(Dal Resoconto Sommario)
SEDE LEGISLATIVA
Mercoledì 9 luglio 2003. – Presidenza del presidente Domenico BENEDETTI VALENTINI. – Interviene il sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali Maurizio Sacconi.
Fondazione Marco Biagi.
C. 3897, approvato dal Senato.
(Seguito della discussione e approvazione).
La Commissione prosegue la discussione, iniziata nella seduta di ieri.
Domenico BENEDETTI VALENTINI, presidente, avverte che non sono stati presentati emendamenti.
La Commissione, con distinte votazioni, approva gli articoli 1 e 2.
Domenico BENEDETTI VALENTINI, presidente, passa alle dichiarazioni di voto finale.
Cesare CAMPA (FI), a nome dei deputati del gruppo di Forza Italia, preannuncia il voto favorevole sul progetto di legge C. 3897.
Autorizzata la presidenza al coordinamento formale del testo, la Commissione, con votazione nominale finale, approva il progetto di legge C. 3897.
ATTI DEL GOVERNO
Mercoledì 9 luglio 2003. – Presidenza del vicepresidente Angelo SANTORI. – Interviene il sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali Maurizio Sacconi.
Schema di decreto legislativo recante attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30.
Atto n. 250.
(Esame e rinvio).
La Commissione inizia l’esame.
Emilio DELBONO (MARGH-U), intervenendo sull’ordine dei lavori, rileva che la richiesta di parere parlamentare sullo schema di decreto legislativo recante attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro risulta non essere ancora corredata dai pareri della Conferenza unificata e delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei datori e prestatori di lavoro.
Angelo SANTORI, presidente, comunica che nella giornata odierna è stata trasmessa alle Camere copia del parere espresso dalla Conferenza unificata, nonché la nota del sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali Maurizio Sacconi.
Il sottosegretario Maurizio SACCONI precisa che in data odierna è stata consegnata alle Camere copia del parere espresso dalla Conferenza unificata, nonché una sintesi delle modalità con le quali si è svolta la consultazione delle trentasette organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, che sono state riunite ben quattro volte nel corso di tre settimane.
Elena Emma CORDONI (DS-U), intervenendo sull’ordine dei lavori, si richiama alla lettera inviata dal Presidente della Camera, onorevole Casini, al presidente della Commissione lavoro rispetto alla compiutezza dell’atto governativo sul quale la Commissione è chiamata ad esprimere il proprio parere, atto che a fino a ieri risultava ancora non corredato dai pareri della Conferenza unificata e delle associazioni sindacali. Posto che solo oggi è stata trasmessa copia di quei pareri, ribadisce l’opportunità che i trenta giorni di tempo a disposizione partano dalla giornata odierna, anche in considerazione del fatto che non si ravvisano ragioni di urgenza per l’esercizio della delega.
Angelo SANTORI, presidente, posto che della questione è stata investito con lettera il Presidente della Camera, ritiene opportuno attendere in proposito le determinazioni che verranno assunte dal Presidente della Camera.
Cesare CAMPA (FI), relatore, nell’illustrare la sua relazione, ricorda, secondo le indicazioni di Marco Biagi contenute nel Libro Bianco sul mercato del lavoro, che la condizione per conseguire l’obiettivo di incrementare l’occupazione, accrescendone la qualità sia riformare il mercato del lavoro. Nonostante i miglioramenti degli ultimi anni, permane infatti un ampio divario tra i tassi occupazionali italiani e la media europea, in particolare per le donne e i lavoratori anziani. Continua ad esservi un ampio divario tra regioni, con un nord che registra alti tassi di partecipazione e una occupazione quasi piena e un sud caratterizzato da bassa partecipazione, alta disoccupazione, precariato e lavoro nero. Se le riforme del passato hanno contribuito ad aumentare l’occupazione e a ridurre il numero dei senza lavoro in entrambe le parti del paese, il differenziale relativo è rimasto praticamente intatto.
L’intervento sul mercato del lavoro – cui ancora recentemente richiama l’Europa, con le raccomandazioni annuali sull’occupazione definite in sede politica lo scorso 3 giugno – deve orientarsi con decisione su: nuovi e incisivi provvedimenti per affrontare gli squilibri regionali per quanto riguarda occupazione, disoccupazione e creazione di posti di lavoro, facendo un uso efficace di tutti i mezzi a disposizione, compresa l’assistenza da parte dei fondi strutturali; rafforzare ulteriormente la combinazione di politiche per ridurre sostanzialmente il lavoro nero, segnatamente invitando le parti sociali ad aumentare il loro grado di impegno e potenziando gli incentivi per trasformare il lavoro nero in lavoro regolare; realizzare, di concerto con le parti sociali, misure intese ad aumentare la flessibilità del mercato del lavoro e a modernizzare l’organizzazione del lavoro, promuovendo la sinergia tra flessibilità e sicurezza e operando per prevenire l’emarginazione delle fasce svantaggiate; adottare provvedimenti per realizzare la strategia di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, in particolare aumentando l’offerta di formazione continua attraverso accordi con le parti sociali; adottare provvedimenti per aumentare il tasso di occupazione dei lavoratori anziani conformemente all’obiettivo nazionale, in particolare innalzando, in consultazione con le parti sociali, l’età effettiva dell’uscita dal mondo del lavoro e ampliando l’offerta di opportunità di formazione continua; adottare provvedimenti per aumentare il tasso di occupazione delle donne, in particolare potenziando l’offerta di sistemi di lavoro flessibile e di servizi di custodia dei bambini e di assistenza alle altre persone a carico; migliorare il funzionamento del mercato dei servizi dell’occupazione, realizzando un sistema computerizzato nazionale di dati sul mercato del lavoro accessibile a tutti gli operatori, migliorando allo stesso tempo la capacità del servizio di collocamento di offrire misure attive e preventive ai disoccupati.
La riforma Biagi e lo schema di decreto legislativo approvato dal Governo lo scorso 6 giugno forniscono risposte adeguate e puntuali a tutte le sollecitazioni provenienti nell’ambito della Strategia Europea per l’occupazione. Come del resto precisato nel Patto per l’Italia del 5 luglio 2002, obiettivo primario della riforma Biagi è la realizzazione di un mercato del lavoro trasparente ed efficiente: un mercato in grado di correggere i gravi squilibri regionali e le insufficienti performances del nostro paese per quanto riguarda occupazione, disoccupazione e creazione di posti di lavoro regolari e di buona qualità. Lo schema di decreto contiene, infatti, una serie organica e articolata di provvedimenti finalizzati a sostenere la competitività delle imprese, attraverso una nuova organizzazione del lavoro, e l’incremento dell’occupazione regolare tanto nelle aree più dinamiche quanto – e soprattutto – in quelle meno sviluppate del paese.
Il provvedimento si basa, nella sostanza, su misure volte: alla creazione di un sistema di servizi per l’impiego moderno ed efficiente, capace di realizzare un reale raccordo tra operatori pubblici e privati, anche mediante l’attivazione di una borsa continua nazionale del lavoro, e di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro; la messa in atto di una strategia coordinata volta a contrastare i fattori di debolezza strutturale della nostra economia: la disoccupazione giovanile, la disoccupazione di lunga durata, la concentrazione della disoccupazione nel Mezzogiorno, il modesto tasso di partecipazione delle donne e degli anziani al mercato del lavoro; l’introduzione di nuove tipologie di contratto utili ad adattare l’organizzazione del lavoro ai mutamenti dell’economia e anche ad allargare la partecipazione al mercato del lavoro di soggetti a rischio di esclusione sociale, ai giovani, alle donne e agli anziani, secondo parametri normativi europei e in modo da rendere il più effettivo possibile il diritto al lavoro garantito dall’articolo 4 della carta costituzionale; all’introduzione di forme di flessibilità regolata, funzionali non solo alla creazione di nuove possibilità occupazionali, ma anche all’emersione delle molteplici forme di lavoro grigio (le cosiddette co.co.co.) e nero che oggi caratterizzano, con gravi effetti distorsivi rispetto all’obiettivo di una corretta competizione tra le imprese, il nostro mercato del lavoro; alla ridefinizione degli schemi contrattuali con contenuto formativo, in modo da realizzare percorsi di formazione effettiva e coerenti con l’obiettivo dell’apprendimento lungo l’intero arco della vita per porre termine all’utilizzo improprio, alla stregua di una forma di flessibilità surrettizia, delle forme di lavoro miste a formazione; a garantire uno sviluppo adeguato e, in una cornice giuridica coerente con le logiche della nuova economia e le istanze di tutela del lavoro, dei processi di esternalizzazione, in modo da consentire al sistema delle imprese di beneficiare delle logiche di rete e degli investimenti in capitale digitale e tecnologia (sviluppo delle attività di facility management, della logistica, e così via) e contrastare le forme fraudolente di decentramento produttivo; l’affermazione di un maggiore ruolo delle organizzazioni di tutela e rappresentanza, con particolare attenzione alle forme bilaterali, in funzione della gestione di attività utili alle politiche per l’occupazione. Su 86 articoli, i rinvii alla contrattazione collettiva sono ben 43, mentre i riferimenti al ruolo della bilateralità sono 10.
