A memoria erano anni che non si parlava così tanto del Ministero della Cultura – e visti i tempi, nel bene o nel male, purché se ne parli. Per fare un paragone ingenuo, nelle stanze di via del Collegio Romano è in acting una delle sceneggiature più avvincenti e articolate che smentisce chi sostiene che le idee siano finite. Niente a che vedere con gli Interni o la Giustizia, blockbusteroni più vicini a Una pallottola spuntata che a Intrigo internazionale. La femme fatale meridionale che seduce il capo e poi lo rovina, le (sotto)segretarie che scalpitano per la scalata dopo quattro anni incollate alla stessa poltrona, il dandy che confabula astrusi sortilegi per confondere la platea e prendere tempo, la potente madame che compra il silenzio della stampa tramite il suo faccendiere. Con il Ministero della Cultura siamo davanti a una sorta di L.A. Confidential abborracciato che sequestra la nostra attenzione. Si chiama guilty pleasure, il piacere colpevole, perché sebbene si stia assistendo allo smontaggio di un Ministero così importate per un paese come l’Italia, la curiosità di sapere fin dove potrebbero spingersi ci morde la coda.
Troppa la carne al fuoco degli ultimi giorni – anche se nulla è comparabile alla prima parte del film con Sangiuliano e M.R.B. (Maria Rosaria Boccia) – ma fortunatamente questo pomeriggio si è tenuto il question time a Montecitorio con il ministro Alessandro Giuli pronto a mettere ordine attraverso le interrogazioni parlamentari. L’aula è pressoché vuota e i presenti sono evidentemente ipotesi. L’ordine del giorno è serrato e scottante. Fabio Rampelli, che preside la seduta, tracima dal suo completo e, forse per la paura che incute, quasi nessuno sfora i tre minuti concessi. Ma al di là del merito, questa seduta è stata un interessantissimo laboratorio di antropologia cognitiva: importanti, dunque, i contenuti, ma ancora più importante la prossemica e le intonazioni.
Inizia Rita Dalla Chiesa di Forza Italia con l’interrogazione sul recupero delle risorse indebitamente erogate nell’ambito del tax credit, focalizzandosi in particolare sul caso degli 860mila euro concessi a Rexal Ford, accusato del duplice omicidio di villa Pamphili, per il suo film mai realizzato, e co-prodotto dall’esecutivo italiano Coevolution, “Stelle della notte”. La spiegazione di Giuli è cristallina ma annoiata – “si tratta di un credito di imposta per l’attrazione di investimenti stranieri in Italia” sul quale le magistrature stanno facendo chiarezza, posto sempre che sia “assolutamente necessario e doveroso che le risorse disponibili siano allocate in modo trasparente e in modo da premiare solo comportamenti virtuosi” -, e per questo parla a una velocità tale da rendere difficile all’uditorio stargli dietro. Anche Dalla Chiesa, nella replica, sembra frastornata, e allora torna a insistere su Rexal Ford come se avesse dimenticato di non essere più a Forum. Siamo appena alla prima interrogazione e Giuli è visibilmente stanco di un sonno postprandiale.
Tocca a Elisabetta Piccolotti di Avs con la domanda sul cambio dei criteri per l’assegnazione delle risorse del Fondo nazionale per lo spettacolo dal vivo che, dal suo punto di vista, spingono sull’abbassamento delle paghe delle maestranze e valorizzano il teatro commerciale escludendo i festival storici. Giuli ovviamente difende i nuovi criteri, muove le mani come se fosse un educatore dell’infanzia somministrando a piccoli bocconi la sua risposta sempre parlando in modalità x2, cantilenando scocciato come quando obbligano a ripetere per l’ennesima volta il codice fiscale. Tra i banchi di Avs c’è smarrimento: forse non stanno capendo o forse sono increduli, fatto sta che, come Dalla Chiesa, calano l’asso per dissimulare: Giuli ha reso il Mic un “ginepraio”, un “verminaio” di “scandali e conflitti”, “non sembra essere il ministro della cultura, ma contro la cultura”. E per oggi Avs ha esaurito il serbatoio.
Anna Iacono del Pd punta sulla riduzione dei finanziamenti a favore degli organismi del cosiddetto ambito Multidisciplinare nel settore dello spettacolo dal vivo: con le nuove prassi si mette al rischio l’esistenza di numerose realtà di grande rilevanza non essendosi le commissioni, nella loro valutazione, basate solo sulla qualità artistica dei progetti. La preoccupazione è per la deriva della cultura, ormai privata di autonomia. Giuli premette: “Accetto tutte le critiche e non vi darò mai dei menzogneri” e riprende la corsa a perdifiato spiegando che l’accesso ai finanziamenti avviene previa valutazione tecnica della Commissione e che queste sono assolutamente indipendenti. Replica Orfini, che denuncia invece l’amichettismo di alcune realtà che hanno avuto accesso al finanziamento e che con l’arte non hanno a che fare. Bisogna “garantire la libertà della cultura, esattamente quello che non è accaduto in questo caso”. E anche Orfini, per oggi, ha fatto il suo senza danni. Peccato.
