Carlo Dell’Aringa, quale sarà il futuro del sindacato adesso che la concertazione sembra finita per sempre? Dovremo assistere a un lento declino?
La crisi c’è ed è forte, per tutti i corpi intermedi, il sindacato, ma anche i partiti. Sono ritenuti responsabili o corresponsabili di tutto quello che è successo in questi ultimi quindici o venti anni. Cioè di una crescita modesta e dell’incapacità a generare miglioramenti dell’efficienza del sistema.
La situazione economica è così forte? Va tutto davvero male?
Tutto no, una parte dell’industria sta bene, esporta, ma è insufficiente dal punto di vista quantitativo a sostenere tutto il sistema, che è caratterizzato dalla consistente zavorra che si porta appresso.
Quale zavorra?
Il debito pubblico, che è diventato un problema con la crisi dei debiti sovrani, e la mancata efficienza dell’apparato produttivo. Ci hanno messo in ginocchio.
I sindacati ne sono responsabili?
Loro, ma anche i partiti politici, il governo, il Parlamento. Tutti vengono ritenuti responsabili di questa situazione perché non hanno saputo fare la loro parte fino in fondo per rimediare ai fattori di questa lunga stagnazione. E cresce così l’antipolitica.
Ma cosa bisogna fare?
Cercare di rimuovere quei fattori di crisi. A cominciare dal debito pubblico, che deve gradualmente rientrare, questo per noi è un vincolo ineludibile. E devono venire le riforme per ammodernare il sistema socioeconomico. Per farci ritenere affidabili, credibili e attirare così investimenti esteri, e per avere gli effetti positivi di una crescita dell’efficienza interna.
Ammodernare in che senso e cosa?
Bisogna far crescere la cultura d’impresa, la cultura industriale, del merito. Sono in larga misura processi culturali, da cui dovrebbero scaturire miglioramenti del sistema, della pubblica amministrazione, della giustizia, della scuola e dell’università, del sistema delle infrastrutture. E anche delle relazioni industriali.
E’ sulla contrattazione che il sindacato deve puntare per sopravvivere?
Con la contrattazione il sindacato può favorire il miglioramento dell’ambiente. Non solo nell’industria, anche nella pubblica amministrazione, nei servizi. Con relazioni sindacali più decentrate, meno conflittuali. Con l’innovazione e gli investimenti può crescere la produttività del sistema. La credibilità maggiore va conquistata a livello di impresa, di territorio. Le opportunità ci sono in azienda, per avere innovazioni di processo è importantissimo lo spirito partecipativo da parte del sindacato e di gruppi di lavoratori. Chi è inserito nei processi produttivi sa come migliorarli. E’ così che si potenzia lo spirito partecipativo dei singoli lavoratori, specie se inseriti in quadri, in gruppi.
Ma tutto ciò non sta già accadendo?
Sì, ma va risolto il nodo che esiste tra l’essere collaborativo del sindacato e il ruolo dei lavoratori all’interno dell’azienda. I tedeschi hanno risolto questo problema con il sistema duale. Da noi il sindacato deve affrontare questo nodo, nella distinzione dei ruoli, distinguendo tra il ruolo in azienda e il ruolo collettivo dei sindacati. Non deve esserci netta separazione, ma nemmeno contraddizione.
Tutti parlano di partecipazione, anche in Italia. Ma perché poi non si fa?
Perché è ancora forte in azienda l’idea rivendicativa, di contrapposizione, vecchi retaggi della lotta tra capitale e lavoro. In Germania il conflitto c’è, ma al livello settoriale o nazionale, non in azienda. E anche nei settori o nei confronti nazionali il conflitto non è mai totale, c’è sempre grande collaborazione. I grandi scioperi si fanno, per il contratto dei metalmeccanici, per esempio, ma in azienda si assecondano i miglioramenti e le istituzioni che governano questi processi. A noi questi momenti di collaborazione mancano, al livello nazionale e anche di impresa.
Non facciamo quello che fanno invece i tedeschi?
E’ così. Loro al livello nazionale riescono a far funzionare quei meccanismi. Perché ci tengono, lo vogliono. E al livello aziendale sono i lavoratori che esprimono le loro rappresentanze nei consigli di sorveglianza. Il sindacato è presente, nella distinzione dei ruoli.
Il sindacato italiano per far questo dovrebbe cambiare profondamente. Può farcela?
E’ una questione culturale. Deve avere senso di appartenenza, deve crescere la consapevolezza di stare nella stessa barca, di sapere che prima di litigare per dividere la torta bisogna farla crescere. Adesso domina lo spirito di fazione, non di costruzione. Come accade nei partiti politici.
Ma se non riesce a fare questo salto culturale che accade? Il sindacato sparisce?
Sì, la conclusione può essere questa. I corpi intermedi più che in passato devono giustificare la loro presenza. Con questi due problemi che abbiamo, il peso del debito pubblico e la mancata crescita dell’efficienza del sistema produttivo, il calo della produttività, o i corpi intermedi dimostrano di poter contribuire alla loro soluzione o diventa difficile che possano continuare come prima. Sono visti come chi vuole solo spartirsi la torta e per questo litiga, anche e soprattutto al proprio interno. Devono abbandonare le rendite di posizione, smettere di difendere solo le loro posizioni e i loro ruoli. Mancano di concretezza, sono sterilmente rivendicativi. E’ il momento di crescere e compiere davvero questo salto culturale.