Attraverso questo provvedimento il Governo si propone dunque di incidere non solo sulla modernizzazione delle aree più forti e dinamiche del paese, ma anche – direttamente e indirettamente – sulle aree meno sviluppate dell’Italia, dove solo la trasparenza del mercato del lavoro e la modularità dei rapporti di lavoro, seppure coniugate con azioni di contesto atte a favorire lo sviluppo e la crescita della produttività, possono innescare un processo di sviluppo economico, di crescita dell’occupazione regolare e di rafforzamento della coesione sociale. La riforma Biagi consentirà la messa in moto di un processo virtuoso di recupero del divario strutturale e di progressiva convergenza (a medio termine) del Mezzogiorno sui livelli occupazionali del centro-nord e dell’Unione europea. Grazie alle misure contenute nello schema di decreto legislativo sarà possibile riorientare in senso pro-attivo le politiche del lavoro e anche recuperare risorse finanziarie da destinare alle aree deboli del paese e del mercato del lavoro mediante la creazione di un contesto normativo generale meno rigido ed in cui sia meno necessario prevedere specifici incentivi finanziari a compensazione di rigidità e relativi disincentivi di tipo normativo-istituzionale.
Trasparenza ed efficienza del mercato del lavoro avranno un effetto positivo non solo nelle aree forti del paese, ma prima ancora nel Mezzogiorno dove le politiche di trasferimento passivo di risorse pubbliche hanno evidenziato tutti i loro limiti ed effetti distorsivi.
Per raggiungere gli obiettivi sopra indicati, che già di per sé sono stati il frutto di una fase di intenso dialogo sociale confluita nel Patto per l’Italia, il provvedimento presuppone un ampio e convinto coinvolgimento degli attori sociali a tutti i livelli opportuni. Sarà infatti la contrattazione collettiva nazionale, territoriale e aziendale il principale veicolo di attuazione delle innovazioni proposte dal Governo in materia di mercato del lavoro, nel pieno rispetto del collaudato metodo del dialogo sociale.
Sottolinea la veridicità di tale affermazione soprattutto con riferimento al governo dei processi di outsourcing e alle forme contrattuali volte a garantire l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese. L’ammissibilità della somministrazione di manodopera a tempo indeterminato (il cosiddetto staff leasing) è consentita in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo od organizzativo tipizzate, in un numero di casi limitati dalla legge e, soprattutto, dai contratti collettivi nazionali o territoriali, stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative. Anche per la fornitura di lavoro temporaneo (il cosiddetto lavoro interinale) è previsto l’intervento della contrattazione collettiva mediante l’individuazione di limiti percentuali massimi al suo utilizzo, in modo del tutto conforme con quanto avviene oggi in materia di lavoro a termine.
L’agevolazione del ricorso a prestazioni di lavoro supplementare, nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale cosiddetto orizzontale, sarà possibile nei casi e secondo le modalità previsti da contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative su scala nazionale o territoriale, anche sulla base del consenso del lavoratore interessato in carenza dei predetti contratti collettivi. L’agevolazione del ricorso a forme flessibili ed elastiche di lavoro a tempo parziale, nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale cosiddetto verticale e misto, è anch’essa rimessa alla contrattazione collettiva. Il consenso del lavoratore interessato consentirà di pervenire a forme di flessibile utilizzo del lavoro a tempo parziale solo in carenza dei contratti collettivi e comunque a fronte di una maggiorazione retributiva da riconoscere al lavoratore.
Il lavoro intermittente o a chiamata sarà possibile nei casi indicati dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative su scala nazionale o territoriale e, solo in via provvisoriamente sostitutiva, in mancanza dei contratti collettivi, per decreto del ministro del lavoro e delle politiche sociali. Anche per il lavoro a coppia o ripartito è previsto un ampio rinvio alla contrattazione collettiva.
Ma il rinvio alla contrattazione collettiva non si ferma qui e si estende anche alle misure sulla occupabilità. È prevista, in particolare, la sperimentazione di orientamenti, linee-guida e codici di comportamento, al fine di determinare i contenuti dell’attività formativa, concordati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e territoriale, anche all’interno di enti bilaterali, e solo in difetto di accordo determinati con atti delle regioni, d’intesa con il ministro del lavoro e delle politiche sociali. Ampio è poi il rinvio ai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, a livello nazionale, territoriale e aziendale, per la determinazione, anche all’interno degli enti bilaterali, delle modalità di attuazione dell’attività formativa in azienda, soprattutto con riferimento al nuovo contratto di apprendistato, e anche in relazione alla capacità formativa interna rispetto a quella offerta dai soggetti esterni.
Dal quadro delineato è evidente il ruolo della contrattazione collettiva, non solo nazionale ma anche territoriale e aziendale, nella gestione delle misure di adattabilità e anche della formazione professionale. I rinvii alla contrattazione collettiva renderanno possibili (più che nel passato) intese locali per l’occupabilità e l’adattabilità, permettendo di coniugare tipologie contrattuali flessibili nuove (lavoro intermittente o a chiamata, staff leasing) o vecchie (interinale, lavoro a tempo parziale) con interventi mirati in formazione. Si tratta di una innovazione importante perché consente di introdurre accordi avanzati e progetti pilota nella modernizzazione del mercato del lavoro, che ovviamente il livello nazionale non può permettersi.
Nella prospettiva della realizzazione di un sistema di relazioni industriali di tipo cooperativo, chiaramente indicato nel Patto per l’Italia e che lo schema di decreto legislativo si propone di assecondare anche sul piano normativo, riterrebbe opportuno peraltro, in sede di approvazione definitiva del testo, ipotizzare di affidare alla contrattazione collettiva, mediante un accordo interconfederale o comunque un avviso comune, la gestione del regime transitorio dal vecchio al nuovo sistema di regolazione del mercato del lavoro. La rapida sottoscrizione di un accordo interconfederale di «transizione» potrebbe, infatti, rendere immediatamente operativa la riforma Biagi rendendo, per un verso, pienamente disponibile per le imprese il nuovo quadro legale e neutralizzando, per l’altro verso, possibili rinvii alla contrattazione individuale nella gestione di specifiche flessibilità che tanto preoccupano (con specifico riferimento al tempo parziale) il sindacato. In questo senso sembrano del resto essersi pronunciati i principali attori sociali in sede di confronto con il Governo sullo schema di decreto legislativo.
Osserva poi che lo schema di decreto legislativo non si limita a sollecitare uno stretto raccordo tra legge e autonomia collettiva, ma intende anche valorizzare le competenze e le funzioni dei cosiddetti enti bilaterali, organismi costituiti su iniziativa delle stesse associazioni sindacali e datoriali con funzioni coadiuvanti alla realizzazione degli obiettivi della riforma.
La bilateralità è un fenomeno particolarmente dinamico in molti settori produttivi e in alcune realtà del paese ed è un fenomeno che il Governo ritiene di dover sostenere con coraggio e lungimiranza, in quanto contribuisce a modernizzare, stabilizzandolo, il sistema di relazioni industriali, espletando funzioni di mutualizzazione rispetto ad obblighi del datore di lavoro (compiti tradizionali) ovvero anche di tipo autorizzativo e certificatorio (compiti innovativi), a beneficio di una complessiva regolarizzazione del mercato del lavoro.
Le funzioni attribuite agli enti bilaterali sono molteplici ed eterogenee, spaziando dalla gestione di prestazioni integrative o sostitute rispetto al sistema generale obbligatorio di sostegno al reddito, alla promozione di pratiche contro la discriminazione e per l’inclusione dei soggetti svantaggiati e di una occupazione regolare e di qualità, allo sviluppo di azioni inerenti alla salute e sicurezza sul lavoro. Il contributo degli enti in parola alla realizzazione degli obiettivi del decreto è previsto anche in relazione alla programmazione dei contenuti e delle modalità di attuazione dei piani formativi da eseguirsi in azienda. Agli enti bilaterali sono, infine, attribuite specifiche competenze in materia di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, potendo essi stessi svolgere attività di intermediazione e contribuire alla individuazione del regime contrattuale delle parti attraverso la certificazione del relativo contratto di lavoro. Indicata la funzione centrale degli enti bilaterali nell’impianto della riforma, sarebbe peraltro opportuno rendere meno rigida la tipizzazione delle funzioni loro assegnate, estendendole opportunamente a ogni altra attività o competenza assegnata loro non solo dalla legge ma anche dai contratti collettivi di riferimento.
