La contrattazione ha fatto il suo tempo, adesso le relazioni in fabbrica devono basarsi sulla cooperazione, sulla collaborazione. Le aziende hanno sempre più attenzione alle persone, il rapporto si fa sempre più stringente, per cui la mediazione sociale è meno necessaria. Pierangelo Albini, responsabile dei problemi sindacali in Confindustria crede che il sindacato debba prendere atto di questa nuova realtà che sta nascendo e in questo senso organizzare la sua presenza.
Albini, che farà il sindacato adesso che la concertazione non c’è più?
La concertazione non dipende dal sindacato, è il governo che non la vuole più. Il sindacato deve accettare questo stato di cose e svolgere il suo mestiere all’interno del modello di relazioni che gli viene offerto, dove non si parla più di concertazione.
Ma perché il governo non vuole più la concertazione?
Pensa che con queste parti sociali sia sterile. Perché a suo avviso la concertazione è troppo difensiva, poco orientata a cambiare le cose, attenta a conservare le rendite di posizione che sono state costruite nel tempo.
Ma tornerà?
Potrà anche tornare, perché è la cosa migliore del mondo che tutti lavorino assieme per lo stesso obiettivo. Il punto è che questo obiettivo non c’è, ciascuno va per la sua strada.
E quale sarà adesso il mestiere del sindacato?
Come sempre quello di dare rappresentanza intelligente dei bisogni dei lavoratori in un mondo che cambia, in uno scenario sempre più vasto. Ma deve cambiare, perché la globalizzazione mette il sindacato di fronte a una sfida nuova, soprattutto mette il discussione le certezze su cui finora il sindacato poteva contare.
Il sindacato deve tornare alla contrattazione?
Secondo me no. Non credo che le relazioni tra chi rappresenta il lavoro e chi rappresenta le imprese debba passare esclusivamente attraverso la contrattazione. Non mi piace l’idea per cui il sindacato esiste solo se contratta, la trovo riduttiva e limitante per il sindacato. La relazione tra le parti è destinata a produrre maggiori benefici se esce da una dinamica puramente negoziale.
Ma come si difendono gli interessi dei lavoratori se non con la contrattazione?
Dentro i luoghi di lavoro le relazioni tra imprese e la gente che vi lavora è sempre più una relazione di tipo cooperativo, non si esaurisce nel rapporto contrattuale. La necessità di una mediazione è meno forte, meno diffusa di quanto non fosse in passato.
Una cooperazione che va verso la partecipazione?
Bisogna intendersi. Io penso all’impresa come a un luogo nel quale ci si sforza tutti assieme di raggiungere obiettivi condivisi a vantaggio di tutti. Dove si condividono le informazioni, le scelte dell’impresa, le modalità attraverso le quali raggiungere i risultati sperati. Nelle grandi realtà aziendali le relazioni industriali sono sempre più relazioni interne, con le persone. Le aziende investono molto sul capitale umano, costruiscono relazioni di dialogo, cooperative, non di contrattazione. E le persone capiscono che hanno i loro diritti, ma anche dei doveri verso le aziende. Così si arriva a un equilibrio più naturale.
Quindi non si deve tornare a contrattare l’organizzazione del lavoro in fabbrica.
Chi pensa che il sindacato debba solo contrattare crede ovviamente che si debba negoziare anche l’organizzazione del lavoro. Ma in una visione più avanzata delle relazioni nei luoghi di lavoro il modello organizzativo di un’azienda non deve essere negoziato dal sindacato, ma aggiustato, modellato con il contributo dei lavoratori. Le imprese non cercano lo sfruttamento intensivo dei lavoratori, non siamo più alla catena di montaggio di Tempi moderni. I modelli organizzativi sono studiati per utilizzare il contributo dei lavoratori. Guardi lo stabilimento Fiat a Mirafiori, quanti sforzi ha fatto la Fiat per avere un modello organizzativo ergonomico, studiato per avere le migliori prestazioni dei lavoratori. Entrando in quello stabilimento tutti si rendono conto di questo forte coinvolgimento e i lavoratori sono orgogliosi di essere dipendenti di questa impresa.
Il sindacato sarà capace di operare una trasformazione in questo senso?
Me lo auguro, ma non vedo grandi segnali in questa direzione. Certo, la crisi rende tutto più difficile. Spero che il sindacato abbia il coraggio di affrontare alcune sfide che la globalizzazione pone al nostro sistema produttivo, accettandole e non cercando soluzioni che in passato erano possibili, ma che in futuro non sono immaginabili.
Altrimenti che accade? Il sindacato rischia di sparire?
Sparire no, può perdere un ruolo da protagonista.
Ma quante sono le aziende che prestano davvero attenzione marcata al proprio capitale umano?
Tutte quelle che vogliono sopravvivere alla crisi e vogliono affrontare le sfide che questa pone. Chi farà questo cambio di paradigma avrà con tutta probabilità più energie per affrontare le sfide dei mercati.
Gli accordi che avere raggiunto con il sindacato vanno in questa direzione?
Noi abbiamo costruito con il sindacato un modo nuovo di rapportarci, fondato sulle regole e non sui rapporti di forza. Ma le regole devono diventare reali, avere corpo, non restare sulla carta. Noi dobbiamo dimostrare di meritarci l’autonomia che chiediamo al Parlamento sulle nostre materie. Quelle regole devono vivere nella consapevolezza di cosa sono. E ciascuno deve avere la capacità di restarvi fedeli. Chi non lo fa resta indietro. E cerca rapporti governati solo dalla rispettiva forza, mentre noi siamo andati avanti. Far passare tutto con la forza e con i contratti è un’idea vecchia.
Massimo Mascini