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Home - Approfondimenti - Analisi - Il problema di Renzi: tirare dritto o cambiare rotta

Il problema di Renzi: tirare dritto o cambiare rotta

di Sebastiano Fadda
22 Dicembre 2014
in Analisi
Il problema di Renzi: tirare dritto o cambiare rotta

Ci risiamo. Come poco più di un anno fa, di recente Standard & Poor’s esprimeva una valutazione severamente negativa sull’economia italiana, aggiungendo addirittura un – (meno) alla tripla B.  Ancora una volta grande sconcerto tra i politici italiani: come,  anche  S&P si colloca tra i gufi? Perché non si tiene conto dei passi avanti compiuti “sul cammino delle riforme”? Poi però un sospiro di sollievo: non ci sono significative ripercussioni sullo spread e dunque ci si consola: per fortuna, si pensa,  gli operatori finanziari non credono a queste pessimistiche previsioni! Ancora: il governo esulta per il “via libera” della legge finanziaria da parte della Commissione Europea, ma subito dopo giunge la doccia fredda: entro marzo sono dovute manovre di aggiustamento, senza le quali le sanzioni comunitarie saranno inevitabili. Il temuto nulla del semestre di presidenza italiano sembra alla fine aprirsi a un risultato incoraggiante: un piano di investimenti europei  per circa 300 miliardi; ma poi Junker precisa che non c’è “denaro fresco“e che si tratta soltanto di una ventina di miliardi, per poi formulare quella che suona quasi una ironica provocazione: naturalmente se gli Stati, e in particolare l’Italia, vogliono mettere a disposizione risorse finanziarie per costituire un fondo europeo per gli investimenti, sono benvenuti. Nel frattempo, Draghi ipotizza misure non convenzionali per evitare la ripresa della speculazione finanziaria sui paesi deboli e si accinge a imboccare la strada del “quantitative easing”; ma dalla Germania giungono ammonimenti a non favorire comportamenti irresponsabili da parte degli Stati membri (gli altri, naturalmente).

Che cosa sta succedendo dunque? Ragioniamo. L’economia del nostro paese è ferma. Non c’è nessun dato che indichi ripresa. Non nell’occupazione, non nel Pil e neanche nei conti pubblici. Capziosi tentativi sono stati praticati per segnalare incrementi, se pure marginali, del numero degli occupati ignorando che questi numeri sono drogati (in Italia)  dall’esistenza della cassa integrazione. S&P non fa altro che prendere atto di questa situazione e nutre dubbi che il “Jobs act” (pur per altri versi apprezzato) possa avere effetti positivi sull’occupazione nel breve periodo. Ma ciò non dipende certo, come sembra di pensare SP , da rinvio o ritardo dei decreti legislativi. E’ assai probabile che tali decreti siano già scritti, e non siano stati palesati semplicemente per lasciare indeterminati al massimo i contenuti della delega al fine di non creare problemi per l’approvazione e per ottenere un’ampia delega in bianco.

Nonostante ciò, l’approvazione della legge delega da parte del parlamento è avvenuta sotto la spada di Damocle della “questione di fiducia”, in modo da costringere i parlamentari alla “disciplina di partito”; come se questa potesse esimere un parlamentare dalla responsabilità morale di votare a favore di ciò che nello stesso momento dichiara di ritenere ingiusto per il paese. Se questa regola della “disciplina di partito” fosse applicata in maniera rigida, la votazione parlamentare sarebbe superflua; potrebbe benissimo essere sostituita da un  parlamento “virtuale”,  in cui si contabilizzassero le rispettive quote di seggi conquistati e sulla base di esse i rappresentanti (i capigruppo?) verificassero  a tavolino  l’esistenza o meno della maggioranza. In tal modo, il potere esecutivo si approprierebbe totalmente anche del potere legislativo, e il parlamento non sarebbe più la sede dove si discutono e  si plasmano le leggi ma un ufficio in cui, a meno di far crollare l’esecutivo, si ratificano (appunto “d’ufficio”) le leggi da questo confezionate. Si materializza cosi’ quello sterile “noi tireremo diritto” del governo, cui si contrappone  un altrettanto sterile “sappia che lo faremo anche noi” dei sindacati.  “Non ci faremo impressionare, – dice il governo –  a testa alta andiamo avanti nell’unica direzione possibile per salvare l’Italia”. E si potrebbe continuare: “quando mancasse il consenso, c’è la forza. Per tutti i provvedimenti, anche i più duri che il governo prenderà, metteremo i cittadini (e i parlamentari) davanti a questo dilemma: o accettarli per spirito di patriottismo, o subirli”. Un atteggiamento che rivela ignoranza dei principi fondamentali della moderna  governance e anche ignoranza del fatto che le economie che meglio reagiscono agli shock esterni sono quelle che hanno più efficienti meccanismi di creazione di consenso, risoluzione dei conflitti e coesione sociale. I decreti legislativi senza ulteriore passaggio parlamentare verranno presumibilmente promulgati in tempi brevi. Non è tuttavia per la loro assenza che l’Italia stenta a crescere, ma per l’assenza di una svolta radicale nella politica economica: i contenuti del jobs act sono ininfluenti in proposito.