Il ruolo dato alla bilateralità è emblematico dell’enfasi posta sulla tutela del lavoratore non più solo nel rapporto ma anche e prima ancora sul mercato. Le misure contenute nel presente decreto legislativo estendono le tutele a favore di una più amplia platea di soggetti: quelle persone oggi intrappolate nelle finte collaborazioni coordinate e continuative e in una economia sommersa che si presenta con dimensioni addirittura due-tre volte superiori a quelle che si registrano negli altri paesi europei industrializzati. Obiettivo della riforma Biagi è, infatti, quello di contrastare la destrutturazione strisciante e la precarizzazione del mercato del lavoro che sono oggi il dato caratterizzante la realtà fattuale del lavoro in Italia.
In primo luogo il provvedimento in titolo, nell’ottica di estendere le tutele dal solo rapporto di lavoro al mercato, presenta un insieme organico di misure volte ad assistere chi cerca un lavoro, potenziando la rete dei servizi pubblici e privati. Nonostante varie riforme, il collocamento pubblico stenta ancora a modernizzarsi. I centri per l’impiego controllano attualmente poco più del 4 per cento dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, mentre in molte aree del paese la qualità dei servizi è ancora troppo bassa, ben al di sotto degli standard europei. Se si eccettuano le agenzie di lavoro interinale, i privati autorizzati sono oggi di fatto esclusi dall’incontro tra domanda e offerta di lavoro, mentre dilagano gli intermediari privi di una vera e propria organizzazione imprenditoriale, i cosiddetti «caporali», abili a intercettare le molteplici occasioni di occupazione disperse nel mercato del lavoro.
Obiettivo delle misure contemplate nel presente provvedimento è quello di costruire un vero mercato del lavoro: un mercato aperto e trasparente. Lo schema di decreto legislativo si regge su una normativa semplice e snella, che si integra con la recente riforma del collocamento pubblico (decreto legislativo n. 297 del 2002) e che mira a portare a compimento il processo di razionalizzazione di quella che oggi è una giungla burocratica fatta di autorizzazioni ed accreditamenti. Ogni persona in cerca di una prima occupazione o di un nuovo lavoro deve sapere che non verrà abbandonata a se stessa e che i nuovi servizi per l’impiego sono in grado di fornire un sostegno migliore e più solido delle sole reti amicali e familiari.
L’intervento dei privati nel mercato del lavoro viene ricondotto a un impianto autorizzatorio unitario, graduato secondo il tipo di attività svolte, mentre il nuovo sistema del collocamento pubblico, messo a regime lo scorso dicembre (decreto legislativo n. 297 del 2002), costituirà la spina dorsale di un moderno mercato del lavoro accessibile a tutti in condizioni di pari opportunità. La semplificazione delle procedure di collocamento, e l’apertura regolata agli operatori privati, consentirà il potenziamento delle azioni di prevenzione della disoccupazione e la massima efficacia dei servizi, attraverso un modello che contempla la cooperazione e la competizione tra operatori pubblici e altri operatori, pubblici, privati o convenzionati, accreditati dalle regioni.
In questa prospettiva, chiarito che restano ferme le funzioni amministrative attribuite alle province dal decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, ritiene più che condivisibile è la richiesta – avanzata dalle regioni e accolta dal Governo in sede di Conferenza unificata – di specificare che restano ovviamente ferme anche le competenze delle regioni in materia di regolazione e organizzazione del mercato del lavoro regionale. In proposito, considera particolarmente significativo, in tale prospettiva, l’accordo raggiunto lo scorso 3 luglio, sempre in sede di Conferenza unificata, sul modello di organizzazione del lavoro che ha visto Governo, regioni, Unione province italiane e comuni concordare emendamenti di specificazione dello schema di decreto legislativo, approvato il 6 giugno dal Consiglio dei ministri, che confermano la validità dell’impostazione accolta dal Governo. Nel governo del mercato del lavoro è stato infatti mantenuto il doppio regime, basato sulle «autorizzazioni» a livello centrale e sugli «accreditamenti» regionali. Con il primo concetto ci si riferisce al provvedimento mediante il quale lo Stato abilita operatori, pubblici e privati, denominati «agenzie per il lavoro», allo svolgimento delle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, ricollocazione professionale. Con il secondo termine ci si riferisce, invece, al provvedimento mediante il quale le regioni riconoscono ad un operatore, pubblico o privato, l’idoneità a erogare i servizi al lavoro negli ambiti regionali di riferimento, anche mediante l’utilizzo di risorse pubbliche, nonché la partecipazione attiva alla rete dei servizi per il mercato del lavoro con particolare riferimento ai servizi di incontro fra domanda e offerta. In sede di Conferenza unificata si è peraltro deciso, a specificazione e perfezionamento dell’impianto definito nello schema di decreto legislativo, di estendere il meccanismo di autorizzazione anche alle singole regioni, ma solo per attività di intermediazione, ricerca, selezione del personale e ricollocazione professionale rese in ambito regionale e fermi restando i requisiti di abilitazione fissati per il livello nazionale.
Grazie a queste specificazioni, al di là dei giudizi complessivi sulla riforma, è stato dunque possibile pervenire in sede di Conferenza unificata ad un ampio e convinto consenso sul modello di governo e gestione del mercato del lavoro che consentirà al paese di raggiungere livelli di efficienza e trasparenza del mercato del lavoro coerenti con le migliori prassi presenti in Europa.
Attraverso questa regolazione più semplice ed efficace sarà possibile, peraltro, un più deciso contrasto di tutte le forme di abusivismo. La competizione con gli operatori privati aiuterà a migliorare l’efficienza dei servizi pubblici per l’impiego ed anche a definire forme virtuose di cooperazione a tutto vantaggio dei soggetti in cerca di una occupazione e, segnatamente, dei gruppi di lavoratori svantaggiati e dei disabili.
L’effettività del diritto costituzionale al lavoro sarà agevolata dalla messa a punto di un sistema aperto e trasparente di incontro domanda-offerta, la cosiddetta borsa continua nazionale del lavoro, dentro il quale cittadini, lavoratori, disoccupati e imprese possono decidere, se vogliono, di incontrarsi in modo diretto e dove i servizi di intermediazione sono liberamente scelti da essi e non imposti dal modello. Il grado di riservatezza delle informazioni da immettere nel sistema sarà dunque determinato dalla libera decisione dell’utente che accede al sistema stesso. Nella borsa continua nazionale del lavoro, in linea con quanto definito dall’accordo dell’11 luglio 2002 tra Stato e regioni, il compito del livello nazionale sarà quello di contribuire alla definizione degli standard in accordo con le regioni e di garantire realmente, e non in teoria, l’integrazione dei sistemi. Tale ambito nazionale contribuirà a definire e garantire il rispetto di determinati standard informativi univoci, garantendo sia l’intercomunicazione delle informazioni rilasciate da cittadini ed imprese, nel rispetto delle indicazioni da questi fornite, sia il pieno utilizzo delle informazioni di fonte amministrativa – discendenti dalle comunicazioni obbligatorie dei datori di lavoro, dalle informazioni detenute dagli enti previdenziali e dalle verifiche poste in essere dai servizi pubblici per l’impiego – rilevanti al fine di certificare il diritto a determinati benefici normativi o previdenziali in sede di assunzione.
La messa a punto di una borsa continua nazionale del lavoro consentirà di intercettare le dinamiche reali del mercato del lavoro e di fornire strumenti di intervento per realizzare politiche attive (emersione, supporto alle fasce deboli) localizzate. Questa rete sarà essenziale anche per la riforma dei sussidi ai disoccupati che si collegheranno più strettamente ai servizi di orientamento e di formazione.
