporalato del 2016. E ci sono infine anche le bende sugli occhi di troppi, istituzioni comprese, in un quadro confuso che finisce per favorire irregolarità e decessi.

Ci sono poi quei provvedimenti che hanno dimostrato di funzionare benissimo in altri settori, e che potrebbero essere sperimentati anche in agricoltura, come il Durc di congruità del settore edile. Proposta avanzata in questi giorni sia da alcuni sindacati, sia dall’ex ministro Andrea Orlando, cui la normativa si deve. Come funziona il Durc: sulla base di tabelle stabilite dalle parti sociali si definisce quanti lavoratori sono necessari per realizzare un dato tipo di manufatto. In questo modo sono emerse molte risorse per il fisco e si è combattuto il lavoro nero nei cantieri. Se venisse trasferito dai cantieri ai campi (esempio: se produci tot pomodori, non puoi avere meno di tot dipendenti) potrebbe rappresentare uno strumento utile per il contrasto al caporalato, rendendo assai più rischioso l’impiego di mano d’opera clandestina. Il fatto è che, stante la Bossi -Fini, si tornerebbe comunque daccapo: magari si eviterebbe di far lavorare persone non in regola, ma chi non è in regola resterebbe tale. Come già raccontano diversi immigrati della zona di Latina: ‘’nessuna azienda ci fa più lavorare senza documenti’’. Ci sarebbe un’altra strada, quella del permesso di soggiorno concesso a chi denuncia le proprie condizioni di sfruttamento: ma sono ancora pochi a farlo, temendo di perdere tutto. E l’inferno in cui vivono in Italia è spesso ritenuto preferibile all’inferno da cui provengono.

Ma a proposito di bende sugli occhi, vale la pena di ricordare che ne ha bruscamente strappata una nei giorni scorsi la Corte dei conti: denunciando nella sua relazione annuale la stranezza dei bilanci Inail, dove giace un avanzo da oltre un miliardo, mentre gli incidenti e le morti sul lavoro si intensificano. Rilevando la ‘’crescita esponenziale degli incidenti’’, con ‘’un numero di vittime sempre più elevato e con costi sociali ormai fuori controllo’’, il procuratore generale Pio Silvestri ha affermato: “desta perplessità che il bilancio Inail presenti un ingente ed improprio avanzo annuale, spesso superiore al miliardo, che mal si concilia con il perdurante fenomeno infortunistico”. Per questo, secondo la magistratura contabile, è urgente la rivisitazione dei meccanismi di finanziamento della prevenzione, in modo da garantire “il pieno utilizzo delle risorse disponibili,” anche rivedendo le procedure, in modo da ottenere una significativa riduzione dei tempi di erogazione delle risorse stesse (e per una volta non si può certo dire siano poche). In altre parole: certo, i padroni cattivi, certo, le leggi che non aiutano, il caporalato e tutte le altre piaghe che ben conosciamo; ma anche qualche evidente lacuna nell’organizzazione degli Enti che tutto questo dovrebbero controllare e prevenire ha la sua parte di responsabilità, se dobbiamo ogni giorno constatare che la tutela della sicurezza in Italia è così gravemente insufficiente.

Va infine detto che anche l’informazione ha il suo peso nella ‘’presa di coscienza’’: ci sono morti che colpiscono l’opinione pubblica e tengono le prime pagine per giorni, e altre, purtroppo la maggior parte, relegate nei trafiletti di cronaca locale. Ma alla fine, tutte nella stessa orrenda contabilità finiscono. E tutte più o meno rapidamente dimenticate: qualcuno ricorda i sette morti bruciati vivi della Thyssen di Torino, perché l’azienda voleva risparmiare sugli estintori? La registrazione di quelle ultime terrificanti telefonate degli operai che chiedevano aiuto è agghiacciante: forse farla ascoltare a tutti, a reti unificate, scuoterebbe qualcosa.  Era il 2007. Anche allora si disse ‘’mai più’’. E invece.

Nunzia Penelope

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