Sono 36 i detenuti che si sono suicidati nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, cui si aggiungono anche due appartenenti all’organico della Polizia penitenziaria. Un bilancio inaccettabile per un Paese civile, che contravviene non solo alle prescrizioni di tutela della vita e della sua dignità, ma anche ai principi costituzionali. Innumerevoli criticità e inconsistenza delle politiche sono alla base di una situazione insostenibile per detenuti e agenti che si ritrovano accomunati in un vero e proprio girone. Ne parla in questa intervista il segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio.
È di questi giorni la notizia del suicidio di un detenuto nel carcere si San Vittore. Lei comunicato ha condannato la vicenda come un calpestamento dello stato di diritto di detenuti. In che modo?
Le carceri sono diffusamente illegali e non rispondono ai presupposti giuridici per il loro mantenimento: non riescono a perseguire nessuna delle funzioni di cui sono mandatarie, men che meno quella prevista dall’Articolo 27 della Costituzione – secondo la quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Qual è l’effettiva situazione nelle carceri?
La situazione disastrata e deriva da anni di malgoverno e pressapochismo da parte delle diverse maggioranze che si sono susseguite e che si è aggravata ulteriormente negli ultimi tre anni dell’attuale esecutivo. Oggi le carceri non rieducano e non evitano la commissione di altri reati – tant’è che il tasso di recidiva è altissimo. Inoltre, le carceri sono teatro di violenze, traffici illeciti, spaccio di sostanze stupefacenti, stupri, omicidi. In pratica piazze delinquenziali ancor più operative di quelle che si trovano all’esterno, non precludendo nemmeno i contatti illeciti con chi detenuto non è.
Lei ha accennato alla recidiva. Proprio la scorsa settimana si è tenuto al Cnel l’incontro “Recidiva Zero”, durante il quale il ministro della Giustizia ha esaltato i risultati del programma.
Al netto dell’impegno del Cnel e dei buoni propositi, il ministro Nordio ha poco di cui fregiarsi. Solo il 5% dei 63mila detenuti presenti espleta una vera e propria attività lavorativa che fa abbassare il tasso di recidiva, nemmeno una goccia nel mare. Senza contare, poi, che ai detenuti interessati non sono nemmeno applicati i contratti collettivi di lavoro, elemento tuttavia rivendicato dal Cnel.
Il sovraffollamento è una delle criticità principali nelle carceri.
Abbiamo 16mila detenuti oltre la capienza prevista, ma non è solo una questione di spazi: in base alla capienza detentiva vengono realizzati tutti i servizi, che quindi sono proporzionati all’utenza prevista – ad esempio la rete fognaria, elettrica, le sale per le attività, le infermerie. A questo, poi, fa da contraltare una penuria negli organici della Polizia penitenziaria di oltre 18mila unità rispetto al fabbisogno. Il personale in forza sconta letteralmente le pene dell’inferno per la sola colpa di essere al servizio dello Stato, subendo una compressione di diritti di rango costituzionale. È una sorta di caporalato di Stato: ci sono agenti tenuti in servizio anche per 26 ore continuative, straordinari non retribuiti o retribuiti meno del dovuto. Tutto questo è disfunzionale e produce anche quei suicidi che, allo stato delle cose, si tramutano in vere e proprie pene di morte.
Tornando ai suicidi, purtroppo si contano vittime anche tra gli operatori e gli agenti di polizia. Come si spiega?
Nella sola Polizia penitenziaria l’anno scorso si sono contati sette suicidi e quest’anno, fino a giugno, altri due. Si cerca di occultare il fenomeno e anche ridimensionarlo: quando si suicida un appartenente alla Polizia penitenziaria – ma anche altri appartenenti alle forze dell’ordine – si attribuisce l’evento a cause esterne a quelle lavorative, come ad esempio una separazione coniugale, problemi finanziari, dipendenze, dimenticando però che questi fattori sono determinati proprio da una tipologia di servizio che è degradata e degradante. Se un poliziotto penitenziario viene impiegato per 26 ore consecutive, come può occuparsi dei propri affetti e del tempo libero? Se non gli si pagano gli straordinari come si può far fronte serenamente al costo della vita? Per questo si tende a occultare il fenomeno. Nel 2019, inoltre, è stato costituito dall’allora capo della polizia Franco Gabrielli un osservatorio interforze sul fenomeno suicidario, di cui poi non si sono perse le tracce.
Ma ci sono delle azioni di contrasto?