Osserva che l’obiettivo di rendere trasparente il mercato del lavoro non vuole dire deregolamentare; significa piuttosto creare regole semplici ed effettivamente esigibili. Gli attuali drastici divieti, risalenti agli anni sessanta e relativi all’intervento degli operatori privati nelle fasi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, sono una delle principali cause del dilagare di forme parassitarie e fraudolente di intermediazione nei rapporti di lavoro. I processi di fornitura e appalto lavoro (le cosiddette esternalizzazioni) si realizzano oggi in un quadro sostanzialmente privo di regole, dove l’abusivismo è la norma, con grave pregiudizio per i diritti dei prestatori di lavoro.
Alla luce dei rilevanti processi di riorganizzazione aziendale e di ristrutturazione, le imprese italiane devono per contro poter competere con le imprese degli altri paesi sulla base di normative analoghe, fermi restando naturalmente il rispetto dei diritti dei lavoratori coinvolti dai processi di esternalizzazione, secondo quanto stabilito a livello comunitario, e la necessità di evitare pratiche fraudolente.
Le misure contenute nel presente provvedimento mantengono, a tutela dei lavoratori, una chiara ispirazione antifraudolenta. Rimane confermato, in particolare, l’obiettivo indicato dalla delega di vietare ipotesi di intermediazione o interposizione nei rapporti di lavoro volte a ledere i diritti dei lavoratori. Ciò su cui incide il provvedimento è invece la soppressione di tutte quelle norme obsolete, proprie di un sistema di produzione e organizzazione del lavoro oggi superato, finalizzate esclusivamente all’obiettivo di irrigidire in sé e per sé l’uso della manodopera, anche là dove non esistano istanze di tutela del lavoro.
Ciò consentirà di fornire una regolamentazione efficiente dei processi di appalto di manodopera ed esternalizzazione del lavoro, a tutela dei lavoratori coinvolti in questi processi. E consentirà anche l’introduzione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro, come il cosiddetto leasing di manodopera: una tecnica innovativa di gestione del personale imperniata su rapporti con agenzie specializzate – e debitamente autorizzate – nella fornitura a carattere continuativo e a tempo indeterminato (e non a termine, come nel lavoro interinale) di parte della forza-lavoro di cui l’azienda ha bisogno per alimentare il processo produttivo. Agenzie, precisa, che opererebbero in forme sicuramente più trasparenti e con maggiori tutele, di legge e di contratto collettivo, di quanto non accada oggi per effetto di vincoli soffocanti. Anche rispetto ai processi di esternalizzazione del lavoro, le misure contenute nel presente provvedimento consentiranno di avviare un percorso di riforma complessiva della materia, in modo che le istanze di tutela del lavoro non solo saranno mantenute ma anzi verranno rafforzate, sul piano della effettività, rispetto a forme di speculazione parassitaria sul lavoro altrui.
Passando ai contenuti specifici del provvedimento, il titolo I del decreto legislativo (recante disposizioni generali) chiarisce efficacemente l’obiettivo di dare attuazione ai principi della legge n. 30 del 2003 e agli orientamenti comunitari in materia di occupazione e apprendimento lungo l’intero arco della vita, come condizione per l’incremento dei tassi di occupazione e la promozione della qualità e della stabilità del lavoro. Sicuramente problematica è l’esclusione dal campo di applicazione della riforma Biagi della pubblica amministrazione, ma il Governo si è formalmente impegnato a convocare le parti sociali entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo al fine di valutare i profili – particolarmente complessi – di armonizzazione e un eventuale intervento normativo, coerentemente con il processo di privatizzazione del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, tracciato con la riforma del 1993.
Il titolo II (recante organizzazione e disciplina del mercato del lavoro) contiene le misure dirette a realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti intesi a garantire trasparenza ed efficienza del mercato del lavoro e a migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di una prima occupazione, con particolare riferimento alle fasce deboli del mercato del lavoro. In un mercato del lavoro altamente competitivo e soggetto a repentini mutamenti, particolare importanza assume la predisposizione di misure volte a modernizzare e rendere efficienti i servizi per l’impiego a sostegno della effettività dello politiche attive del lavoro e di workfare. È del resto l’Unione europea, nei rapporti annuali sull’occupazione, a segnalare le gravi carenze dell’Italia sul versante delle politiche occupazionali e a chiedere al Governo italiano uno sforzo straordinario per allineare i servizi per l’impiego agli standard europei.
Con lo schema di decreto legislativo il Governo intende, in primo luogo, intervenire per integrare e correggere un sistema di collocamento pubblico che ha ampiamente dimostrato i suoi limiti e disatteso le aspettative di coloro che cercano lavoro. Il soggetto pubblico oggi «governa» infatti poco più del 4-5 per cento dei 5 milioni di incontri tra domanda e offerta di lavoro che, ogni anno, si registrano sul mercato del lavoro italiano. L’assenza di un operatore pubblico efficiente alimenta distorsioni e prassi abusive, con la conseguenza di lasciare il lavoratore privo di adeguate tutele sul mercato: circostanza questa che spiega la particolare enfasi, in Italia ma non nei paesi dove esiste un’efficiente rete di centri per l’impiego, sulla disciplina limitativa del licenziamento. Lo schema predisposto si propone, dunque, la realizzazione di un duplice obiettivo: da un lato, lo snellimento e la semplificazione delle attuali rigide procedure di accesso al lavoro, in modo da portare a definitivo compimento la riforma approvata al volgere dello scorso anno, con il decreto legislativo 19 dicembre 2002, n. 297, ma già avviata nel 1997 con le riforme Treu e Bassanini; dall’altro, l’abilitazione allo svolgimento dell’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro anche a favore di un numero significativo di operatori privati qualificati, secondo un modello già sperimentato con successo negli altri paesi europei.
Pertanto, proseguendo sulla strada già inaugurata con l’introduzione del lavoro interinale, il Governo intende contrastare fenomeni di intermediazione fraudolenta e parassitaria – ampiamente diffusi nel paese e produttivi di effetti aberranti, anche in termini di esclusione sociale – e contrastare il ricorso a forme di lavoro sommerso che, com’è noto, assume dimensioni tre-quattro volte superiori a quanto si registra negli altri paesi europei.
L’intervento degli operatori privati, condizionato all’ottenimento di una specifica autorizzazione a livello nazionale o regionale per attività circoscritte al territorio di riferimento, fungerà da stimolo al miglioramento continuo delle performances dei servizi pubblici per l’impiego e consentirà la migliore circolazione delle informazioni relative al mercato del lavoro, in un clima di cooperazione in grado di garantire maggiori opportunità di accesso al lavoro.
Per ciò che riguarda il provvedimento autorizzatorio, si prevede la creazione di un regime unitario a livello nazionale – sia pure graduato, quanto ai requisiti giuridici ed economici, a seconda delle attività – per tutti gli operatori, pubblici o privati, che intendano svolgere attività di intermediazione, somministrazione, ricerca e selezione del personale, ricollocazione professionale. A seguito dell’intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata, non si esclude peraltro la possibilità di estendere il potere autorizzatorio anche al livello regionale, esclusivamente per le attività di intermediazione circoscritte nell’ambito territoriale di riferimento e in presenza di requisiti giuridici e finanziari già fissati a livello nazionale, per quanto compatibili.
Regimi particolari di autorizzazione sono previsti a favore degli enti locali, delle università pubbliche e private e degli istituti di scuola secondaria di secondo grado, pubblici e privati, nonché delle associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro, delle associazioni in possesso di riconoscimento istituzionale di rilevanza nazionale e aventi come oggetto sociale la tutela e l’assistenza delle attività imprenditoriali o del lavoro, degli enti bilaterali e dell’ordine nazionale dei consulenti del lavoro. Da questo punto di vista, l’ampiezza dei regimi particolari di autorizzazione ipotizzata nello schema di decreto legislativo è stata opportunamente circoscritta in sede di Conferenza unificata, limitando l’autorizzazione ope legis a casi limitati, e cioè alle università e alle fondazioni universitarie che operano nel campo delle politiche del lavoro e dell’occupazione. Rispetto agli enti locali e agli istituti scolastici è stato invece concordato di prevedere un regime autorizzatorio, pur sempre privilegiato, ma tale da consentire un adeguato controllo delle competenze professionali degli operatori abilitati all’intermediazione. Anche il concetto di ente locale è stato specificato, ed è ora opportunamente limitato ai comuni.
