Col via libera della Conferenza Stato Regioni, si appresta ad entrare in vigore il Gol, il piano per le politiche attive del lavoro messo a punto dal ministero guidato da Andrea Orlando. Il Gol, grazie al Pnrr, disporrà di risorse ingenti, 4 miliardi e mezzo, più altri 600 milioni per riformare i Centri per l’Impiego. L’obiettivo, sostanzialmente, dovrebbe essere quello di occupare, o ri-occupare, parecchie centinaia di migliaia di persone, 800 mila, per la precisione, dando loro una formazione adeguata al ricollocamento sul mercato del lavoro, con particolare attenzione alle competenze digitali.
Vasto programma, si direbbe, considerando che nel nostro paese c’è una costante carenza di personale dotato di una formazione adeguata alle esigenze: non solo delle imprese, ma del paese stesso. Vale la pena di ricordare che solo un adulto su 5 ha una laurea, e che solo il 60% ha un diploma: venti punti percentuali sotto la media Ue, che sfiora l’80%. Un terzo della popolazione italiana ha appena la terza media, e talvolta nemmeno quella. C’è da chiedersi come sia possibile, nella sesta o quello che è potenza industriale mondiale, questa povertà educativa. Che si riflette inevitabilmente nel mondo del lavoro, dove la famosa “formazione continua” resta al momento più che altro uno slogan, malgrado gli sforzi e le dichiarazioni di intenti.
E’ un gigantesco problema, il basso livello di formazione, ma non è l’unico. Le aziende da anni si lamentano di non trovare personale adeguatamente formato, ma ormai la lamentela va oltre: non si trova personale, e basta. Ed è troppo semplice liquidare il tutto con la solita risposta che “sono le aziende che non vogliono pagare il giusto”. Certamente c’è anche la questione delle retribuzioni troppo basse, ma davvero è solo questo il problema? Nei giorni scorsi, sul Corriere, Massimo Gaggi ha illustrato in un articolo – che consigliamo di recuperare e leggere – la situazione del mercato del lavoro negli Stati Uniti. Il titolo è “Lavoro, la grande fuga”. In sintesi: nell’America post pandemia mancano dieci milioni di lavoratori, e le aziende sono ormai disposte a tutto pur di trovarli, anche a pagare incentivi di “buonentrata” che si aggirano sulle diverse migliaia di dollari (da 3 a 5 mila, per la precisione) a chi “accetta” di farsi assumere. Ma, paradossalmente, malgrado i bonus c’è più gente che se ne va che non gente che entra: in agosto 4 milioni e mezzo di americani hanno lasciato il posto di lavoro di loro iniziativa, licenziandosi su due piedi. Per quale motivo? non si sa esattamente. Lavori troppo faticosi, stressanti, certo: ma resta che quattro milioni e mezzo di persone hanno deciso che non ne valeva più la pena. Va così anche in Gran Bretagna, dove, anche a causa della Brexit, mancano ormai addetti a quasi qualunque tipo di impiego, così come in Germania, dove per motivi imperscrutabili c’è un “buco” di almeno 400 mila lavoratori in meno rispetto alle esigenze.
Anche in Italia anche le cose stanno prendendo questa china. Il mercato del lavoro, negli ultimi mesi, si è fatto dinamico, ci dice l’Inps, con un saldo positivo tra attivazioni e cessazioni, nei primi sette mesi del 2021, per oltre un milione di contratti. Anche lo sblocco dei licenziamenti non ha fatto i danni temuti: si sono avuti, in luglio, gli stessi licenziamenti di giugno, quando era in vigore il blocco. Buono anche l’andamento della cassa integrazione, le richieste a settembre sono crollate del 40% rispetto ad agosto, e del 50% rispetto a un anno prima. Ma non va affatto tutto bene, perché ormai anche da noi mancano addetti alle funzioni più diverse. Le aziende, grandi e piccole, lo dicono con sempre maggiore insistenza. E’ dei giorni scorsi l’allarme lanciato dai costruttori: per realizzare le opere previste dal Pnrr mancano tra i 100 e i 200 mila addetti, dagli ingegneri ai saldatori, dai project manager ai carpentieri. L’edilizia, dal 2008 a oggi, ha perso qualcosa come 600 mila addetti, e adesso, con le grandi opere del recovery plan alle porte, non sa che pesci prendere. E stiamo parlando di un settore trainante per il Pil.
Per questo non basta più limitarsi a dire “ma sono le aziende che pagano poco”. Non è così, o non è sempre e solo così. Qualcosa sta cambiando, ed è qualcosa di profondo, che ha poco a che fare con l’economia, e molto di più con la sociologia, forse addirittura con la filosofia. I lunghissimi mesi del lockdown hanno costretto le persone a riflettere sul senso della vita, scoprendo forse che la vita, appunto, viene prima del lavoro stesso, o quanto meno di “un lavoro” purchessia. C’è chi, con la chiusura di molte attività, si è messo a fare altro, e ha scoperto che “altro” gli piace di più di quello che faceva prima; o c’è chi, lavorando a casa, ha scoperto una nuova dimensione e non vuole tornare al passato, agli infiniti trasferimenti quotidiani casa-lavoro-casa, pronto quindi ad abbandonare l’azienda che richiede la presenza per cercarne una aperta al lavoro da remoto.
La pandemia, insomma, ci ha dato un diverso punto di vista, una diversa gerarchia delle priorità. Ci ha fatto capire che la qualità della vita è ormai, dopo la grande paura, un elemento indispensabile: il pane, certo, ma anche le rose. Quando si parla del “valore del lavoro” dunque, bisogna forse ragionare sul fatto che non è svalutato solo dal punto di vista di chi assume e paga poco, o della politica che sempre meno lo comprende e lo rappresenta, ma anche nell’ottica chi non è disposto a sacrificare tutto per lavorare. E’ una dimensione, questa, di cui bisognerà tenere conto nei prossimi mesi, quando si disegneranno le politiche del lavoro del futuro: per non doverci poi fare i conti brutalmente, tra qualche anno.
Nunzia Penelope