Ripartire dal confronto per curare la democrazia. Si sintetizza così l’inteso dibattito che giovedì 4 dicembre lo Spi-Cgil e la Fondazione Nilde Iotti hanno dato vita al Centro Congressi Frentani per mettere a fuoco il grande male di questo contemporaneo: l’astensionismo. Una giornata di riflessione e impegno per riaffermare il valore della partecipazione, dell’uguaglianza e della responsabilità collettiva, calendarizzata simbolicamente all’anniversario della morte della madre costituente per eccellenza Nilde Iotti. Ad animare il dibattito esponenti di spicco del mondo accademico, sindacale e politico, che fuori di astrazione hanno creato sinergie non tanto per provare a dare facili soluzioni a un problema epocale – “una ferita della democrazia”, dirà la segretaria del Pd, Elly Schlein, nel corso del suo intervento -, quanto per fissare i punti di un dibattito solo latente e mai realmente affrontato. In apertura, Valeria Fedeli cita non a caso l’art.48 della Costituzione in cui si prescrive il dovere civico della partecipazione al voto. L’attuale contesto, però, disattende il dettato, suggerendo vistosamente una crisi della democrazia costituzionale che si sta trasmutando in illiberale, osserva la segretaria dello Spi-Cgil, Tania Scacchetti. Certo “manca un’offerta politica, ma non ci si può arrendere a questa situazione”.
Che fare? “Curare la democrazia significa avere coraggio”, ammonisce Livia Turco, presidente della Fondazione e già parlamentare dell’Ulivo, coraggio soprattutto per “ridare dignità e valore alla vita umana in questi tempi terribili”. Il vero problema del nostro tempo è l’assenza di una pratica dialogica – con le persone, con i contesti – che non genera nuovi pensieri e il cui recupero è fondamentale per non rischiare l’irreversibile. Perché quando poi la realtà si mostra in tutta la sua potenza, avverte Francesco Clementi, professore ordinario di diritto pubblico comparato dell’Università La Sapienza di Roma, forse è troppo tardi.
La criticità è pre-politica: dell’astensionismo e dell’agonia della partecipazione sono consapevoli solo una parte della popolazione – sempre la stessa si aggiungerebbe -, mentre gli altri non lo avvertono o semplicemente si schermiscono. Una sterilizzazione delle urgenze di cittadinanza? È qui che va innescato il dialogo. Clementi ricorda che l’etimologia latina di “votare” contiene il sé quel concetto di fiducia che oggi è venuto a mancare. Ma se “il voto è solo l’inizio di una storia, non la fine”, per ridare dignità alla democrazia occorre infondere fiducia nelle persone e ridare loro dignità sociale. Crisi della democrazia, infatti, è crisi dei valori costituzionali, primo tra tutti quello del pluralismo a cui bisogna fare ritorno in società sempre più individualizzate e complesse. Il che non si traduce con più “uguaglianza”, ma con la “pari dignità” invocata all’articolo 3 della Costituzione. È questo il concetto che cura la democrazia, che stimola la partecipazione. “Voto è prendersi cura dell’altro”, senza la paura e la diffidenza di “affidare il futuro a chi il futuro lo vuole”. E se tanto rappresentare quanto governare è sempre più difficile, il vero modo di curare la democrazia è trovare un punto di equilibrio tra questi due macro-concetti.
La questione, ovviamente, non è circoscritta a casa nostra. Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche e responsabile del programma “Attori globali” dell’Istituto Affari Internazionali, tratteggia un quadro della crisi della democrazia statunitense a dieci mesi dall’insediamento di Donald Trump. Nella patria della più grande democrazia occidentale è in corso “una torsione illiberale” (vale la pena riportare il dato Censis secondo cui il 48% degli italiani vorrebbe un ‘uomo forte al potere’ che non si preoccupi di Parlamento o elezioni). Trump ha “catturato” il partito, lo Stato e l’elettorato cavalcando le categorie del declinismo, del nativismo, del nazionalismo cristiano e il perseguimento di politica estera caratterizzata dall’anti-multilateralismo e dall’espansionismo territoriale (la cosiddetta “dottrina Donroe”). Una politica estera estrattiva (protezionismo tariffario e interventismo selettivo: “Per Trump il potere è un esercizio tributario”), che si riflette in una politica interna accentrata sulla presidenza a scapito degli altri poteri e una vistosa delegittimazione dei media, aumento del costo della vita, taglio delle tasse ai ricchi, riduzione delle garanzie di welfare. Ma se la sua fortuna è stata l’aver fidelizzato la base MAGA, questa si è incrinata sul caso Epstein. Basta davvero poco perché la fiducia venga meno e forse anche per riconquistarla.