Come dimostra l’intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata, il raccordo tra livello nazionale e livello regionale è ampiamente valorizzato attraverso il sistema degli accreditamenti. Lo schema di decreto legislativo attribuisce, in primo luogo, alle regioni la possibilità di riconoscere ad un operatore, pubblico o privato, anche non autorizzato, l’idoneità a erogare i servizi al lavoro negli ambiti regionali di riferimento, anche mediante l’utilizzo di risorse pubbliche, nonché la partecipazione attiva alla rete dei servizi per il mercato del lavoro, con particolare riferimento ai servizi di incontro fra domanda e offerta. Il coordinamento tra servizi pubblici e privati operanti nell’ambito territoriale viene valorizzato, in secondo luogo, con specifico riferimento ai gruppi di lavoratori svantaggiati, attraverso la concessione di deroghe all’impianto generale della somministrazione di lavoro.
Nella prospettiva dell’integrazione sociale e del diritto al lavoro anche di tali soggetti è, infatti, prevista l’attivazione di specifiche misure di incentivazione a favore delle agenzie di somministrazione che, in convenzione con le regioni, le province o i comuni, dimostrino di aver predisposto e attuato uno specifico piano individuale di inserimento sociale e lavorativo del lavoratore svantaggiato. Si tratta di un provvedimento innovativo, che recepisce buone prassi europee e, dunque, da valutare positivamente, non solo per la particolarità e delicatezza delle problematiche che si propone di risolvere, ma anche perché, in tal modo, attraverso una logica di workfare, si evita il passaggio del soggetto svantaggiato al sistema di ammortizzazione sociale; un sistema che, spesso, rappresenta una trappola per la persona che riceve un sussidio, con conseguente cattivo utilizzo di risorse pubbliche.
Lo schema di decreto legislativo propone, altresì, la creazione di misure mirate, utili a favorire l’inserimento e la permanenza nel mercato del lavoro dei soggetti disabili, in modo da favorirne l’integrazione sociale e valorizzarne le capacità lavorative. Infatti, il Governo rileva che il sistema delineato dalla riforma del 1999 non appare sufficiente a garantire un proficuo inserimento dei lavoratori disabili nel mercato, anche a causa della scarsa considerazione delle problematiche inerenti al tipo e al grado di inabilità del soggetto. Nel decreto legislativo si incentiva una logica promozionale dei soggetti in questione mediante il ricorso all’ausilio delle parti sociali a livello locale che, in quanto più prossime al livello territoriale di riferimento, possono più efficacemente analizzare e comprendere i bisogni delle singole comunità e predisporre gli strumenti e le strategie più utili a realizzare l’obiettivo in parola. A tal fine si prevede inoltre una particolare valorizzazione del ruolo delle cooperative sociali, destinate, di raccordo con le associazioni datoriali e le organizzazioni sindacali, a definire convenzioni-quadro a livello locale. Sono inoltre previste, in un’ottica promozionale, misure volte ad incrementare il grado di appetibilità per le imprese.
Nello schema di decreto legislativo resta tuttavia da precisare con maggiore puntualità il concetto di lavoratore svantaggiato, e comunque del fruitore delle misure promozionali di inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro, eventualmente attraverso una specificazione delle categoria contemplate nell’articolo 2, lettera f), del regolamento (CE) n. 2204/2002 della Commissione del 12 dicembre 2002, relativo alla applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato a favore dell’occupazione. Occorre quantomeno coordinare la nozione comunitaria di lavoratore svantaggiato con quella contenuta nella legge n. 381 del 1991 sulle cooperative sociali.
Per la creazione di un sistema di accesso all’impiego efficace e trasparente, il Governo ritiene sia di fondamentale importanza il ricorso alla rete e ai nuovi strumenti di comunicazione. Attraverso l’immissione in una borsa continua nazionale del lavoro delle informazioni relative alla domanda-offerta di lavoro, infatti, sarà consentito un libero e stabile collegamento su scala nazionale dei fruitori dei servizi, evitando la dispersione di informazioni rilevanti ai fini di una maggiore efficienza dei servizi per l’impiego. Nella borsa continua nazionale del lavoro, liberamente fruibile dai lavoratori o dalle imprese, anche in assenza di intermediari autorizzati o accreditati, gli operatori pubblici o privati sono invece obbligati a immettere i dati acquisiti, pur nel rispetto del diritto del lavoratore a fissare limiti alla diffusione dei propri dati. Viene, in tal modo, opportunamente creato un luogo in cui non solo sono facilmente reperibili tutte le informazioni utili alla ricerca o all’offerta di lavoro, ma in cui è anche possibile comprendere le dinamiche reali del mercato e programmare politiche di intervento locali e mirate.
La creazione di un sistema informatico di raccolta dei dati, non comporta, comunque, una lesione del diritto alla privacy dei lavoratori. Difatti, resta garantito il diritto di ogni lavoratore di controllare il flusso di informazioni immesse nella rete, in modo che queste non raggiungano soggetti o categorie non desiderate. A tutela della privacy del soggetto, il decreto legislativo vieta inoltre alle agenzie per l’impiego e a tutti i soggetti autorizzati a svolgere attività di intermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro di effettuare indagini relative alle convinzioni personali dei soggetti, ad eccezione di quelle rilevanti ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa.
Il titolo III si occupa della somministrazione di lavoro, dell’appalto e del distacco. Esaminando innanzi tutto la disciplina della somministrazione del lavoro, rileva che nel paese è tuttora vigente, salvo la breccia aperta con la legge n. 196 del 1997, che ha introdotto il lavoro interinale, una rigorosa disciplina, risalente al 1960, che vieta la somministrazione di lavoro altrui. Si tratta di una normativa che, oltre ad impedire la modernizzazione e il raggiungimento degli obiettivi di qualità delle imprese – opponendosi in sostanza alla realizzazione di un genuino decentramento, che consenta di dislocare all’esterno dell’azienda segmenti di attività – fomenta fenomeni che, sotto le false vesti dell’appalto, nascondono in realtà vere e proprie forme di interposizione fraudolenta, dirette cioè a comprimere se non addirittura ad annullare diritti del lavoratore. In sostanza, attraverso l’utilizzazione di forza-lavoro formalmente assunta da terzi, l’imprenditore interponente riesce a comprimere il costo del lavoro e ad evitare di assumersi le responsabilità e gli obblighi inerenti al rapporto di lavoro dipendente.
Il decreto legislativo, preso atto dei processi di trasformazione dell’economia in corso, intende superare tale obsoleta normativa – completamente superata dai processi normativi reali e, in ogni caso, già in parte elasticizzata dalla giurisprudenza – e proseguire nella direzione indicata dagli altri paesi europei. Ciò non solo nell’ottica dell’incremento delle possibilità dell’impresa in relazione alle logiche della esternalizzazione, ma soprattutto nell’interesse degli stessi lavoratori, attualmente esposti ad intollerabili forme di abusivismo. Il decreto legislativo reagisce a tali forme di speculazione parassitaria sul lavoro altrui mediante la scrittura di un quadro normativo moderno e maggiormente idoneo a soddisfare quelle istanze di tutela del lavoro di cui oggi i lavoratori risultano completamente sprovvisti. L’effetto ipotizzato è quello di una sostanziale progressione rispetto alla realtà esistente, che viene ora attratta verso forme di decentramento genuino e normativamente controllato.
A tale scopo lo schema di decreto legislativo, oltre a confermare la liceità dell’appalto, specificandone i contenuti in modo coerente con i più attuali orientamenti giurisprudenziali, legittima il ricorso alla somministrazione di manodopera, attraverso la previsione di due distinte modalità: da un lato, ampliando, attraverso l’introduzione di una clausola generale riferita a «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo», le ipotesi in cui è possibile il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato; dall’altro, introducendo la possibilità di concludere contratti di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, secondo modelli già ampiamente diffusi in ambito comparato, seppure nei soli casi tassativamente previsti dalla legge, eventualmente integrabili dalla contrattazione collettiva.
