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Home - Approfondimenti - L'Editoriale - Il sindacato alla sbarra: un processo per amor di polemica

Il sindacato alla sbarra: un processo per amor di polemica

di Massimo Mascini
12 Maggio 2025
in L'Editoriale
Agricoltura, la denuncia dei sindacati: noi discriminati nel comitato di monitoraggio Pac

PIAZZA LIBERTA', MANIFESTAZIONE NAZIONALE CGIL CISL E UIL CONTRO IL SBLOCCO DEI LICENZIAMENTI, MANIFESTANTI, PROTESTA, SINDACATI, LAVORO, OMBRELLI, BANDIERE

È diventato di moda parlare male del sindacato. E addossare alle tre confederazioni la responsabilità di tutte le disfunzioni del sistema. I salari sono bassi? Colpa dei sindacati. Le adesioni diminuiscono? Colpa dei sindacati. I rinnovi contrattuali ritardano? Colpa dei sindacati. Potremmo andare avanti a lungo, le disfunzioni sono tante e trovare un responsabile fa sempre comodo.

La più recente critica rivolta ai sindacati è quella di essere allo stesso tempo uno e trino. Non perché sono tre le confederazioni, ma perché ogni confederazione ha all’interno tre corpi: la struttura confederale, che fa politica, le categorie, che fanno contrattazione, Caf e patronati che erogano servizi. Tre funzioni distinte che, secondo una tesi sostenuta nel saggio di Andrea Garnero e Roberto Mania, “La questione salariale’’, non possono essere gestite assieme, tanto è vero che il sindacato è globalmente in crisi.

L’accusa è severa e per questo vale la pena di guardare un po’ più da vicino questa realtà una e trina. Cominciamo dall’ultima funzione, quella dei servizi fiscali e previdenziali. Patronati e Caf offrono un servizio per tutti i cittadini, iscritti e non, svolgendo un lavoro che lo Stato e gli enti previdenziali non riescono a fare e che di fatto non fanno più perché, appunto, ci sono Caf e patronati. E per questo lo Stato riconosce loro una somma per ogni servizio svolto. Una cifra che forse all’inizio non era irrisoria, ma che poi è stata ampiamente tagliata da diversi governi. I sindacati ci guadagnano, certamente, anche perché i cittadini assistiti entrano in contatto con la macchina sindacale e magari si iscrivono. Ma resta che Caf e patronati svolgono un servizio importante, senza di loro la macchina fiscale e previdenziale si bloccherebbe. E ogni anno gli ispettori del lavoro controllano tutte, proprio tutte le pratiche svolte dagli enti. E non per tutte è previsto un corrispettivo, solo per una su quattro, le altre tre sono espletate per aiutare chi ne ha bisogno. Durante il lock down, oltretutto, Caf e patronati sono sempre rimasti aperti, per garantire supporto ai cittadini.

Sono realtà che funzionano separatamente dalle confederazioni, con personale, sedi e strutture autonome, e dunque è da escludere che il loro lavoro incida sulla vita e la funzionalità delle confederazioni.

C’è poi la seconda funzione, quella svolta dalle federazioni di categoria. Utile, ma spesso, secondo i critici, carente e tardiva. I contratti si rinnovano, si, ma con grandi ritardi e senza aumentare i salari quanto sarebbe necessario. Ma è davvero così? Intanto occorre distinguere i contratti pubblici da quelli privati. I primi sono sempre in ritardo, di anni, e portano pochi soldi nelle tasche dei lavoratori. Ma in questo caso la responsabilità è del governo, che ritarda le trattative e mette in bilancio risorse sempre molto più basse del necessario. Quando scoppiò la grande crisi del 2008, il governo dell’epoca non ebbe esitazioni e bloccò la contrattazione pubblica per ben sette anni. Una perdita secca per i lavoratori, mai più recuperata. L’Aran fa il proprio dovere, contratta al meglio, ma le risorse sono quelle e dalla tenaglia non si esce.

Diverso il racconto per i contratti privati, nei quali occorre però distinguere tra le categorie che vivono una buona congiuntura e quelle che se la passano male. Nel primo caso il sindacato non ha problemi, presenta piattaforme rivendicative adeguate, negozia, spesso in pochissimo tempo, e i salari aumentano quanto necessario per mantenere il loro potere di acquisto. Poi ci sono i settori poveri e qui trovare l’accordo è più difficile, perché mancano le risorse. I sindacati tengono ferma la posizione, non arretrano, ma un’intesa è oggettivamente difficile. Lo stesso avviene in settori che vivono difficoltà transitorie, perché non hanno sufficienti prospettive e certezze di mercato. Che potrebbero venire solo da un’accorta politica industriale, politica che però il governo non predispone, generando così nuova insicurezza e mettendo in crisi tutti: aziende, sindacati, lavoratori.

Il governo, da dieci, venti anni, ma c’è chi dice quaranta, non fa politica industriale: la produttività non aumenta e a cascata tutto degrada. E sempre il governo non si preoccupa di sostenere le trattative contrattuali quando queste languono. Era buona abitudine, un tempo, che una vertenza difficile arrivasse al ministero del Lavoro dove il ministro o i suoi collaboratori cercavano con pazienza di riannodare i fili della trattativa, imponendo alla fine, se necessario, una soluzione. Questa buona abitudine si è persa. E ci lamentiamo che i rinnovi contrattuali arrivino con due anni di ritardo?

E infine ci sono le accuse alle confederazioni di fare politica e di proclamare scioperi inutili ai quali i lavoratori non aderiscono. Anche qui è necessario un po’ di realismo. I sindacati non sono passanti frettolosi, sono rappresentanze al servizio di milioni di lavoratori, iscritti e non. Per questo ritengono di dover trattare con i governi le materie fiscali, quelle previdenziali e, in generale, la politica economica, perché è proprio dalla politica economica di un governo che dipende in gran parte il destino dei lavoratori.

Una trattativa, quella tra governo e sindacati, che c’è sempre stata, con maggiore o minore protagonismo. C’è stata ai tempi della concertazione, poi è subentrata la disintermediazione e più tardi la rinuncia al dialogo sociale che, di fatto, hanno messo in crisi questa realtà. I sindacati non accettano di essere declassati, continuano a chiedere un dialogo in vista di decisioni importanti. È una pretesa assurda, destabilizzante? Qualcuno lo pensa, ma sbaglia, come sbaglia chi accusa le confederazioni di indire scioperi che riscuotono bassissima adesione: i sindacati non possono fare altrimenti, correrebbero il rischio di essere accusati di lassismo. Non abbiamo dimenticato le dure critiche che colpirono Cgil, Cisl e Uil quando reagirono alle prime decisioni, pesantissime, del governo Monti, con uno sciopero generale di “sole 4 ore”.

Questa politica delle confederazioni indebolisce le federazioni di categoria e impedisce loro di svolgere una reale contrattazione? Assolutamente no. Le difficoltà e le debolezze hanno altre cause. E allora forse sarebbe opportuno non continuare a prendersela con Cgil, Cisl e Uil, la cui unica, reale responsabilità è quella di procedere troppo spesso disunite in direzioni diverse. Un sindacato unito è più forte, nessuno può metterlo in dubbio. Tutto il resto è solo amore di polemica.

Massimo Mascini

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