Quando l’allora Ministro Fabrizio Barca si inventò la SNAI (La Strategia Nazionale Aree Interne) apparve come una rivoluzione delle politiche territoriali. Non più l’assistenza passiva ai Comuni più interni e isolati degli Appennini ma la loro valorizzazione, a partire dalle diverse specificità territoriali e agroindustriali che hanno. Questo in “cambio” di una partecipazione attiva dei Comuni coinvolti, non più come singoli “questuanti” ma come soggetti attivi e uniti fra loro nelle politiche di valorizzazione. Un principio di metodo per rendere più efficienti le risorse pubbliche nazionali che avrebbe dovuto funzionare anche per la gestione del PNRR, ma non è stato così.
In quegli anni del Governo Monti furono costituite ufficialmente 72 Aree Interne in Italia (dalle Alpi alle piramidi) e si iniziò un percorso di relazione amministrativa diretta tra istituzioni nazionali e locali mai più sperimentato.
Nei governi successivi la SNAI via via si indebolì, sia per la moltiplicazione non coerente delle Aree Interne (oggi più di 120) sia perché si tornò a preferire la distribuzione senza indirizzi e vincoli delle risorse economiche nazionali.
La nascita delle prime Aree Interne portò un cambiamento importante nell’approccio territoriale delle politiche economiche: la necessità di “invertire lo sguardo” e non partire dall’idea che è la crescita delle aree sviluppate a colmare (prima o poi) le diseguaglianze territoriali. E la necessità di valorizzare anche le risorse più “marginali” del Paese per creare valore “autoctono” e non importato. E ridurre le dinamiche di spopolamento cui assistiamo da anni.
Personalmente credo che quella impostazione metodologica valga per tutte le aree in cui si decida di intervenire. Anche per le città medie e le metropoli. Quelli che appaiono quartieri al margine, se non si vuole che aumenti il degrado sociale, vanno valorizzati con investimenti concordati con gli abitanti in una logica di servizi sociali (scuola, sanità, sicurezza, trasporti, spazi di relazione, poste, ecc.) realizzati con un criterio di prossimità. E questa è una rivoluzione delle politiche urbanistiche che spesso confondo la “rigenerazione urbana” con la “riqualificazione” o peggio il “restauro” delle case. Essendo invece la “rigenerazione” soprattutto un nuovo equilibrio tra bisogni dei cittadini e distribuzione omogenea dei servizi pubblici e privati.
Insomma, quella strategia nazionale delle Aree Interne si è prima diluita al punto di tornare ad essere una politica di assistenza. Poi è stata addirittura negata. In un passaggio del nuovo Piano Strategico Nazionale Aree Interne 2021/2027 si legge che alcune di «queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma nemmeno essere abbandonate a se stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento». Cose da non credere! Un governo che rinuncia a innovare e valorizzare le risorse del proprio territorio e getta la spugna.
Non c’è bisogno di dire che stiamo assistendo a una rivolta dei sindaci “abbandonati a sé stessi” e a una rinata attenzione sul patrimonio delle Aree Interne. Ma davvero ci sarebbe da riflettere sulle politiche adottate da questo governo: prive di ogni logica economica e sociale, ancor prima di essere inaccettabili sul piano politico. Basti pensare che di fronte a dinamiche demografiche di invecchiamento e riduzione della popolazione il governo si rifiuta di fare seri percorsi di inclusione e piena cittadinanza per l’unica risorsa in grado di calmierare le tendenze in corso e cioè i flussi di immigrazione.
Nel trasformarsi del sistema economico commerciale europeo (e non solo) è ormai necessario prendere atto che le politiche macro-economiche e monetarie producono crescita delle diseguaglianze economiche, sociali e territoriali che moltiplicano i conflitti invece che ridurli. La globalizzazione pacifica non c’è più, sostituita da una guerra finanziaria (a colpi di nuovi dazi) e in molti luoghi a noi vicini da una guerra militare.
La politica economica dei governi e dell’Unione Europea dovrebbe viceversa essere territoriale (a partire dalle città e dai paesi), in grado di corrispondere ai nuovi bisogni sociali con nuovi servizi. Dove le attività terziarie siano valorizzate, accanto alla più tradizionale (e ormai satura) produzione di beni di consumo.
Ma l’Unione Europea, purtroppo, da gigante economico mondiale non riesce più a uscire dal suo stato di “nano politico”.
Gaetano Sateriale