Nonostante lo scalpore suscitato dalla previsione della disciplina dello staff leasing, va sottolineato e ribadito che il decreto legislativo non rinunzia affatto ad introdurre forme di tutela dei lavoratori somministrati. Anzi, nel processo di liberalizzazione disposto dal provvedimento, si ha particolare riguardo ai diritti del lavoratore: abilitati a operare nel mercato della somministrazione sono esclusivamente quegli operatori che, in possesso dei requisiti necessari a tal fine, abbiano ottenuto l’autorizzazione allo svolgimento di detta attività. Operatori seri e affidabili, dunque, selezionati sulla base del possesso di specifici requisiti giuridici e finanziari, proprio a tutela dei diritti del lavoratore e non caporali irresponsabili, incapaci o non disposti ad assicurare alcuna garanzia, come troppo spesso accade nel caso degli appalti di servizi. Inoltre, il decreto legislativo stabilisce il principio generale della parità di trattamento dei lavoratori somministrati, rispetto ai dipendenti dell’utilizzatore e conferma il regime delineato dalla legge n. 196 del 1997, con riguardo alla ripartizione degli obblighi e delle responsabilità tra utilizzatore e somministratore. Allo stesso modo, si prevede il mantenimento della disciplina delineata dal legislatore del 1997 anche con riguardo ai diritti sindacali e alle garanzie collettive. Confermato è anche l’obbligo, in capo ai soggetti autorizzati alla somministrazione, del versamento in un apposito fondo di un contributo destinato ad essere impiegato per sostenere il reddito dei lavoratori somministrati e per promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale. Infine, viene sostanzialmente ribadito il regime sanzionatorio civilistico e penalistico previsto per i casi di violazione della disciplina della mediazione privata nei rapporti di lavoro; regime che viene rafforzato dalla previsione di specifiche sanzioni penali per le ipotesi di esercizio abusivo della attività di intermediazione privata e per il caso di sfruttamento del lavoro minorile.
Da questo punto di vista lo schema di decreto legislativo contribuirà anche alla soluzione di alcuni delicati problemi – sollevati in ordini del giorno parlamentari – di transizione dal regime sanzionatorio della legge n. 1369 del 1960 al nuovo regime penalistico, circoscritto alle ipotesi di interposizione fraudolenta e abusiva, laddove la legislazione del 1960 sanzionava penalmente anche forme di somministrazione oggi ritenute pienamente lecite e, rispetto alle quali, cade dunque il contenzioso in atto.
Osserva poi che, al di là di ogni formalismo, il regime dello staff leasing è da tempo conosciuto in Italia, attraverso il sistema degli appalti di servizi che, in un numero significativo di casi, garantiscono il ricorso continuativo a personale dipendente dall’appaltatore, senza tuttavia apprestare un quadro di regole e garanzie paragonabile a quello delineato nello schema di decreto legislativo. Prestazioni di lavoro svolte, in regime di appalto, nell’ambito dei lavori di facchinaggio, pulizia, custodia, vigilanza potranno ora essere ricondotte a un impianto normativo che, nel garantire alle imprese utilizzatrici ampi margini di flessibilità, riconosce tuttavia la centralità della tutela del lavoratore a cui vengono garantite, come visto, adeguate tutele non solo nel rapporto di lavoro ma anche nel mercato, soprattutto con riferimento alla gestione delle situazioni di fine lavoro.
La nuova regolamentazione della somministrazione di lavoro ha reso necessario anche un intervento in materia di appalti di servizi. Nello schema di decreto legislativo viene chiarito che, ai fini dell’applicazione delle norme in materia di intermediazione e interposizione nei rapporti di lavoro, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per l’esercizio pieno da parte dell’appaltatore del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto e il possesso da parte sua, o di suo personale utilizzato nell’appalto, della professionalità specifica corrispondente alle esigenze tecniche del servizio dedotto in contratto. Oltre all’enfasi sulla titolarità del potere direttivo, un ruolo centrale va attribuito al concetto civilistico di appalto. Il richiamo all’articolo 1655 del codice civile è sufficiente a precisare che l’appalto di servizi, come ogni altro contratto di appalto, presuppone l’assunzione di un rischio tipico di impresa ed una organizzazione di mezzi; mezzi che, come specificato dalla giurisprudenza in vigenza della legge n. 1369 del 1960, possono anche essere immateriali.
Anche con riguardo alla disciplina del distacco il decreto legislativo pone particolare attenzione al rispetto dei diritti del lavoratore, richiedendo il consenso – oggi non previsto dall’ordinamento – dello stesso lavoratore nelle ipotesi in cui il distacco comporti il mutamento delle mansioni normalmente svolte, nonché l’esistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive quando implichi il trasferimento ad unità produttiva distante oltre 50 chilometri rispetto a quella presso cui è normalmente adibito.
La nuova disciplina del trasferimento d’azienda è contenuta nel titolo IV del decreto attuativo della legge n. 30 del 2003. Lo schema di decreto legislativo di attuazione della legge Biagi integra il disposto di cui all’articolo 2112 del codice civile, con l’obiettivo di razionalizzare i processi di esternalizzazione e di provvedere, recependo le recenti direttive del Parlamento e del Consiglio europeo, al riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri sotto il profilo del mantenimento dei diritti dei lavoratori nelle ipotesi di trasferimento di imprese, stabilimenti o di loro parti. Così, in primo luogo, è eliminato il riferimento alla necessaria preesistenza del requisito dell’autonomia funzionale del ramo di azienda – requisito non previsto dalle fonti comunitarie – richiedendosi semplicemente che tale autonomia – intesa come conservazione, in capo al ramo ceduto, di un minimo di mezzi necessari allo svolgimento di una attività, sia essa essenziale o accessoria – sia valutata dal cedente e dal cessionario al momento stesso del trasferimento. In tal modo il decreto legislativo, mostrando una piena consapevolezza della necessità di agevolare quelle forme di decentramento e segmentazione dell’attività produttiva e organizzativa così connaturate alle esigenze di un’economia moderna, provvede ad adeguare la disciplina lavoristica alle nuove realtà ed esigenze, allentando gli elementi di rigidità attualmente esistenti e aprendo alle imprese nuovi spazi di azione in materia di organizzazione dell’attività produttiva. Allo stesso modo, il decreto legislativo disciplina anche le ipotesi in cui la cessione del ramo di azienda sia disposta in connessione a un contratto di appalto, così considerando anche il caso in cui la cessione sia disposta in vista del ritorno della ceduta attività nella disponibilità del cedente.
Con riguardo ai profili di tutela dei lavoratori coinvolti in tali processi di decentramento produttivo, rileva come non abbiano ragione di esistere timori di elusione delle tutele. Al contrario, il legislatore delegato intende estendere le garanzie di continuità occupazionale a tutti quei casi in cui sarebbe estremamente facile per l’impresa «svuotare», attraverso le normali procedure di licenziamento, i rami non trasferibili in quanto non preventivamente dotati di autonomia funzionale. Sul punto, peraltro, lo schema di decreto legislativo dà attuazione a quanto previsto nel Patto per l’Italia in un contesto in ogni caso rispettoso della disciplina comunitarie della materia.
Oggetto del titolo V del decreto di attuazione della legge Biagi sono le tipologie contrattuali ad orario ridotto, modulato o flessibile, tipologie ritenute fondamentali, nell’ambito della Strategia Europea per l’occupazione, per realizzare l’obiettivo di un contesto organizzativo moderno e in grado di contemperare le istanze di tutela del lavoro con le esigenze di flessibilità e adattabilità delle imprese. La modulazione degli orari di lavoro risulta peraltro decisiva anche nella prospettiva di incremento dei tassi di occupazione. Basti pensare che i Paesi Bassi registrano un uso del lavoro a tempo parziale intorno al 45 per cento della forza lavoro. Circostanza questa che ha consentito in pochi anni di innalzare considerevolmente i tassi di occupazione. Quello che era uno dei peggiori mercati del lavoro in Europa registra oggi tassi di occupazione di 20 punti percentuali maggiori rispetto al caso italiano.
Con riguardo ai lavoratori, in particolare, il lavoro a tempo parziale costituisce un importante strumento in grado di consentire una equa distribuzione delle occasioni di lavoro regolare esistenti, nonché una valida alternativa ai licenziamenti nelle ipotesi di esubero di personale, oltre che un modo per conservare la disponibilità di tempo di non lavoro. Per le imprese, invece, il lavoro a tempo parziale consente di acquisire buone dosi di flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro e dunque la possibilità di adattamento alle reali necessità dei cicli produttivi.
Ampiamente valorizzato dal legislatore comunitario e dagli altri paesi europei, il lavoro a tempo parziale è utilizzato in Italia in misura assai ridotta, nonostante gli incentivi economici ad esso connessi, specie a causa dell’esistenza di una normativa complessa e rigida, che non trova pari negli altri paesi europei: una normativa fonte di gravi difficoltà di applicazione che finiscono con il danneggiare gli stessi lavoratori, ai quali è preclusa la possibilità di accesso ad una forma di impiego a orario ridotto, ben più garantista rispetto ad altre forme di flessibilità, diffusissime nel paese, ma sprovviste di una disciplina compiuta ed adeguata alle istanze di tutela del lavoro.
Il decreto legislativo attuativo della legge di riforma del mercato del lavoro propone ora di intervenire sui testi normativi già esistenti, provvedendo a correggerne – in linea con le indicazioni provenienti in ambito comparato – i profili che ostacolano la diffusione piena del lavoro a tempo parziale e a mitigare i vincoli che comprimono ingiustificatamente l’autonomia delle parti sociali e contrattuali.
