di Raffaele Delvecchio – Sindacalista d’Impresa
Le relazioni industriali sono tornate di moda per una duplice e distinta ragione: l’una, strutturale, è data dalla necessità di riformare gli assetti contrattuali, l’altra, congiunturale, è data dalla reviviscenza della questione salariale. La distinzione va mantenuta, perché è inopportuno affrontare la modifica degli assetti contrattuali, per la sola necessità, ad esempio, di aumentare i salari.
L’assetto fissato nel ’93, come altre volte in Italia, è stato concepito e definito avendo come riferimento la grande impresa: l’unica ad avere le competenze necessarie per far nascere e sviluppare una cultura ricettiva del salario variabile in funzione della redditività. La piccola impresa non ha leve altrettanto solide per un innesto così delicato e proficuo. L’innesto è stato proficuo per la grande impresa, perché essendo esso elemento condizionante la stessa contrattazione aziendale (il salario deve essere variabile e non ripetitivo di quello nazionale), ha creato i presupposti per evitare una duplicazione di costi correnti. L’estensione alla piccole imprese, per essere neutra rispetto all’altra parte dell’universo economico, deve poter dispiegare effetti analoghi, altrimenti tutti gli equilibri raggiunti nel ‘93 saltano. Questo è il motivo della grande cautela e circospezione che distingue la tattica di Confindustria: in gioco è il rapporto tra piccoli e grandi.
Il primo problema è vedere se gli ambiti di competenza devono cambiare. Se le piccole imprese non sono in grado, dopo 11 anni di tentativi, di praticare forme variabili di salario, e gli accordi territoriali rimangono preclusi, perché la distribuzione indistinta sul territorio della redditività/produttività rimane priva di senso per le associazioni datoriali, il confronto si sposta sulla fissazione anche a livello aziendale dei minimi. Chi fissa i minimi? E come? Se si deve spostare una parte di autorità sul salario corrente a livello decentrato che garanzia viene trovata per evitare duplicazioni? Come viene mantenuto il governo della dinamica, al di là della modellistica scelta? La soluzione dell’accordo interconfederale tra Confartigianato e sindacati va bene? In tale ultimo caso ricordo che il contratto nazionale computa gli aumenti su una base fissa e ristretta (paga base, ex contingenza, edr), a differenza di quel che avviene in molti dei settori coordinati da Confindustria, dove sin dal ’94 il riferimento è operato su retribuzioni più elevate (medie convenzionali o medie di fatto): detto di passata, è questo il motivo per cui nel ’95 a fronte di un tasso di inflazione programmata del 2.5% (’94, governo Berlusconi 1°), e reale del 5.3% (governo Dini) il problema fu affrontato e risolto dalla parti sociali senza il conflitto che dal 2002 s’é creato per scostamenti decisamente inferiori. L’alternativa potrebbe essere la fissazione di “clausole d’uscita” (se ho un contratto aziendale più favorevole, assorbo quello nazionale): anche in questo caso soccorre la realtà, giacché un tale sistema esiste nel settore delle imprese di assicurazione, stipulato da Ania ( si veda art. 3, primo alinea “sono tenuti ad applicare il presente contratto ….. le Imprese di assicurazione e di riassicurazione socie dell’Ania che non abbiano invocato l’art. 2 dello Statuto Ania”).
In verità le parti sociali dopo il ’93 non hanno più praticato confronti approfonditi su questi temi: né ha aiutato il fatto che nella Commissione Giugni nominata da Prodi nel ’97 i sindacati delle due parti siano stati testimoni e non soggetti attivi dell’analisi, come ad esempio era avvenuto con altra Commissione Giugni, quella nominata da Spadolini nel 1981, che diede un contributo decisivo per il passaggio dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto. (Si veda il ricordo di Franco Momigliano, scritto da Mario Dal Co proprio a proposito di quell’esperienza).
Il problema è delicato anche per un altro ordine di motivi. L’attuale autorità sindacale delle categorie deriva dal passaggio effettuato mezzo secolo fa dal livello interconfederale. Cioè, i sindacati dell’epoca, posti dinanzi al tema del decentramento dell’autorità salariale, scelsero la linea verticale delle federazioni di categoria invece che quella orizzontale delle confederazioni sul territorio. Se si fa attenzione al particolare che, insieme con il decentramento aziendale/territoriale, viene chiesto dalle parti sociali l’accorpamento di settori/categorie affini (si vedano in questo senso le tre relazioni di settembre scorso di Musi, Santini e Cantone alle riunioni di direttivo delle rispettive confederazioni), ci si accorge che sembra di essere di fronte a un’operazione a tenaglia (accorpamento al centro, decentramento sul territorio): i soggetti più coinvolti sono le federazioni, giacché non in tutti gli ambiti territoriali sono presenti categorie.
In questo modo si entra nel pieno del problema posto dalla individuazione dei titolari della contrattazione. Se è chiaro chi contratta al centro (le federazioni), meno chiaro e univoco è chi contratta in azienda.
Sarà davvero interessante vedere quale piega assumerà il dibattito e, soprattutto, quali soluzioni prevarranno.