Pensano di lavarsi la coscienza con presidi di natura psicologica che affrontano il problema a valle, affiancando gli operatori solo dopo aver manifestato il disagio e non, invece, affrontando il problema a monte per prevenirlo. Il presidio psicologico, piuttosto, dovrebbe essere a corollario di un’attività di prevenzione (che invece non viene fatta) e che passa necessariamente per condizioni lavorative accettabili. Dinanzi alle violenze che accadono in carcere,temiamo vi possa essere una sorta di assuefazione al dolore, un affievolimento della percezione della gravità del gesto estremo come se facesse parte della quotidianità.
Eppure con il Decreto carceri del 2024 e il più recente Decreto sicurezza parrebbero molte le tutele a garanzia degli agenti. Quindi non è così?
Il Decreto carceri non ha prodotto nulla, i detenuti continuano ad aumentare – nei tre anni di questo Governo sono aumentati di 7mila unità e alla media di 300. Inoltre, il Ministro della Giustizia e lo stesso Governo perseguono obiettivi tra loro antitetici. Da un lato dicevano che le nuove procedure avrebbe portato a un deflazionamento della comunità detentiva di circa 20.000 detenuti; dall’altro è stato nominato un commissario straordinario per l’edilizia carceraria per realizzare, entro fine legislatura, 7mila posti aggiuntivi – tra l’altro, molti di questi in container. Ma delle due l’una: se escono 20mila detenuti, non servono posti aggiuntivi. Evidentemente non credono di poter realizzare nessuna delle due misure.
Ma questo doppio binario non potrebbe in realtà rispondere alle misure previste dal Decreto sicurezza che inasprisce anche le pene anche per i reati minori?
L’aumento della carcerizzazione è aggravata dai nuovi reati previsti dal Decreto sicurezza, circostanza che peraltro avevamo già denunciato alla Presidenza del Consiglio nel novembre 2023 in occasione di una riunione con le organizzazioni sindacali del comparto sicurezza: in quella occasione venne annunciato a grandi linee questo decreto e durante l’incontro sostenemmo infatti che la misura avrebbe paradossalmente aggravato le condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria. Questo perché pur contenendo alcune misure condivisibili, si interveniva solo con strumenti repressivi e non per la prevenzione dei reati.
Nel Decreto sicurezza c’è è stato introdotto il reato di rivolta proprio per contenere i danni e, appunto, non risolvere il problema alla base. Qual è la sua posizione?
Ho definito il reato di rivolta un reato impossibile. La rivolta in quanto tale non è definita né in campo penale e né in campo amministrativo; è una ribellione più o meno spontanea all’ordine costituito,e cioè ai principi giuridici che regolano l’ordinato svolgimento della vita democratica. Ma se le carceri non rispettano nessuno dei canoni previsti dalla legge – e lo dimostrano i provvedimenti della Magistratura di sorveglianza che riconoscono rimedi risarcitori ai detenuti per aver patito una carcerazione inumana e degradante -, e quindi manca un ordine, manca anche il presupposto a cui ribellarsi. Ciò dimostra che manca la misura di quello che bisogna fare e di come intervenire.
Secondo lei ci sono altre misure controproducenti e contraddittorie?
Nel 2020 si è introdotto il reato per chi detiene o introduce in carcere strumenti di comunicazione. Dopo questo provvedimento la presenza di telefoni in carcere è decuplicata. Il proibizionismo aumenta il valore del genere sul mercato illegale e il telefono in carcere vale molto di più di quanto valga fuori. Da parte della criminalità organizzata, dunque, vi è tutto l’interesse a inserirsi in questo mercato per alimentare le proprie finanze. Secondo il Rapporto Antigone, poi, ci sarebbero evidenze investigative secondo le quali addirittura la criminalità farebbe appositamente arrestare i parenti per gestire gli spacci interni, così come qualche anno fa era stata promossa un’indagine sulla base del sospetto che ci fossero delle irregolarità nelle procedure concorsuali al fine di agevolare proprio l’assunzione di esponenti della criminalità organizzata.
A questo proposito, sempre nel decreto carceri si parla di nuove assunzioni di agenti di polizia penitenziaria. Di che cifre parliamo?
Per quanto riguarda le assunzioni aggiuntive, dovevano essere complessivamente 1.000, di cui 500 a decorrere dalla fine del 2025 e altre 500 dalla fine del 2026, a fronte della messa in funzione di circa 2.500 posti dententivi aggiuntivi. Rapportando le cifre, è evidente che quelle assunzioni non sarebbero bastate nemmeno a coprire il nuovo carico di lavoro con i posti aggiuntivi. Peraltro con la legge di bilancio per il 2026 è stato previsto il 25% del taglio del turnover: da una parte, quindi, assunzioni aggiuntive, dall’altra riducono le assunzioni che devono sostituire i pensionati.