In una ottica di piena valorizzazione della volontà delle parti collettive, il decreto legislativo ipotizza innanzitutto modifiche dell’attuale disciplina in materia di lavoro supplementare nel part-time orizzontale, agevolando il ricorso ad esso tramite il rinvio ai contratti collettivi per la fissazione dei tetti massimi e delle relative causali, nonché in riferimento alle conseguenze in caso di superamento di tali tetti. L’effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare è ugualmente possibile, anche in assenza di specifiche previsioni collettive, qualora il dipendente interessato presti il proprio consenso. Quest’ultima rappresenta una soluzione di importanza fondamentale ai fini del lavoratore part-time che sia interessato ad incrementare la sua prestazione, concedendogli la possibilità di una scelta effettiva, basata su personali motivazioni ed esigenze, al di fuori del controllo e dei limiti imposti da vincoli legali o contrattuali. È chiaro però che questa possibilità sarà concessa in via meramente sussidiaria, e cioè solo in mancanza di apposita disciplina di fonte sindacale.
Con riguardo al lavoro a tempo parziale verticale o misto, l’esigenza di flessibilità è soddisfatta attraverso la previsione della possibilità di variare tanto la collocazione temporale (clausole flessibili) quanto l’estensione (clausole elastiche) della prestazione lavorativa. In questo caso, ai contratti collettivi è attribuito il compito di determinare le condizioni e le modalità di operatività di dette clausole, oltre che di prevedere, a favore del prestatore, un termine di preavviso e l’ammontare delle connesse compensazioni. Anche in questa ipotesi, a garanzia della libertà di scelta del prestatore, è prevista la necessità del consenso, attraverso uno specifico patto, nonché la possibilità di concordare direttamente con il datore di lavoro l’adozione delle clausole elastiche o flessibili, in assenza di apposite disposizioni contrattuali collettive.
Quanto al contratto di lavoro ripartito – già sperimentato nella prassi in seguito alla ricezione nei contratti collettivi del contenuto della circolare ministeriale del 1998 – lo schema di decreto legislativo fornisce ora una cornice legale maggiormente idonea ad incentivarne l’utilizzo. Fermo restando che lo schema di decreto legislativo dovrebbe meglio precisare che si è di fronte ad una vera e propria forma di lavoro dipendente, seppure speciale, si tratta di una disciplina moderna che valorizza adeguatamente il ruolo della fonte collettiva, cui è demandata la regolamentazione dei profili di dettaglio dell’istituto. Nella prospettiva del contemperamento tra le esigenze di flessibilità imprenditoriale, il rispetto dei tempi di vita del lavoratore e la creazione di nuova occupazione, il lavoro ripartito rappresenta una risorsa preziosa. Si tratta di una formula contrattuale che consiste nel far occupare a due persone lo stesso posto di lavoro: in sostanza, due (o più) lavoratori si obbligano in solido a garantire al datore di lavoro l’adempimento dell’intera prestazione lavorativa corrispondente ad un posto di lavoro a tempo pieno e a rispettare il vincolo della continuità, ma autogestiscono le modalità di svolgimento temporale della prestazione, dividendosi discrezionalmente le ore di lavoro.
Costituisce solo apparentemente una significativa novità nel panorama delle tipologie contrattuali presenti nel nostro ordinamento la figura del cosiddetto lavoro intermittente o a chiamata: uno schema contrattuale mediante il quale il lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro per l’effettuazione di prestazioni rispondenti a esigenze di carattere temporaneo dello stesso. Si tratta di una formula contrattuale non solo già ipotizzata in alcuni contesti aziendali (come la Zanussi), ma anche sostanzialmente realizzata sotto forma di collaborazione coordinata e continuativa, e cioè nei casi in cui il collaboratore viene chiamato a lavorare ad intermittenza dal committente, senza peraltro ricevere alcuna indennità per l’eventuale disponibilità garantita. La nuova disciplina vuole dunque ricondurre ad un quadro di diritti e tutele il ricorso a prestazioni di carattere intermittente e accessorio rese in regime di disponibilità. È in questa prospettiva, di incremento delle tutele, che viene introdotta la facoltà del lavoratore di vincolarsi alla chiamata del datore di lavoro, ottenendo in cambio una congrua indennità di disponibilità il cui ammontare sarà determinato dai contratti collettivi e periodicamente aggiornato.
Altro capitolo centrale della riforma è la revisione dei contratti di apprendistato e di inserimento, che sono disciplinati all’interno del titolo VI. Normalmente utilizzati impropriamente, e cioè a fini di contenimento del costo del lavoro e di attenuazione delle rigidità delle normative di tutela proprie del rapporto di lavoro subordinato, i contratti a contenuti formativi si accingono ora a essere razionalizzati dal decreto di riforma e incentivati, nella prospettiva di valorizzare l’apprendimento lungo l’arco della vita, dalla previsione di una serie di incentivi economici e normativi a favore delle imprese. In particolare, il decreto legislativo realizza una incisiva separazione, da tempo prospettata ma mai realizzata, tra il contratto di apprendistato, qualificandolo come uno strumento diretto alla formazione per il mercato, e il contratto di inserimento, più direttamente connesso all’obiettivo occupazionale di gruppi di lavoratori svantaggiati.
Con riferimento all’apprendistato sono previste tre tipologie, distinte quanto a percorsi e finalità. Il «contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione» è finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale da parte di giovani, adolescenti e soggetti che non abbiano completato il normale percorso di istruzione. Il «contratto di apprendistato professionalizzante» è diretto al conseguimento di una qualificazione, mediante la partecipazione a iniziative formative in grado di trasmettere specifiche competenze professionali. Il «contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione» è, infine, introdotto ai fini del conseguimento di una cultura più specializzata.
Quanto al contratto di inserimento, esso è chiamato a sostituire il contratto di formazione e lavoro, con la precipua funzione di realizzare un inserimento o reinserimento del lavoratore nel mercato, attraverso la preparazione e attuazione di un piano individuale in grado di adeguare le competenze professionali del lavoratore ad un dato contesto lavorativo.
In relazione a queste figure contrattuali di lavoro ritiene invero eccessivo lo spinto rinvio alla legislazione regionale, evidente soprattutto con riferimento all’apprendistato. Più ragionevole, e coerente con il sistema di competenze delineato nel Titolo V della Costituzione, riterrebbe rinviare alle regioni unicamente per la disciplina dei percorsi formativi, mantenendo a livello nazionale, eventualmente in stretto dialogo con la fonte collettiva, la regolazione del rapporto di lavoro vero e proprio. Questo è del resto quanto concordato da Governo e regioni in sede di Conferenza unificata.
Particolarmente delicato è anche il profilo delle modalità della formazione in apprendistato. In sede di Conferenza unificata è stato confermato il rinvio, centrale nell’impianto del decreto legislativo, ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative per la determinazione, anche all’interno degli enti bilaterali, delle modalità di erogazione e dell’articolazione della formazione, esterna e interna alle singole aziende, anche in relazione alla capacità formativa interna rispetto a quella offerta dai soggetti esterni. Sempre in sede di Conferenza unificata si è peraltro specificato che il monte ore minimo annuale di formazione, pari a 120 ore, dovrà essere riferito a percorsi di formazione «formale», con riferimento all’acquisizione di competenze di base e tecnico-professionali, con ciò confermando l’importanza anche della formazione interna all’azienda.
Rispetto al contratto di inserimento non si dovrebbe peraltro escludere la possibilità di circoscrivere in modo più marcato i casi in cui è possibile la fruizione degli incentivi economici, in modo rendere maggiormente selettivo l’incentivo all’assunzione dei gruppi svantaggiati.
All’interno del titolo VII si prevede la disciplina delle tipologie contrattuali a progetto e occasionali. Al fine di evitare, come oggi spesso avviene, l’elusione delle normative di tutela collegate al rapporto di lavoro subordinato attraverso l’abuso delle collaborazioni coordinate e continuative, il legislatore delegato ha precisato le modalità di svolgimento di dette collaborazioni ancorate ora ad un progetto, programma di lavoro o fase di esso.