Le cause della crisi della democrazia non sono solo di ordine pre o socio-politico. In gioco, ovviamente, c’è anche la relazione con il capitalismo – diverso da ieri, ma sempre uguale a sé stesso. Maurizio Franzini, professore emerito di economia politica presso l’Università La Sapienza di Roma, cita un’affermazione emblematica dello stato delle cose pronunciata da un appartenente alla Heritage Foundation: “La democrazia fa male al capitalismo”. Monopoli, asset manager che manipolano i mercati, uso dei dati personali che sono “il nuovo petrolio”. E di conseguenza influenza sulle decisioni elettorali, attività di lobbing, partecipazione dei miliardari alla cosa pubblica (sono l’11% nel mondo). Ma anche un’evoluzione tecnologica non governata, l’ossessione dei rendimenti degli azionisti, collegare la ricchezza esclusivamente al merito. È questa la base della crescita delle diseguaglianze economiche e il modo in cui queste creano interferenze nella democrazia. Se non si mette mano al funzionamento delle economie, dunque, non sarà possibile avere un mondo più democratico. Eppure non bisogna odiare i ricchi, ma capire come è stata generata quella ricchezza. Bisogna cambiare alcune regole del gioco per far sì che la gente torni a partecipare e rinvigorire il rapporto di fiducia.
Farsi dunque carico del fenomeno, insiste Francesca Russo, professoressa ordinaria di storia del pensiero politico e vicepresidente della Fondazione Iotti, partendo dalla comprensione delle cause. La democrazia, sostiene, è stata fraintesa come principio di delega a chi ha più competenze, laddove la nostra è una democrazia partecipativa. Prendendo spunto dal libro Democrazia fascista di Nadia Urbinati e Gabriele Pedullà, in cui si contrappongono i concetti di democrazia a-fascista e antifascista, Russo invita a riflettere sul carattere della democrazia e sul suo legame con l’antifascismo e non con l’a-fascismo, che semplicemente prende le distanze dal fascismo ed è meno radicato nella storia. E di nuovo torna il concetto di merito, che dimostra l’utilità delle differenze di classe che aiutano a scegliere strumentalmente, e più velocemente, chi merita e chi no. “Tornare all’antifascismo radicato nella Costituzione, che la democrazia torni a essere progressista, inclusiva” per un’uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini. “La democrazia nata dalla Costituzione ci obbliga al futuro. Il ritorno ai valori non è un passo indietro. Ma tutti ci dobbiamo mobilitare perché la politica è di tutti e non si esprime solo con il voto”.
Non sono mancati i tentativi di cura dell’astensionismo, come spiega Maria Elena Boschi durante la tavola rotonda pomeridiana: dal Libro Bianco Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto pubblicato durante il governo Draghi, alla recente proposta di legge “Voto dove Vivo”, presentata dalla democratica Marianna Madia e sostanzialmente parcheggiata nel 2023 con la trasformazione in delega al Governo. Recentemente, poi, si è parlato di introdurre l’obbligatorietà del voto. Ma dove sta il problema, a livello tecnico? La presunta nuova legge elettorale sarà d’aiuto? No, sostiene Boschi, “le preferenze non aumentano l’affluenza alle urne e la riforma è sempre espressione di un’esigenza della maggioranza di rafforzarsi”. Posto che l’astensionismo, pur a fasi alterne, va avanti dagli anni Novanta, il problema è l’educazione alla partecipazione: questa è “una responsabilità della politica”, che deve impegnarsi a “eliminare le ingiustizie e accendere la speranza”. Innanzitutto tornando a ragionare sul popolo come soggetto costituzionale, aggiunge Anna Finocchiaro, presidente dell’associazione Italia Decide, che “è scomparso dalla discussione e trasformato piuttosto nel populismo”, che è una sua contraffazione.
Per Elly Schlein, la chiave sta nel nutrire la democrazia delle idee e delle proposte occupandosi della crisi sociale e dell’aumento delle diseguaglianze senza svuoti slogan. Sulla legge elettorale, afferma Schlein, non c’è una vera proposta da parte della maggioranza e quindi nulla di cui discutere – anche perché “resta un tema di opportunismo”. Ma soprattutto l’astensionismo, sostiene, non è legato al meccanismo elettorale e ciò vale anche per il premierato che anzi accentra ulteriormente il potere. Attualmente, “i partiti non seguono l’elettorato nella forma” e questo è un male. “Bisogna rimettere al centro i problemi delle persone per riattirarli al voto”, stare sul territorio mettendosi in ascolto. “Libertà è partecipazione”, continua Schlein citando Giorgio Gaber, ma solo “se si è liberi di partecipare”. Liberi, infatti, lo si è “quando si è slacciati dalla paura del futuro”, soprattutto i giovani e le coppie.
Sorprendente l’intervento finale di Sindi Manushi, trentatreenne prima sindaca di Pieve di Cadore (Belluno) e prima sindaca italo-albanese. Con un entusiasmo che attualmente sembra latitare nella classe politica, Manushi ha insistito proprio sull’importanza del contatto con il territorio, rimarcando il fatto che un amministratore fa sempre politica e da questa non può sganciarsi. Bisogna “uscire dalla retorica” e “lavorare sulle tematiche”, perché “non si sistema tutto con la legge, ma con la cultura politica: è qui che serve un cambio per riportare la gente al voto”.
Elettra Raffaela Melucci


























