Con la sentenza n. 24201 del 29 agosto 2025, la Cassazione (Sez. Lavoro) affronta la nullità genetica del patto di prova e ne mette a fuoco l’effetto pratico: se il patto è invalido, il recesso “per mancato superamento” non gode di alcuna libera recedibilità, ma si converte in un licenziamento privo di giustificazione che attiva la tutela reintegratoria, oggi anche nel regime “tutele crescenti” del Jobs Act; il caso nasce dall’assunzione (qualifica di quadro) con recesso datoriale fondato su un patto di prova privo di specificazione delle mansioni: la Corte d’appello di Venezia aveva annullato il licenziamento, ordinato la reintegra e—successivamente, preso atto dell’opzione del 30.9.2022—condannato la società all’indennità sostitutiva ex art. 3, co. 2, d.lgs. 23/2015 (dodici mensilità, nel limite di 90.000 euro).
la Suprema Corte conferma, richiamando il quadro consolidato: (i) la genericità del patto di prova ne determina la nullità e “chiude” la via del recesso ad nutum (niente zona franca nella fase iniziale), perché il rapporto si considera definitivo sin dall’origine e qualsiasi cessazione è sottoposta alle regole della giusta causa/giustificato motivo; (ii) la giurisprudenza di legittimità esige l’indicazione puntuale delle mansioni oggetto di verifica e, in difetto, qualifica il recesso come licenziamento ordinario, sindacabile nel merito (art. 2096 c.c., art. 1419 c.c., L. 604/1966; art. 18 St. lav. nel regime anteriore) ; (iii) soprattutto, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 128/2024—che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, co. 2, d.lgs. 23/2015 nella parte in cui negava la reintegrazione “attenuata” in caso di insussistenza del fatto materiale anche per i licenziamenti economici—va riconosciuta la stessa tutela reintegratoria quando il “fatto” posto a base del recesso è inesistente: e una “prova” nulla equivale, appunto, a fatto mancante (insussistenza del fatto materiale); ne discende che il principio vale per tutti i lavoratori, inclusi quelli assunti dopo il 7 marzo 2015: nel regime del d.lgs. 23/2015, l’ipotesi di patto di prova nullo rientra nell’alveo dell’insussistenza del fatto e comporta la reintegrazione ex art. 3, co. 2 (come costituzionalmente interpretato dalla Consulta), non la sola tutela indennitaria del co. 1 ; nel caso concreto, la Cassazione ribadisce la nullità del patto, conferma l’annullamento del licenziamento e dà continuità alla sequenza reintegra/indennità sostitutiva (per opzione del lavoratore), chiarendo in via generale che l’istituto della prova serve a testare l’idoneità su mansioni determinate, non a sterilizzare le garanzie contro i licenziamenti ingiustificati, e che—dopo Corte cost. 128/2024—il rimedio reintegratorio si applica paritariamente ai rapporti “pre-Fornero” e a quelli “a tutele crescenti” quando il fatto posto a base del recesso non esiste (come nella “prova” inesistente) .
Da questo discende che anche nel regime post-2015 il patto di prova nullo integra insussistenza del fatto e impone la reintegra, uniformando la tutela per tutti i lavoratori.
La Cassazione ha quindi tradotto il dictum della Corte costituzionale in regola operativa: non esiste una “zona franca” nei primi mesi del rapporto, il lavoro è sempre protetto dalla stabilità, principio che affonda le radici negli artt. 4 e 35 Cost.
E qui sta una lezione nascosta: ancora una volta è la Corte costituzionale, più che i referendum sul lavoro che regolarmente si infrangono contro il quorum, a garantire la difesa effettiva di chi lavora.
Biagio Cartillone