Sia tra i detrattori più accesi di Sergio Marchionne, che tra i suoi sostenitori più convinti, è diffusa la medesima idea. Ovvero che la cosa veramente importante fatta dall’attuale Ceo di Fca sia quella di aver imposto un nuovo modello alle relazioni industriali nel nostro paese: il cosiddetto modello Marchionne. Solo che, da un lato, i supporters di Marchionne lo hanno in grande stima perché vedono in lui, appunto, l’uomo inviato da un destino benigno nel nostro paese per modernizzare una assetto delle relazioni sindacali che era ormai, allo stesso tempo, ridondante e inefficace. Mentre, dall’altro lato, gli avversari del Ceo dei due mondi gli imputano, in fondo, la stessa cosa: aver consapevolmente mandato in frantumi un sistema particolarmente avanzato delle relazioni fra le parti sociali, togliendo diritti ai lavoratori e minando alla base la stessa capacità delle imprese di darsi una rappresentanza collettiva.
La validità di queste due tesi, opposte ma, in qualche modo, convergenti, è stata ieri sostanzialmente negata da Paolo Rebaudengo, l’uomo che è stato responsabile dei rapporti della Fiat con i sindacati per un periodo non breve e, in particolare, nella fase cruciale che va dall’accordo relativo allo stabilimento auto di Pomigliano d’Arco (giugno 2010), all’accordo per Mirafiori (dicembre dello stesso anno), alla stipula (ancora dicembre 2010) del cosiddetto contratto “specifico” di lavoro, inizialmente concepito per Pomigliano, e poi esteso, a partire dal gennaio 2012, a tutti i siti del gruppo. Un’intesa, quest’ultima, che dava luogo non a un normale accordo di secondo livello, ma a un vero e proprio accordo di primo livello, equivalente a un contratto nazionale di lavoro.
In altre parole, quello che fu esteso a tutto il gruppo nel 2012 era un accordo che implicava la fuoruscita delle relazioni tra la Fiat e i suoi dipendenti dal campo normato dal contratto nazionale dei metalmeccanici, quello firmato da Federmeccanica e Assistal, cioè da due associazioni di categoria aderenti a Confindustria. Ed era quindi coerente con la fine, già avvenuta, del rapporto di associazione tra la Fiat, ormai trasformatasi in Fca, e la stessa Confindustria.
Ebbene, per Rebaudengo alla base di queste successive scelte della Fiat non c’era un’idea programmatica del tipo: “Vogliamo cambiare il modello”. Al contrario, c’era un impulso pragmatico: “Abbiamo un problema e vogliamo risolverlo”.
Questi complessi e travagliati passaggi, poi forieri di significative conseguenze, sono stati oggetto di una riflessione a più voci svoltasi nel pomeriggio del 3 dicembre presso il Dipartimento di scienze sociali ed economiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, in via Salaria. Oggetto dell’incontro, il confronto fra due libri usciti quest’anno: Tremila giorni. Fiat: la metamorfosi e il racconto, di Bruno Vitali, all’epoca dei fatti segretario nazionale e responsabile auto della Fim-Cisl; e Nuove regole in fabbrica. Dal contratto Fiat alle nuove relazioni industriali, del citato Rebaudengo.
Quest’ultimo, ovviamente, non aveva e non ha alcuna intenzione di sminuire la portata di fatti di cui è stato uno degli indiscussi protagonisti, ancorché noto più agli addetti ai lavori che non al grande pubblico. Semmai, Rebaudengo ha voluto rimettere la discussione con i piedi per terra. Perché, come ha anche affermato, “le relazioni industriali non sono fatte di modelli, ma di sostanza”.
Ora qual era, nel caso specifico, la sostanza? A monte di tutto c’era la decisione della Fiat di non chiudere uno stabilimento che era, peraltro, scarico di lavoro, essendosi esaurito il ciclo vitale dei modelli di auto che, fino al 2009, lì venivano assemblati. Per tenere in vita Pomigliano, la Fiat decise quindi di riportare in Italia, dalla Polonia, la produzione della Panda. In cambio, propose un accordo molto stringente, che imponeva orari pesanti rispetto al rapporto fra turni e pause e limitava il campo dell’azione sindacale. Come è noto, Fim, Uilm, Fismic e Ugl accettarono, la Fiom no.
La vicenda si spostò poi a Mirafiori e, infine, come si è appena ricordato, coinvolse l’intero gruppo. Ora il punto vero, secondo Rebaudengo, fu quello costituito “dalla scelta Fiat dell’applicazione dell’ERGO-UAS”, cioè di un particolare metodo di misurazione dei tempi necessari all’esecuzione di una data operazione lavorativa. Metodo la cui introduzione portava al passaggio “dal taylorismo puro”, prima dominante in fabbrica, alla misurazione, assieme alla tempistica, anche “della fatica” connessa a quella stessa operazione.
Una scelta da cui sarebbero derivati, da un lato, a fronte di un lavoro fisicamente meno gravoso, la possibilità di ridurre i tempi di pausa in precedenza definiti. Dall’altro, a fronte di un’organizzazione del lavoro mentalmente più coinvolgente per i singoli operai, il rischio di una crescita dello stress, come pure indicato da una ricerca promossa dalla Fim-Cisl ed evocata nel corso del dibattito.
Dunque par di capire che, nella ricostruzione di Rebaudengo, questa sia stata la sequenza dei fatti: primo, nuova divisione internazionale del lavoro all’interno del gruppo che, da Fiat, si stava trasformando in Fca. Secondo, nuova organizzazione del lavoro in fabbrica. Terzo, nuove relazioni industriali. Quarto, uscita da Confindustria. Una mezza rivoluzione, certo, ma, a parere di chi scrive, non motivata dalla volontà “politica” di cambiare gli assetti delle relazioni sindacali nel nostro paese, né quindi – in particolare – di scontrarsi con la Fiom-Cgilò, ma dall’intento, perseguito con determinazione, di rendere gli stabilimenti italiani più competitivi sul piano globale. Perché, in ultima analisi, il problema di Marchionne era quello di consentire la sopravvivenza di una casa costruttrice di autovetture ed altri veicoli dotata sì di un grande nome, ma anche caratterizzata da proporzioni relativamente ridotte rispetto a quelle di altri grandi competitori, quali Toyota e Volksvagen.
Alla discussione, moderata dal direttore del Diario del lavoro, Massimo Mascini, hanno partecipato, oltre agli autori dei libri citati, e a docenti universitari (il sociologo Fabrizio Battistelli e l’economista del lavoro Leonello Tronti), due dirigenti sindacali, e cioè Marco Bentivogli, attuale segretario generale della Fim-Cisl, che ha sostenuto con vigore la validità delle scelte compiute dalla sua organizzazione, e Fausto Durante, attuale responsabile esteri della Cgil e, nel 2010, leader dell’ala riformista della Fiom favorevole a una firma “tecnica” degli accordi Fiat. Intervento conclusivo di Mimmo Carrieri, docente di sociologia economica alla “Sapienza”.
@Fernando Liuzzi