Paolo Pirani, è finita la concertazione?
La concertazione è finita perché gli ultimi governi non l’hanno voluta praticare, ma è finita anche per una ragione strutturale. Essa è stata del tutto funzionale a riportare i parametri nazionali in quelli europei consentendo così l’ingresso dalla prim’ora in Europa e poi la nascita dell’euro. Una funzione virtuosa perché ha consentito il controllo dell’inflazione e dei fattori economici.
Però adesso è finita.
Sì, perché una volta entrati in Europa è venuta meno la flessibilità che era stata praticata sui fattori economici. E con il fiscal compact è venuta meno anche la flessibilità monetaria. Avendo perso la sovranità nazionale su questi parametri, l’unico intervento di flessibilità che si poteva ancora esercitare con la concertazione era quella sul lavoro e sul salario. In questo modo la concertazione ha perso le stesse basi sulle quali si fondava. Non poteva essere altrimenti.
La contrattazione come era evoluta in questi anni della concertazione?
In questi anni la dinamica contrattuale è andata parallelamente indebolendosi, nel livello integrativo e nel rapporto tra salario e produttività. La contrattazione nazionale era imbrigliata dal fatto che la dinamica salariale era fissata dalla politica di anticipo, dai tassi di inflazione programmata, fissati anche dal sindacato attraverso la concertazione. I crescenti bisogni della società venivano affrontati facendo crescere la pressione fiscale. In questo modo l’Italia ha finito per avere le tasse sul lavoro più alte e i salari più bassi d’Europa. Ci siamo trovati con la crescita della flessibilità del lavoro, l’attacco alla contrattazione nazionale, la messa in discussione del sistema di welfare. A questo punto appare evidente che siamo a un giro di boa.
Il sindacato che deve fare?
Sarebbe velleitario rincorrere la concertazione, per il momento non ci sono più le basi per farla rivivere. Il sindacato deve semmai cercare un protagonismo sul piano europeo, dove non ha nulla più di un semplice ufficio di rappresentanza, senza soldi e senza poteri.
Sul piano nazionale?
Deve recuperare identità e valore del lavoro. Deve parlare un linguaggio più diretto alle persone, rappresentando i problemi per come essi sono. Soprattutto deve agire sui luoghi di lavoro, perché si è creata una frattura nel rapporto tra sindacato e lavoratori.
Come si fa a recuperare il rapporto con i lavoratori?
Attenzione, noi ancora conserviamo un’importante rappresentanza del mondo del lavoro, siamo l’organizzazione più radicata nel paese, soprattutto per il legame forte elettivo delle Rsu, dei delegati in tutto il mondo del lavoro. Per questo il lavoro dei delegati va valorizzato di più, perché loro rappresentano la nostra presenza sui luoghi di lavoro.
Deve ripartire la contrattazione?
Con i delegati dobbiamo riprendere la contrattazione sui luoghi di lavoro sull’organizzazione del lavoro e sulle condizioni di lavoro, coinvolgendo le figure del lavoro precario, che, proprio perché sono precarie, non hanno rappresentanza. Siamo noi che dobbiamo fornirgliela. E proprio perché teniamo al rapporto con i delegati è necessario che si arrivi più che alle primarie come nella politica, a un’election day, al rinnovo di tutte le Rsu in un’unica giornata o in un’unica settimana, perché sia esplicito il voto dei lavoratori e sia così certa la nostra rappresentazione del mondo del lavoro.
Su quali materie dovrà appuntarsi la contrattazione?
Devono essere ricostruiti i cicli produttivi. In questo modo si riposiziona il lavoro del singolo.
E così è possibile ridare valore al lavoro?
Sì, così si può ristabilire dignità e ruolo del lavoratore, protagonismo all’interno del ciclo, recuperando il rapporto tra impresa e lavoratore, che è fondamentale nella competizione globale. Tutti sono coinvolti nella competizione globale, l’impresa e chi ci lavora, e tutti devono avere un ruolo socialmente riconosciuto. Deve ricostituirsi attraverso il meccanismo contrattuale una maggiore identità tra il lavoro che si svolge e la propria identità sociale. Ciascuno deve essere identificato in base al lavoro che svolge, non al salario che percepisce, per quanto questo possa essere importante. In questo modo sarà possibile ridare al lavoro il valore che ha perso.
Le imprese capiscono l’urgenza di questa trasformazione?
Le imprese sono speculari al sindacato, alcune capiscono, altre no, se sono legate a vecchi modelli.
Devono cambiare le relazioni industriali?
Devono essere considerate come un fattore di sviluppo per favorire questo processo. E per ottenere questo risultato è necessario far vivere nella considerazione del paese l’idea di un sindacato industriale. Sorprende che l’idea che il sindacato industriale sia vissuto come il sindacato della contrapposizione politica.
Ma il sindacato italiano è in grado di operare questa trasformazione?
E’ una scommessa. E dobbiamo farla. Renzi ci ha lanciato una sfida e noi dobbiamo provare di non avere alcun senso di inferiorità, di essere in grado di realizzare questi obiettivi. Dobbiamo essere un soggetto attivo della costruzione della nuova Italia, trovando legittimazione nella nostra capacità di rappresentare le persone sul posto di lavoro. Cosa che facciamo solo noi.
Massimo Mascini