Nel secondo semestre di quest’anno il debole slancio dell’economia nazionale si è fermato al palo di un +0,8% del PIL per il 2016, contro il +1,2% delle previsioni del governo. Quasi una doccia fredda rispetto alle aspettative, tuttavia prevedibile nel clima di deflazione che affligge soprattutto l’area dell’Unione Europea. Agli elevati livelli di disoccupazione e al rinvio degli investimenti corrisponde il blocco di una domanda interna che fa arretrare soprattutto l’industria manifatturiera (-0,8%).
In questo contesto la filiera industriale agroalimentare ha mostrato numeri invidiabili, in netta controtendenza rispetto al resto del settore. Negli anni di crisi, ed anche nel 2016, il comparto è cresciuto, soprattutto per effetto delle esportazioni, aumentate a un ritmo medio del 6% annuo. A fine 2015 l’agroalimentare rappresenta il 4,1% del valore aggiunto nazionale ed il 5.6% dell’occupazione, mentre le esportazioni agroalimentari valgono 36,8 miliardi di euro, cui vanno aggiunti altri 10 miliardi di esportazioni di macchinari agricoli e per la trasformazione alimentare. Comparti in cui l’Italia è fra i primi produttori al mondo.
In una certa misura la crisi industriale ha portato alla riscoperta delle radici territoriali dell’alimentazione e di un patrimonio indiscutibile dal lato della qualità, con 278 prodotti certificati, il maggior numero nel mondo, a cui si aggiungono le 4.816 specialità tradizionali regionali. Inoltre in Italia è presente la maggior superficie, fra i paesi europei, dedicata alle coltivazioni biologiche, segmento in ascesa.
Quello dell’agroalimentare è dunque un motore solido, che presenta ancora grandi margini inespressi. Se vogliamo arrivare all’obiettivo dei 50 miliardi di export entro il 2020 occorre un’incisiva “azione di sistema”, per ridurre e superare criticità strutturali. Alcune azioni sono state già avviate, come il piano di internazionalizzazione del Governo che prevede 70 milioni di euro per il settore agroalimentare. Si aggiunge l’iniziativa UniCredit, che ha stanziato una linea di credito di 6 miliardi di euro per il triennio 2016-2018, supportata da iniziative di formazione. Ora occorre accelerare, intervenendo sia sul fronte dei costi (dotazione infrastrutturale per i trasporti, logistica, costi dell’energia) sia favorendo i processi di aggregazione e di “rete” delle piccole imprese. Ma soprattutto valorizzando il lavoro di qualità.
La trasformazione alimentare si articola nel nostro paese in 58 mila aziende che pesano sulla bilancia commerciale circa 135 miliardi, 60 dei quali prodotti dalle prime 500 realtà. Insomma, il panorama è estremamente frammentato, con poche grandi aziende e una costellazione di tante piccole e medie imprese di eccellenza, che danno un contributo economico formidabile nei mercati di fascia alta.
Sono 48 i distretti nella filiera agroalimentare (37 nell’industria alimentare e delle bevande, 11 nel settore agricolo) che rappresentano il 22% degli occupati e il 16% delle imprese del settore. Il valore delle esportazioni dei distretti agroalimentari ha raggiunto i 16,6 miliardi di euro nel 2015, il 45,6% dell’export totale del settore.
I distretti, spesso rappresentativi di eccellenza e tradizione alimentare, dovrebbero diventare il luogo di sperimentazione, creazione di marchi, marketing internazionale, inserimento nelle grandi catene mondiali della distribuzione, innovazione tecnologica, come quella di avanzate soluzioni di piattaforme digitali per il tracciamento e la gestione commerciale dei prodotti. La nuova partita per l’agroalimentare deve poi necessariamente allargare il suo raggio d’azione al Sud, visto che solo cinque regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte e Campania) rappresentano il 74% dell’export complessivo agroalimentare.
Lo sguardo sul futuro che arriva dalla riscoperta filiera agroalimentare, ci riporta a un tema centrale di questa riflessione: la centralità del lavoro e di relazioni industriali partecipative nella sfida della competitività e di uno sviluppo sostenuto e ben distribuito. Capitolo che Fai e Cisl sintetizzano nel motto “contrattare la crescita”, vale a dire riconoscere e valorizzare la leva della libera negoziazione contrattuale nelle dinamiche di sviluppo.
Le imprese che vanno meglio, che producono di più, che vendono all’estero, sono quelle che puntano sulla contrattazione e puntano sul lavoro ben professionalizzato, tutelato, retribuito. Quelle che valorizzano la partecipazione, la bilateralità, la contrattazione di secondo livello. Sono queste le realtà meglio radicate sui nostri territori, più competitive e ben corazzate contro gli appetiti colonizzatori delle grandi multinazionali.
Questo spirito ha animato gli sforzi della Fai Cisl verso l’ultimo rinnovo degli alimentaristi, che coinvolge quasi 500 mila addetti, portando all’economia nazionale non meno di 1,2 miliardi di euro nei prossimi 4 anni. Un testo che in molte parti già assimila la proposta di un nuovo e aggiornato sistema di relazioni industriali secondo il modello partecipativo siglato a gennaio dai tre sindacati confederali.
Oggi come mai, le parti sociali possono e devono diventare vero motore di crescita dei territori e protagoniste di una ripresa che coinvolge tutti: lavoratori, aziende e l’intero sistema paese. Per questa ragione ci siamo battuti e continueremo a batterci per avvicinare la contrattazione al luogo di lavoro, senza per questo perdere il riferimento della contrattazione nazionale. E’ la strada che porta a maggiori tutele per l’occupazione, ad accordi aziendali capaci di contrastare delocalizzazioni, creare maggiore valore aggiunto e ricchezza per le famiglie.
Riscoprire e valorizzare il motore silenzioso della manifattura alimentare significa fare del comparto un elemento cardine della strategia complessiva di rilancio della politica industriale. Le linee metodologiche di questa nuova stagione sono state ben illustrate in un recente convegno Cisl a Milano. La via è quella di un confronto tra sindacato, governo, istituzioni e associazioni datoriali sui nodi del credito, degli investimenti infrastrutturali, della ricerca, dell’innovazione, della produttività. Crediamo si debba dare slancio e prospettiva alle risorse potenziali di una cultura industriale ancora fortemente radicata e diffusa, con segnali chiari di un nuovo progetto nazionale, che coinvolga le imprese, il sistema finanziario, i territori, le Camere di Commercio, le sedi di diffusione della ricerca ed innovazione e la ricca rete associativa, che è un asse portante della nostra economia.
Coinvolgere i lavoratori e le loro rappresentanze nella responsabilità di “fare sistema” è fondamentale in una nuova prospettiva di crescita. I lavoratori rappresentano, con il loro impegno ed intelligenza, la risorsa principale per un cambiamento reale, per migliorare efficienza organizzativa e produttività. Occorre coraggio e lungimiranza per favorire una loro piena partecipazione alle scelte di sistema, a partire da quelle aziendali. La Fai c’è, la Cisl c’è, e sono pronte a impegnare tutte le energie e competenze in una prospettiva di partecipazione diffusa, in grado di attivare speranze ed opportunità per il mondo del lavoro, per i giovani e per tutto il Paese.



























