Altro che todos caballeros. Todos camareros, piuttosto. Smantellato lo Stato sociale, il lavoratore-tipo europeo non è il maghetto del software, ma rischia di essere un cameriere con in tasca la licenza media inferiore e un contratto della durata di sette giorni, revocabile in qualsiasi momento. In alcuni casi, è già così: ad esempio in Spagna. A forza di sentir ripetere da Bruxelles, Francoforte e dintorni il mantra delle riforme strutturali, si finisce per perdere di vista che la maggioranza dei governi europei è di centro destra e che le ricette di politica economica adottate per fronteggiare la crisi sono quelle che i partiti conservatori e le forze della finanza e dell’impresa hanno reclamato per anni. Con quali risultati? Devastanti in Grecia, ma drammatici anche in paesi più solidi e robusti, come la Spagna, dove, pure, le ricette sono state applicate con maggior cautela. Oggi, Madrid esibisce un tasso di sviluppo, previsto al 2,4 per cento per il 2015, che è il più veloce d’Europa, ma che non dovrebbe sorprendere troppo, visto che è un rimbalzo inevitabile dall’abisso in cui l’economia spagnola era caduta negli anni scorsi. Non tutti sono convinti che sia uno sviluppo ben fondato: l’export ha rallentato e, dietro la ripresa, c’è una ripresa dell’edilizia che fa temere un ritorno della speculazione immobiliare. In ogni caso, gli effetti sull’occupazione sono finora modesti: siamo ancora al 23 per cento di disoccupati, nonostante il massiccio esodo dalla forza lavoro che avrebbe dovuto – statisticamente – far scendere il tasso.
Ma queste sono ancora cifre complessive. Man mano che si affinano, invece, i dati consentono di valutare la qualità dello sviluppo spagnolo. E di riflettere sulla domanda: cosa significa la liberalizzazione selvaggia delle regole del lavoro, realizzata in Spagna e lodata a pieni polmoni dalla Ue, dall’Ocse, dal Fondo monetario? La risposta è in un rapporto del ministero del Lavoro di Madrid, appena uscito. Nel primo trimestre del 2015, sono stati creati oltre 4 milioni di posti di lavoro. Di questi, 541 mila sono per braccianti agricoli, 446 mila per camerieri, 265 mila nelle imprese di pulizia, 265 mila per gli operai non qualificati dell’industria manifatturiera, 260 mila nell’edilizia. Questa manovalanza da Terzo mondo (il termine usato dagli spagnoli è “peones”), da sola, rappresenta il 45 per cento dei nuovi posti di lavoro. E tutti i discorsi sulla “nuova economia” e sul fatto che, per sostenersi in futuro, lo sviluppo deve essere all’insegna dell’innovazione, delle competenze, della formazione professionale? Intraducibili in spagnolo. Solo il 13 per cento di chi ha trovato un lavoro fra gennaio e marzo del 2015, in una economia statisticamente in ripresa, ha nel cassetto una laurea o, almeno, qualche anno di università. Un’intera generazione di giovani, che è passata attraverso la scuola superiore e l’università è tuttora a spasso.
Ma è la società che disegna la flessibilità alla spagnola quella che colpisce di più. Un contratto su quattro, in questo primo trimestre, ha una durata assicurata di meno di una settimana. In totale, un milione e mezzo di neoassunti, il 40 per cento del totale, ha trovato lavoro per meno di un mese. Gli altri non stanno necessariamente meglio: un altro 36 per cento ha un contratto a tempo, formalmente, indefinito, ma che l’imprenditore può sciogliere in qualsiasi momento, senza penalità. Il risultato è che i contratti a tempo indeterminato, quelli, per così dire, stabili che, a sentire i guru americani del management, piuttosto che i guru delle riforme a Bruxelles, sono anche gli unici che garantiscono una produttività sostenuta, non sono pochi. Sono praticamente inesistenti: appena il 6,7 per cento del totale. Il resto, in mezzo a quello che il resto d’Europa chiama un boom, vive alla giornata.
Maurizio Ricci



