 

Sull’ illusione consolatoria che l’assenza di reazioni significative in termini di spread provi che il giudizio di S&P non appaia credibile agli occhi degli operatori, bisogna esprimere cautela. E’ infatti molto più plausibile che  la speculazione finanziaria non si sia scatenata semplicemente perché la Banca Centrale Europea ha adottato misure e ha fatto annunci di disponibilità ad adottare ulteriori misure di contrasto alla speculazione. Tali comportamenti della BCE, se pure tardivi, sono infatti all’origine della riduzione dello spread pur in assenza di variazioni sostanziali nei “fondamentali”; ma non si può esser sicuri che siano sufficienti a frenare la speculazione anche in futuro.

Allora cosa sta succedendo? Economia ferma, mancato risanamento dei conti pubblici anche a causa della stagnazione economica, a sua volta favorita da maldestre politiche di risanamento. Che fare? Un insistente bla bla bla percorre gli ambienti politici in sede nazionale ed europea: bisogna fare le “riforme”. E’ giusto; ma ciò che bisogna riformare è la politica economica. Dalla riforma (non abolizione) del senato, dalla riforma (non abolizione) delle province, dalla riforma elettorale, dalle  riforme contenute nel Jobs act  non viene alcuno stimolo alla crescita economica: anzi, da queste ultime potrebbe venire un effetto addirittura ritardatore della ripresa, se esse dovessero incidere negativamente su qualche  componente  delle leve necessarie alla ripresa stessa.

Queste leve sono fondamentalmente tre. La prima è l’aumento della domanda aggregata nella componente dei consumi privati interni. Qualche sociologo ha avanzato l’ipotesi che la propensione al risparmio stia aumentando  perché la gente è pessimista sul futuro. Può darsi ci sia anche questo, ma non si può dimenticare che la quota dei risparmi sul reddito aumenta automaticamente in maniera strutturale quando aumenta la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, e ciò sta succedendo in misura accentuata in Italia. Aumento del livello delle retribuzioni e aumento della produttività sono due obiettivi strumentali da perseguire con urgenza per favorire la crescita. Se le misure del job act dovessero agire in senso contrario a questi obiettivi, esse svolgerebbero una funzione di freno anziché di stimolo alla crescita.

 La leva numero due consiste nell’aumento degli investimenti. E’ noto come le variazioni dei consumi siano più lente e meno efficaci della variazione degli investimenti sul piano degli effetti espansivi. Per stimolare gli investimenti privati si è provato di tutto: riduzione dei tassi di interesse, incentivi fiscali, incentivi alle assunzioni, abolizione del famoso articolo 18, ma ci si è dimenticati del fondamentale principio dell’adeguamento dello stock di capitale, che riposa sull’andamento della domanda. Per cui la determinante fondamentale degli investimenti privati resta la leva di cui sopra, ossia la domanda per consumi. D’altro canto, le affermazioni messe in giro dai politici mostrano che per  attrarre gli investimenti privati esteri o non si hanno le idee chiare, o non si hanno le forze per agire nel senso della individuazione e della rimozione dei veri ostacoli. Restano gli investimenti pubblici. E’ qui che dovrebbe concentrarsi la strategia per la ripresa; tenendo ben presenti l’esigenza di un coordinamento a livello nazionale e la necessità di massimizzare gli effetti moltiplicativi sulla base del quadro delle interdipendenze strutturali, dell’articolazione territoriale delle filiere, e di una appropriata strategia sulle prospettive evolutive del sistema produttivo italiano.

La leva numero tre è la finanza pubblica, da riordinare attraverso una revisione del sistema fiscale e della spesa, proprio al fine di reperire le risorse per gli investimenti pubblici e accrescere il reddito disponibile per i consumi.  Su questo si è non solo in ritardo, ma anche incamminati su linee devianti che conducono spesso ad una accentuazione del carattere regressivo (e recessivo) della tassazione, e a una riduzione della spesa pubblica che lascia inalterato il malaffare, taglia i servizi pubblici e in genere lo stato sociale. In questo campo si entra, purtroppo, in linea di collisione con i vincoli europei, a proposito dei quali l’azione del governo italiano sembra aver prodotto (ancora bisogna dire: purtroppo), come si suol dire,  “molto fumo e poco arrosto”.

 Su queste tre leve è necessario che la politica economica del governo “cambi verso”, perché si è perso abbastanza tempo e molto se ne sta ancora perdendo. Su queste sono necessari urgenti atti concreti di grande respiro e non bagatelle di piccolo cabotaggio. Non vorremmo che il governo si illudesse che coloro che non scelgono lo sciopero come metodo di confronto siano meno esigenti nel pretendere una correzione sostanziale e non di facciata della politica economica.

 

Sebastiano Fadda, docente di economia e politica del lavoro a Roma Tre

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