Pier Paolo Baretta – Segretetario Confederale Cisl
La ripresa autunnale rappresenta il momento delle verifiche e dei programmi. Due le principali novità con le quali confrontarci, una politica e l’altra economica. La prima: dopo la vittoria elettorale del centrodestra ci siamo trovati a che fare con una maggioranza forte, sia numericamente che politicamente, ed una opposizione debole, più politicamente ed in Parlamento che nel Paese. Nel corso del tempo questa granitica condizione di partenza della maggioranza si è erosa. Il Governo è stato costretto a fare i conti con la realtà, più per merito dello sciopero generale prima e del patto per l’Italia poi, che non per i girotondi. Ma hanno fatto di più Bossi, Tremonti, Fini e Buttiglione nel rendere esplicito il vulnus di una coalizione nella quale si sopportano valori tra loro alternativi. La intrinseca positività della politica, anche in tempi miseri, viene dal fatto che non c’è interesse materiale o elettorale che, alla lunga, riesca a tenere a bada le idee, le concezioni del mondo, i progetti, le strategie.
Sicché, dopo una primavera-estate di liti su questioni dirimenti sulla concezione dello Stato e della società, oggi abbiamo a che fare con una maggioranza ancora forte nei numeri (il che farà evitare la scelta di elezioni anticipate), ma debole politicamente. Il che non è detto sia una bella notizia per chi, come il sindacato, ha bisogno di interlocutori autorevoli con i quali realizzare un confronto. Il rischio, dunque, è quello di avere davanti a noi un periodo alla Petrolini, nel quale un Gastone o un Nerone si autoilludono del loro fascino e potere e li ostentano, offrendo spettacoli desolanti.
Per il benessere del Paese sarebbe auspicabile che quella componente trasversale ai partiti della coalizione di maggioranza di stampo sociale riformista battesse un colpo. Prospettive strategiche, contenuti programmatici, autorevolezza nella cultura di governo: anche per la Casa delle libertà si porrà, prima o poi, il problema del rinnovamento del gruppo dirigente. Un analogo problema di ricambio della classe politica si pone per l’opposizione. Le doti di Fassino ed il carisma di Prodi non sono in discussione, anche se Telekom Serbia lascerà, in ogni caso, qualche segno. Ma la diatriba sul partito unico, più che sulla lista unica, ha posto al centro la questione della prospettiva. Né la Margherita né i Ds possono uscire intatti dalla lista unica, ma, ormai, non è nemmeno possibile che tutto resti come è. I casi sono due: o l’equivoco è in Italia, ovvero in un bipolarsismo transideologico, oppure in Europa, dove gli schieramenti partitici europei sono troppo schematici. In tal senso l’esperienza del gruppo Artemide andrebbe rilanciata sia in Europa che in Italia.
La seconda novità riguarda la situazione economica. Il centrodestra ha impostato il suo programma elettorale (meno tasse, più pensioni, grandi opere pubbliche) su uno sviluppo economico atteso e più volte sbandierato, ma che non si è mai avverato: crescita del 3 per cento del Pil; 1,4 di inflazione e deficit all’interno nei parametri. Al contrario, siamo, rispettivamente, allo 0,3 tendenziale di crescita, al 2,8 di inflazione e con la necessità di inventarsi una finta e dannosa riforma delle pensioni per poter questuare a Bruxelles uno sforamento del debito. La riduzione delle imposte non può che venir rinviata, le pensioni anziché aumentare vengono erose e le opere pubbliche languono. Chi paga di più sono il Sud e gli anziani, ma tutto ciò non interessa la devolution.