Ritiene opportuno precisare che non si introduce una nuova forma contrattuale, il lavoro a progetto, ma, più semplicemente, una modalità organizzativa attraverso cui vagliare la genuinità delle molteplici prestazioni di lavoro atipiche riconducibili al lavoro coordinato e continuativo. Non si estende dunque il numero delle forme di lavoro flessibile, ma si razionalizza un terreno fino ad oggi governato, il più delle volte in forma elusiva delle regole del diritto del lavoro, dalla semplice autonomia negoziale delle parti. Si prevede, dunque, che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, siano ricondotti «a uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso», al fine di verificarne la reale autonomia organizzativa e operativa. Tali progetti – la cui assenza determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in capo al lavoratore, con decorrenza dalla data di costituzione del rapporto – dovranno essere determinati dal committente; con riguardo alla gestione del tempo di esecuzione del lavoro, si concede invece al collaboratore una più ampia discrezionalità, pur nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente.
L’operazione sui cosiddetti co.co.co. è emblematica della filosofia dell’intervento promosso dal Governo sulle forme di flessibilità nel lavoro. Qualche commentatore ha parlato di ben 44 forme di flessibilità e precisamente di 6 nuove tipologie contrattuali che si aggiungerebbero alle 38 attuali. Si tratta di una mistificazione che non tiene conto della realtà del mercato del lavoro italiano. Le flessibilità nel paese non sono infatti 38 o 44, ma molte di più. Inseguendo quei commentatori che amano il gusto del paradosso ritiene che si potrebbe sostenere che le flessibilità oggi sono oltre i 5 milioni, tante sono le posizioni di lavoro irregolare o sommerso finalizzate all’evasione contributiva e all’elusione dell’apparato protettivo del diritto del lavoro. E sono oltre 5 milioni perché, in questi casi, ogni singolo rapporto di lavoro è orientato alla massima flessibilità e alla più completa deregolamentazione. Attraverso la regolazione delle collaborazioni coordinate e continuative contenuta nello schema di decreto legislativo, una variegata tipologia di rapporti di lavoro atipici e di difficile classificazione (si parla di due milioni e mezzo di collaboratori) verrà chiaramente circoscritta e ricondotta a un unico modulo negoziale, quello del lavoro a progetto. Le finte collaborazioni, e cioè quelle forme di flessibilità impropria che alimentano una concorrenza sleale tra le imprese e lo sfruttamento del lavoro, verranno invece ricondotte alla loro sede naturale, e cioè al lavoro dipendente.
Lo schema di decreto legislativo prevede, in ogni caso, un regime transitorio di un anno per il passaggio al nuovo regime. Si tratta dunque di un intervento graduale che, peraltro, non impone la fine delle collaborazioni coordinate e continuative, ma solo degli abusi che si sono prodotti sotto questa forma contrattuale. In aderenza agli impegni contenuti nel Patto per l’Italia, le collaborazioni coordinate e continuative sono riformate in modo tale da confermare la loro riconducibilità all’area del lavoro autonomo (con un impegno ad incrementare il relativo prelievo contributivo), fermo restando l’impegno ad arginare con adeguata strumentazione il fenomeno delle collaborazioni fittizie, che andranno, invece, correttamente ricondotte, anche in virtù di un potenziamento dei servizi ispettivi previsto dall’articolo 8 della legge Biagi, a fattispecie di lavoro subordinato sulla base di criteri oggettivi. Così ricollocate, le collaborazioni coordinate e continuative fittizie verranno ricondotte alle diverse tipologie di lavoro dipendente, escludendosi, peraltro, ogni automatica riconduzione al lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Al fine di evitare equivoci riterrebbe opportuno escludere dal campo di applicazione delle nuove disposizioni in materia di collaborazioni coordinate e continuative non solo le professioni intellettuali, per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi, ma quantomeno i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e i partecipanti a collegi e commissioni. Considererebbe altresì importante chiarire che ai fini del giudizio sulla riconducibilità della collaborazione al lavoro a progetto, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento dell’esistenza del progetto, programma di lavoro o fase di esso e che, per contro, non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente.
Anche il concetto di lavoro occasionale potrebbe essere meglio precisato. Dalle disposizioni del decreto legislativo andrebbero infatti esclusi i rapporti di durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare, «anche da più committenti» sia superiore a 5 mila euro. Tale modifica nella definizione del concetto di occasionalità consentirebbe infatti di coordinare, nella definizione di prestazione occasionale, sia il limite temporale della prestazione a favore del singolo committente sia l’importo del corrispettivo percepito nel corso dell’esercizio. Tale corrispettivo, nella sua entità complessiva, non deve infatti essere tale da giustificare la regolare iscrizione camerale, IVA ed ai fini previdenziali. L’attuale letterale tenore del comma 2, dell’articolo 61, invece, renderebbe possibile definire «prestazione occasionale» (e come tale fuori dal campo IVA e non assoggettata a contribuzione previdenziale) quella prestata a favore di più committenti per una durata unitaria inferiore ai 30 giorni e per un compenso minore di 5 mila euro da ciascun committente.
Il decreto legislativo si propone, infine, con l’introduzione del lavoro accessorio, di intervenire in via sperimentale a colmare le lacune dell’ordinamento con riferimento a quelle attività occasionalmente svolte in favore delle famiglie o degli enti senza fini di lucro, con l’obiettivo specifico di favorire l’emersione di realtà che sfuggono totalmente al quadro giuridico attuale e attribuire ai lavoratori alcuni diritti propri del lavoro subordinato. Il metodo proposto, secondo una tecnica mutuata dall’ordinamento belga, prevede l’acquisto, in luoghi facilmente accessibili e diffusi sull’intero territorio (giornalai, tabaccherie, uffici postali) di «buoni» con i quali in sostanza si acquistano ore di lavoro che verranno effettuate da lavoratori iscritti in apposite liste tenute presso i centri provinciali per l’impiego o presso gli operatori autorizzati allo svolgimento di attività di intermediazione.
Le procedure di certificazione costituiscono l’oggetto del titolo VII. Già sperimentate con successo a livello locale, le procedure di volontà assistita introdotte dal decreto di attuazione della legge n. 30 del 2003 mirano alla realizzazione dell’obiettivo della trasparenza del mercato e alla riduzione del carico giudiziario, specie in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro. Gli organi preposti all’espletamento delle procedure di certificazione, aditi volontariamente dalle parti contrattuali interessate, sono individuati dal decreto legislativo negli enti bilaterali, nelle direzioni provinciali del lavoro e nelle università. Riterrebbe peraltro opportuno prevedere adeguate competenze in materia anche alle province. In ogni caso, l’istituzione delle sedi di certificazione costituirà un valido ausilio per le parti contrattuali che, assistite da soggetti qualificati, avranno più validi strumenti di informazione ai fini della conclusione delle intese contrattuali.
Quanto alle procedure di certificazione, il decreto legislativo prevede che ciascuna sede abilitata allo svolgimento delle attività di volontà assistita determini autonomamente le procedure, sia pure nel rispetto di codici appositamente predisposti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali che tengano conto dei prevalenti orientamenti giurisprudenziali, così da garantire pratiche uniformi sull’intero territorio nazionale. Con riferimento ai benefici effetti dell’esperimento delle procedure di certificazione in merito alla deflazione dei carichi giudiziari, si prevede – ferma restando la possibilità di impugnazione dei documenti certificati in sede giudiziale – che la commissione certificante l’atto impugnato sia competente ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile.
Per sostenere adeguatamente i meccanismi di certificazione e le relative procedure, nel rispetto dell’attuale quadro legale, risulta peraltro opportuno chiarire la esperibilità dei rimedi in via amministrativa in caso di vizi procedurali.
Il titolo IX, dedicato alle disposizioni transitorie e finali, contiene il regime delle abrogazioni e delle disposizioni finali, talune di carattere transitorio, che regolamenteranno l’entrata in vigore del provvedimento e di quelle parti di esso che hanno natura sperimentale. È questa forse la parte più lacunosa del provvedimento, in quanto le misure introdotte nel decreto disciplinano nuovamente una serie cospicua di istituti che, per razionalità e certezza del diritto, impongono di procedere a maggiore chiarezza e completezza nel regime delle abrogazioni includendo, in ogni caso, una clausola finale di salvaguardia che dia luogo all’abrogazione di tutte le norme non compatibili con il nuovo quadro legale. Anche rispetto al regime transitorio, ribadita l’opportunità di una gestione collettiva della transizione dal vecchio al nuovo regione, eventualmente mediante accordo interconfederale, occorrerà approfondire le fasi di passaggio alla nuova disciplina con specifico riferimento ai regimi di autorizzazione alla somministrazione di lavoro.
Angelo SANTORI, presidente, rinvia il seguito dell’esame ad altra seduta.