Le previsioni del Fondo monetario internazionale ridimensionano molto dell’ottimismo circolato nelle ultime settimane. A colpire non è solo che, dopo la contrazione di oltre il 2 per cento del Pil nel 2012, ce ne sarà un’altra dell’1 per cento nel 2013. Ma che, ancora a ottobre, lo stesso Fmi prevedesse che la coda di recessione di quest’anno sarebbe stata assai inferiore:0,7 per cento in meno, invece dell’uno. Negli ultimi mesi, insomma, le acque si sono fatte più scure e la crisi del 2013 sarà del 50 per cento peggiore del previsto. Ai limiti dell’asfissia: sempre secondo il Fmi, rispetto allo scorso dicembre (probabilmente, il punto più basso della recessione) alla fine del 2013 il Pil risulterà superiore solo dello 0,1 per cento, cioè praticamente niente e, a fine 2014, solo di un modesto 0,4 per cento. In altri tempi, avremmo definito una ripresa così semplicemente come un ristagno. Ma le preoccupazioni non riguardano solo i prossimi mesi: i dati sembrano indicare che l’economia italiana sta diventando sempre più fragile.
Gli economisti che non si sono fatti abbacinare dal dogma dell’austerità e dall’incubo del debito pubblico hanno, fin dall’inizio, indicato la radice della crisi dell’euro nel divario di competitività fra Sud e Nord Europa. Non sono i disavanzi pubblici, ma quelli nei conti con l’estero ad accomunare Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda. In altre parole, l’euro e i suoi bassi tassi di interesse hanno consentito di finanziare agevolmente, negli ultimi dieci anni, i disavanzi nelle bilance dei pagamenti dei paesi mediterranei, anche se le loro esportazioni diventavano del 20-30 per cento più care, rispetto, ad esempio, a quelle tedesche.
La buona notizia è che, a fine 2012, questo divario di competitività si sta riducendo rapidamente. La Grecia, negli ultimi due anni, ha ridotto di circa 20 punti la differenza nel costo del lavoro per unità di prodotto con la Germania. L’Irlanda di quasi 30. Spagna e Portogallo di una decina. Il gap c’è ancora. Rispetto all’introduzione dell’euro, nel 2000, il costo del lavoro per unità di prodotto risulta cresciuto in Germania del 10 per cento, nei quattro paesi deboli del 25 per cento. E’ un gap più piccolo e si va restringendo. La cattiva notizia è che questo non riguarda l’Italia: il nostro divario di competitività con la Germania non cambia. Tutto quello che siamo riusciti a fare, dal 2008, è evitare che continuasse ad aumentare. Oggi, rispetto al 2000, il costo del lavoro per unità di prodotto risulta cresciuto in Italia di quasi il 35 per cento, contro il 10 per cento tedesco.
In buona misura, il differente andamento fra l’Italia e gli altri paesi deboli è la conseguenza del diverso livello di macelleria sociale che le politiche di austerità adottate hanno comportato. Il tasso di disoccupazione italiano è, tuttora, la metà di quello spagnolo o greco e i salari (crollati, in Grecia, fino al 20 per cento) hanno tenuto di più. Ma il rovescio della medaglia è che, oggi, l’Italia si trova a detenere il poco invidiabile record di costo del lavoro per unità di prodotto più alto, rispetto al 2000, di tutta l’area euro. Nel momento in cui, con la domanda interna falcidiata dalle politiche di austerità, le speranze di ripresa sono tutte concentrate sulle esportazioni, le premesse sono pessime.
Non è, peraltro, solo un problema di maggiore resistenza salariale, rispetto a Spagna e Irlanda. Decisivo è l’altro corno del rapporto, nel costo del lavoro per unità di prodotto, e cioè la produttività, dove la responsabilità non è solo di manodopera e sindacati. Rispetto all’inizio del 2008, prima, cioè della crisi, la produttività risulta cresciuta molto rapidamente – oltre il 10 per cento – in Spagna e in Irlanda. Più lentamente, ma costantemente, in Portogallo. E’ in rapidissima ascesa, dalla scorsa estate, in Grecia. E’ stagnante in Italia. La notizia è che, rispetto al 2008, la produttività in Grecia è salita più che in Italia. Dopo quello del costo del lavoro per unità di prodotto, un altro record negativo che strappiamo alla Grecia: dal 2008, nessuno, in Europa, ha aumentato la produttività del lavoro tanto poco quanto l’Italia.
Arrampicarsi su una ripresa trainata dalla esportazioni non sarà facile, tanto più se, come pare, gli sviluppi di politica monetaria in giro per il mondo consegneranno l’euro al ruolo di moneta non forte, ma fortissima. Il cambio euro/dollaro a 1,40, che l’associazione degli esportatori tedeschi ha annunciato, in questi giorni, di prevedere per i prossimi mesi, rischia di essere un macigno in più per la competitività italiana.
di Maurizio Ricci