Un’altra misura, poi, riguarda l’accorciamento del percorso formativo degli agenti per velocizzare l’ingresso in servizio. Non è un po’ pericoloso mandare forze inesperte a gestire questa situazione?
È davvero deleterio ridurre i corsi di formazione a quattro mesi, che si traducono in 60 giorni effettivi di cui molti in DAD. Si sfornano poliziotti in 60 giorni chiavi in mano, dove le chiavi sono quelle della sezione detentiva. In pratica mandiamo personale in servizio allo sbaraglio con tutto ciò che ne deriva in termini sia di mancata sicurezza generale, sia deficit per la sicurezza degli operatori stessi che per quello che riguarda i servizi alla sicurezza degli stessi detenuti. Ma non solo: quando si verificano episodi di agenti cosiddetti infedeli, ultimo dei quali quello accusato di violenza sessuale ai danni di un detenuto minore nel carcere di Nisida, dimostra che il corso di formazione non serve solo a formare l’agente ma anche a conoscerlo. In 60 giorni viene formata gente poi mandata allo sbaraglio, che non conosciamo e non sappiamo come impiegare. Rispetto a due anni e mezzo prima, a gennaio 2025 avevamo 133 agenti in più – perché poi si parla di migliaia di assunzioni ma non viene mai dato conto di quanti cessano dal servizio, che sono sempre di più di quelli che vengono assunti – e 6.000 detenuti in più. Tuttavia questi nuovi assunti non sono stati assegnati alle carceri, che sono sempre più sguarnite, ma a rimpinguare gli uffici dell’Amministrazione penitenziaria e dei servizi extra penitenziari .
A proposito di agenti infedeli, proprio ieri il ministro Salvini ha affermato che è necessario intervenire sul reato di tortura perché la reputazione della Polizia penitenziaria è macchiata da pregiudizio. Le sembra una proposta appropriata?
Il fatto che ci sia un pregiudizio sull’operato della Polizia penitenziaria è vero, ma è anche vero che probabilmente il reato di rivolta è scritto male, nel senso che ci sono delle formule aperte su cui si sta formando la giurisprudenza. Molto spesso gli agenti che vengono inizialmente indagati per tortura non rispondono di tali reati che finiscono per essere derubricati. A questo si può dare una duplice lettura: da un lato si può dire che in assenza di condanna sia tutto a posto, dall’altro ci si chiede perché la formula debba essere talmente aperta da consentire un’accusa così infamante. Stante l’errore, può anche non essersi trattato di tortura – come l’eccesso di legittima difesa o un eccesso di strumenti di correzione. Noi siamo contro qualsiasi tipo di scudo penale, però d’altro canto sembra paradossale dire “è indagato per atto dovuto”, come se non ci fosse una discrezionalità dell’Autorità giudiziaria, ovviamente vincolata dalle evidenze del caso su cui si sta indagando, che può determinare se iscrivere o meno qualcuno nel registro degli indagati. Non significa che il reato vada cancellato – chi commette deve rispondere – ma evitare un’imputazione così grave quando non è necessaria e quando magari si può intervenire con altri strumenti.
Da sempre la destra ha fatto delle misure securitarie la sua bandiera, dimostrandolo anche con l’emanazione di questi decreti che, in quanto tali, sono emergenziali. Stiamo andando nella direzione giusta?
Credo proprio di no. Queste misure sono in gran parte propaganda e non rispondono alle necessità delle forze di Polizia, in particolare gli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria. Inoltre, sono molte le criticità che vengono tralasciate, tra cui anche un problema previdenziale: gli agenti di polizia in pensione percepiscono all’incirca il 50% del loro già misero stipendio dopo aver completato la carriera lavorativa. Non è solo con gli interventi di natura repressiva – come l’aggravante per le aggressioni – che si risolve il problema. Bisogna soprattutto intervenire con atti di prevenzione che passano, tra l’ altri, per la garanzia della copertura degli organici, quantomeno quelli previsti, e degli equipaggiamenti adeguati. L’aggravante per chi aggredisce un poliziotto l’abbiamo rivendicata anche noi, ma a completamento di un intervento complessivo che possa compiutamente tutelare le forze dell’ordine – cosa che invece non si vede. Con la repressione molto spesso si sortisce l’effetto contrario.
Elettra Raffaela Melucci



