Il ruolo delle Commissioni ritorna nell’interrogazione di Valentina Grippo di Azione sul declassamento della Fondazione Teatro della Toscana da nazionale a teatro della città. La deputata è la prima a farsi richiamare da Rampelli, però sembra malferma sulle gambe e allora le si condona la logorrea. Stavolta Giuli nemmeno si alza per rispondere, bacchetta gli interroganti di non essere a conoscenza di verbali ormai pubblici. Sembra sempre più stanco, il suo pranzo a base di foglie d’alloro e ambrosia consumato all’ombra di una quercia secolare si sta ripresentando, ma non molla. “Mi vedo ancora una volta costretto a ricordare in questa sede che le commissioni consultive per lo spettacolo dal vivo non subiscono nessuna influenza esterna del proprio operato, ma esprimono le proprie valutazioni tecnico discrezionali in totale autonomia nell’ambito dei dettagliati criteri e parametri di valutazione dei progetti dettati dalla disciplina di settore. Su questo giudizio tecnico si sono sedimentate accuse strumentali che ho rigettato e continuo a rigettare”. E sul declassamento dei contributi a favore della Fondazione Teatro della Toscana: “Se mi viene chiesto un parere personale, non posso che ribadire che il Teatro della Pergola è troppo importante, ma il giudizio delle commissioni è insindacabile da parte del ministro. Che può soltanto auspicare che entro 15 giorni emergano degli elementi tali da rendere reversibile un giudizio sovrano sul quale non posso e non voglio assolutamente influire”.
E qui arriva il meglio di questa avvincente seduta, l’interrogazione di Anna Laura Orrico del Movimento 5 Stelle. L’accusa, inizialmente rivolta a tutto il Governo, è di tenere in stallo le produzioni indipendenti, la lottizzazione del Centro Sperimentale di Cinematografia e (eccoci) del conflitto di interessi di Chiara Sbarigia, presidente dell’APA e fino a qualche giorno fa direttrice di Cinecittà. Secondo notizie stampa, Sbarigia avrebbe elargito fondi pubblici ai giornalisti affinché non criticassero l’amica e collega Lucia Borgonzoni, sottosegretaria leghista alla cultura con delega all’audiovisivo (con la quale ha condiviso anche la ramanzina di Pupi Avanti alla notte dei David di Donatello). Giuli si alza di scatto, l’ambrosia sta facendo effetto e comincia a irridere i deputati stellati (che nemmeno si chiamato più grillini, che fatica): “In merito alle dimissioni di Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà, confermo sia quanto dichiarato via comunicato stampa, sia quanto ribadito a voce anche nella visita agli studi il 30 giugno. Per facilità riporto la mia dichiarazione presente all’interno del comunicato con cui Chiara Sbarigia stessa ha annunciato le proprie dimissioni: ‘Il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, ha ringraziato la presidente Chiara Sbarigia per l’egregio lavoro svolto fin qui e formula le sue migliori auspici per i nuovi progetti che l’attendono’. Successivamente, sempre con la nota stampa, ho rigettato qualsiasi ricostruzione tendenziosa e strumentale che colleghi l’ex presidente Sbarigia a presunti episodi scandalistici riconducibili alla governanti di Cinecittà. Non entro nel merito di un vero o presunto conflitto di interessi, che nessuno ha mai dimostrato, e in ogni caso non compete a me farlo”. Un fiume in piena: è visibilmente nervoso, monta il fastidio per quelle che considera illazioni indebite su fatti mai dimostrati. “Quanto alle affermazioni attribuite a Fabio Longo ‘puoi attaccare il ministro Giuli quanto vuoi, a loro non fotte niente, basta che non tocchi Borgonzoni o Sbarigia’, mi rifiuto di dare credito alle propalazioni di chicchessia e di chiunque altro venga sospettato di agire dietro le quinte, riportando dichiarazioni o azioni riferite come confidenze senza alcun riscontro ulteriore”. Ha detto anche una parolaccia! “Per quanto mi riguarda, fa fede soltanto la dichiarazione del sottosegretario stesso, il quale in data 6 giugno ha affermato: ‘E’ grave e molto offensivo affermare che io acquisti oppure che tenti di acquistare giornalisti per attaccare il mio ministro o chiunque altro e chi lo afferma ne risponderà nelle sedi opportune. Mi preme ribadire nuovamente con nettezza che non esiste nessuna guerra all’interno del Ministero, anche se qualcuno sembra sperarlo in tutti i modi’. Così è anche se non vi pare grazie”. Così è se non vi pare. A questo punto sembrava avessimo raggiunto il climax e invece no, perché interviene Gaetano Amato a rincarare la dose, parlando di prove che potrebbe mostrargli sull’unghia e che lo stesso Ministro non ha smentito a mezzo querela. Giuli accetta il guanto di sfida, picchietta sul banco sibilando un “vieni qua” per visionare le prove e sventola anche il palmo per far avvicinare Amato pronto a un duello celtico in pieno emiciclo.
A questo punto nulla è più credibile e gli interventi di Morese e Mollicone (che parla di rivoluzione copernicana del cinema da parte governo Meloni) attraversano le orecchie di Giuli senza scalfirlo, perché lui è ancora lì a immaginare come conciare per le feste Amato.
I risultati della rivoluzione copernicana sono questi: un colossal di nulla mischiato col niente, dove le posture contano davvero più dei contenuti. Per le opposizioni si è bruciata l’ennesima occasione di tenere banco e mordere i garretti al Governo. Giuli, alla fine, ne esce stanco ma in piedi e trova anche la soddisfazione, off record dal Parlamento, di rifiutare l’invito al Premio Strega perché gli amici della domenica non gli hanno inviato i relativi libri. “È un po’ curioso che uno debba andare alla serata del Premio Strega non avendo ricevuto i libri per cui si organizza. Non sono neanche giurato, non ho più nessun titolo evidentemente”, poi magari quei libri “me li compro per il piacere di leggerli”. Touché.
Elettra Raffaela Melucci



