La situazione, pur molto diversa nel merito, assomiglia nei suoi tratti a quella di inizio anni 90. Eppure, quella strada che ci consentì di uscire dalle secche non viene presa in considerazione. Il Governo non vuole ammettere che siamo in una fase di recessione; rinvia sperando che la locomotiva americana riprenda il cammino. Ma la Cina è davvero più vicina di quanto si pensi. Le industrie americane delocalizzano anche i colletti bianchi nell’Est del mondo e la competitività assume caratteristiche originali ben diverse, con buona pace di questa Confindustria, dalla gara sui costi che una economia globale in ogni caso ci pone. Qualità, tecnologie, ricerca e formazione sono ancora più parole che sostanza, mentre invece il dibattito politico e mediatico si concentra sulle pensioni, sulle tangenti, sui giudici.
L’insegnamento di Mao direbbe che la situazione è quasi eccellente. Senza arrivare a tanto, ritengo che questa congiuntura vada trasformata in opportunità. Non vedo alternative ad una battaglia politico-sociale che rilanci un riformismo capace di coniugare risanamento, equità e solidarietà. Un nuovo 23 luglio può essere la strada ed il banco di prova. Non è necessario un maxi accordo quadro, sarebbe meglio una rete di intese, bilaterali o trilaterali, ma attorno ad un filo conduttore capace di rispondere a due domande chiave sul lavoro e lo Stato sociale. Innanzitutto: quale lavoro e quali relazioni sociali. La legge 30, con le sue luci e le sue ombre, ha operato una rivoluzione del diritto del lavoro che non è stata accompagnata da una altrettanto robusta rivoluzione culturale. Per recuperare questo gap è necessario completare e correggere il merito attraverso l’accordo interconfederale previsto.
Ma è anche urgente prevedere uno sbocco politico delle novità introdotte dalla legge Biagi, considerando conclusa la discussione sulle flessibilità e aprendo quella sulla struttura della organizzazione capitalistica della produzione postfordista. Core businnes, logistica, filiera ecc. sono elementi della nuova impresa diffusa che necessitano di nuove definizioni, anche teoriche, ma che porteranno nuove conseguenze merceologiche ed operative. L’attenzione sindacale è su questi punti piuttosto scarsa, o in ritardo, ma è dalla capacità di riconoscere e rispondere a questi nuovi processi che nascerà il nuovo sindacato. Partecipazione, riforma della contrattazione e della rappresentanza sono tre temi ineludibili se si vuole continuare ad essere protagonisti nel mondo del lavoro futuro.
In secondo luogo, quale Stato sociale. E’ l’altra domanda chiave della prospettiva riformista. I problemi di equità sono immediati e debbono coniugarsi con quelli di sostenibilità. Confondere struttura con cassa, o assistenza con previdenza non consente di affrontare seriamente la questione. Anche qui manca un tavolo di confronto organico che si sviluppi nella direzione di una nuova politica dei redditi. La presenza in Finanziaria di due tabelle relative al tasso di inflazione: una per quello programmato, l’altra per quello tendenziale finisce per proporre un idea pericolosa: bassi salari ma alti prezzi. Bisognerà certamente alzare il tasso programmato, ma anche adottare politiche di contenimento destinate ad abbassare quello tendenziale fino a farli coincidere.
Ebbene, poiché è chiaro che i prezzi non si bloccano per decreto, non esiste alternativa ad una politica concertativa tra tutti i soggetti, fatta di equilibrio (non moderazione) salariale, riduzione della forbice dei prezzi tra produzione e consumo, politiche di sostegno ai consumi prioritari. Dobbiamo superare l’abitudine a considerare lo Stato sociale composto da argomenti separati tra loro (gli ammortizzatori, la sanità, le pensioni), mentre si tratta di tessere di un unico mosaico. Famiglia, non autosufficienti, esclusi, sono le priorità. E’ solo all’interno di un disegno condiviso che sono possibili e necessari riequilibri di spesa.
Non basta, dunque, più aspettare la ripresa che non c’è, il partito che verrà, la devoluzione, il premierato, la lista unica o i vari Igor Marini. La situazione politica si sblocca, da qualsiasi parte la si guardi, attraverso la messa in campo di una energica azione riformista, che non anteponga gli schieramenti e le tattiche al bisogno di chiarezza che gli italiani richiedono.