Pier Paolo Baretta, che deve fare il sindacato ora che la concertazione non c’è più?
La concertazione non c’è più perché si è afflosciata. Per colpa del sindacato, che è rimasto a metà del guado.
Quale guado?
Non c’è più antagonismo, conflittualità diffusa, ma non c’è nemmeno la partecipazione. C’è una stasi della contrattazione aziendale per quanto si riferisce alle condizioni di lavoro. Sul piano generale è indubbio che il sindacato è stato preso in contropiede rispetto all’accelerazione complessiva che la politica si è data. Non solo Renzi, basta pensare al movimento 5 Stelle.
Non è la prima volta che il sindacato subisce l’attacco della politica.
Tutt’altro, è un fenomeno che viene da lontano.La Leganon molti anni fa ha fatto il pieno proprio tra gli operai. Il punto è che in politica non ci sono vuoti. Dopo Tangentopoli la politica era in affanno e il sindacato ne prese il ruolo. Nel 1994 una parte della politica e una parte del sindacato seppero affrontare i problemi del momento e cercarono di risolverli.
E’ quanto sta accadendo adesso?
In questo momento la politica ha un sussulto di ripresa del proprio ruolo, il sindacato o entra in competizione sui contenuti o resta al palo.
Che tipo di competizione?
Quella delle idee. Se il sindacato avanza delle proposte, per esempio sulla riforma della pubblica amministrazione, la politica è costretta a rincorrerlo, non può ignorarlo. Ma se il sindacato tutela l’esistente, anche in buona fede, o pensa a una riforma minimalista, non radicale, mentre è necessario andare a fondo, non è competitivo. Se la concertazione è trovare un punto di incontro tra diverse opinioni e rappresentanze, si può pensare a una forma di competizione: dal consociativismo alla concertazione, alla competizione, come capacità di produrre idee e proposte. Comunque è una forma di relazione. Ma per il sindacato c’è anche un problema di rappresentanza.
Non ha risolto i problemi di questa natura?
Assolutamente non è un problema risolto. Io penso che sbagli chi afferma in termini spregiativi che il sindacato rappresenta i pensionati, perché questi sono una parte del paese. Il sindacato sbaglia invece se rappresenta solo i pensionati, o solo il lavoro dipendente, se non rappresenta i giovani che cercano un lavoro, le partite iva.
Il sindacato deve essere di più sui problemi, deve essere più attivo, fare più proposte?
Questo è il problema. In Italia recentemente è stata fatta la più grande riforma delle pensioni possibile, prima con l’aggancio di Tremonti all’attesa di vita, poi con la riforma Fornero. I sindacati non hanno fatto nemmeno un’ora di sciopero. Delle due l’una, o la riforma andava bene o il sindacato non c’era. Ma i sindacati dicono che quella riforma non va bene. Quindi sono in difetto.
Non conviene anche alla politica l’interlocuzione con i sindacato?
Questo è un altro problema. La politica deve capire che per governare le società complesse è necessaria la mediazione sociale. Ma il punto è che Cgil, Cisl e Uil pensano che il mediatore sociale necessariamente siano loro, e invece non è così. Se non ci sono loro ci sarà qualcun altro, i no Tav, i forconi, chiunque rappresenti degli interessi.
Ma che cosa rischia il sindacato?
Non credo che il sindacato vada incontro a una disgregazione, perché ha forti anticorpi, specialmente per il rapporto che ha con la gente, ma non è detto che non possa accadergli quanto è accaduto al Pci o alla Dc perché la storia va avanti e devi essere in grado di cogliere gli elementi di novità. Nel 1967 e 1968 dopo il boom economico il sindacato delle commissioni interne entrò in crisi perché non rispondeva più alla mutata composizione sociale. Il sindacato, pur tra gli errori, fu in grado di fare una scelta e si rilanciò, ripartì. Questa fase ha delle analogie con allora, anche se le risposte devono essere differenti. Del resto, le leadership politiche forti sono sempre state accompagnate da una robusta organizzazione sindacale di sostegno. Basta pensare al peronismo o alla Polonia di Solidarnosc.
E’ importante dialogare con il sindacato, se questo però è attivo.
Per questo il sindacato deve porsi le domande anche se sono scomode. Un esempio di come il sindacato deve interrogarsi viene dalla cronaca. Maurizio Landini provocatoriamente tre giorni prima del congresso della Cgil pone il tema delle primarie nel sindacato. Io non sono d’accordo con questa proposta, ma essa coglie il segno di questo rinnovamento, è giusto porsi il problema di cosa può accadere, riflettere sul fatto che può derivarne uno scossone, dal quale invece il sindacato si sente immune.
La contrattazione in fabbrica deve ripartire dall’organizzazione del lavoro?
Non c’è alternativa. Certo dopo gli 80 euro di Renzi il futuro non è la contrattazione del salario. Bisogna ripensare l’organizzazione del lavoro e anche la distinzione merceologica, perché non essere arrivati al sindacato e al contratto d’industria è stato un errore. L’organizzazione del lavoro è tema valido anche per il pubblico impiego, proprio perché si tratta di ripensare il lavoro, ricostituendone il valore intrinseco.
Il sindacato è chiamato a una riforma profonda di se stesso. Ci riuscirà?
Può riuscirci. Ha dalla sua due fattori. Il primo è la forza degli iscritti, 10 milioni di persone rappresentano comunque una forza. E poi non ci sono al momento delle alternative. Il crollo non è dietro l’angolo, anche se queste cose arrivano improvvisamente. Per questo serve, subito, grande capacità di analisi e una forte volontà di scegliere e di rendere evidenti queste scelte, questa volontà di cambiare. Noi andiamo di corsa non perché ci piace, ma perché abbiamo dei forti ritardi e dobbiamo recuperarli, tutti, anche il sindacato.